Un NO al referendum per rifondare la Repubblica

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di Luigi Tedeschi 

Un NO al referendum per rifondare la Repubblica

Fonte: Italicum

Ripristinare la costituzione italiana: una rivoluzione possibile

L’Italia ha veramente necessità di riforme costituzionali?

Il referendum del 4 dicembre renderà la costituzione più moderna ed adeguata al mondo globalizzato? In realtà tale riforma, rafforzando i poteri dell’esecutivo ed istituendo un senato non elettivo, è coerente con la struttura oligarchica assunta dalle istituzioni tecnocratico – finanziarie europee e conforme alla progressiva estraneazione della partecipazione popolare al governo delle istituzioni politiche. Nell’attuale referendum il SI e il NO non sono rappresentativi di contrapposizioni ormai obsolete, quali rinnovamento/conservazione, progresso/tradizione, sinistra/destra ecc.. e non si configurano come un plebiscito pro o contro Renzi. La propaganda mediatica induce gli elettori ad aderire alla innovazione rappresentata dal SI dinanzi all’immobilismo istituzionale protrattosi per oltre mezzo secolo. Ma votare NO significa comunque opporre un rifiuto alla deriva antidemocratica ed oligarchica assunta dalla politica con l’avvento della UE e dell’euro.

Una eventuale vittoria del NO non comporterebbe il ripristino delle forme di partecipazione politica popolare già venute meno negli ultimi decenni. Il NO infatti non è sinonimo di patriottismo costituzionale, ma di conservazione dello status quo esistente, della sussistenza cioè di una costituzione formalmente vigente, ma violata ed abrogata materialmente nei suoi principi fondamentali. Nessuna forza politica, anche di opposizione, si è posta il problema della riconquista della sovranità nazionale espropriata dalla UE e del misconoscimento del valore etico – politico del lavoro quale fondamento della vita sociale e comunitaria dello stato italiano enunciato nell’art. 1 della costituzione stessa.

Al di là dei principi enunciati nella costituzione vigente, si è affermata attraverso i trattati europei (nell’ordine: Trattato di Maastricht, Trattato di Lisbona, il SEBC, il Fiscal Compact, il MES), una costituzione materiale che ha di fatto abrogato i principi fondamentali della carta costituzionale. Principi peraltro non soggetti a revisione. Nell’aderire ai trattati europei infatti l’Italia ha effettuato cessioni di sovranità ad organismi internazionali non elettivi ed alla UE, istituzione priva di sovranità statuale. I governi italiani hanno violato l’art. 11 della costituzione che così recita: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. Il ripudio della guerra è stato violato ed ipocritamente aggirato denominando “operazioni di polizia internazionale” o “missioni di pace” la partecipazione italiana alle guerre imperialistiche della Nato. L’art. 11 consente limitazioni della sovranità e non ne prevede eventuali cessioni, che invece comportano la subordinazione dello stato a poteri non elettivi (UE e BCE), ed estranei ad esso. Tali trattati violano inoltre il principio di parità con gli altri stati, dato che gli organismi europei impongono coattivamente allo stato le proprie direttive. Inoltre, le istituzioni finanziarie europee non perseguono certo finalità di pace e giustizia dal momento che impongono solo politiche di austerity e parametri finanziari a danno dei popoli. La sovranità dello stato e con essa l’indipendenza nazionale e soprattutto il fondamento democratico della sovranità popolare sono stati materialmente abrogati. La stessa sovranità economica e monetaria è stata abrogata, e il governo dell’economia è stato devoluto a soggetti privati detentori del potere finanziario quali la BCE e il FMI.

E’ venuto meno inoltre il principio lavorista. Gli artt.1, 4 e 35 definiscono il lavoro come fondamentale strumento di realizzazione della personalità umana. In realtà da tale principio emerge il superamento dello stato liberale, che affermava solo una eguaglianza formale dei diritti dei cittadini, a favore dello stato sociale. I diritti sociali sanciti dall’art. 3 della costituzione, ma specificatamente enunciati nell’art. 32 (diritto alla assistenza sanitaria), nell’art. 34 (diritto all’istruzione), nell’art. 36 (diritto alla giusta retribuzione), nell’art. 38 (diritto alla previdenza sociale), sono stati nei fatti progressivamente compressi se non soppressi attraverso la legislazione imposta dalla UE, che ha condotto alla precarietà del lavoro e a tagli rilevanti della spesa sociale, che hanno profondamente inciso sulla sanità, sull’istruzione, sulla previdenza. Con la fine dello stato sociale è venuto meno il principio di eguaglianza sostanziale, senza il quale, nessuna delle libertà enunciate nella costituzione può avere concreta realizzazione nel contesto storico sociale del paese.

I trattati europei hanno determinato la fine del sistema di economia mista cui si ispira la costituzione. Infatti essa prevede che i servizi essenziali di interesse generale e le fonti di energia possano essere espropriati a favore dello stato o di enti pubblici…. (art.43). Che l’iniziativa privata è libera, ma non può svolgersi in contrasto con l’utilità pubblica e che l’attività economica pubblica e privata, attraverso controlli e programmazioni debba essere indirizzata a fini sociali (art. 41). Che la proprietà privata abbia una funzione sociale e possa essere resa accessibile a tutti (art. 42).

Il processo di liberalizzazione dell’economia, ha determinato dismissioni delle imprese pubbliche nei settori strategici, privatizzazioni selvagge, delocalizzazioni di larga parte della struttura produttiva del paese, ha eliminato il controllo dello stato sull’economia e prodotto l’insussistenza materiale delle norme costituzionali. Lo stato ha devoluto i suoi poteri sovrani al mercato. Afferma a tal riguardo Giuseppe Guarino: “La novità introdotta dal Trattato UE viceversa è che non tutti i poteri negati allo Stato sono divenuti poteri dell’Unione. Ciò è vero per i poteri fondamentali di batter moneta e di imporre restrizioni alle frontiere comunitarie, poteri che sono stati trasferiti dagli Stati all’Unione. Ma nello stesso tempo vi è una enorme area, quella della disciplina dell’economia, che viene sottratta a ogni intervento sia dello stato sia dell’Unione, ove questo non sia diretto a meglio realizzare il principio di una economia di mercato aperta e in libera concorrenza. […] La Costituzione dell’Unione, quale risulta dal Trattato UE, rappresenta quindi una assoluta novità in confronto a ogni altra Costituzione, sia con quelle più antiche, sia con quelle moderne e recentissime. Per la prima volta la disciplina economica è affidata per intero a un unico principio, quello del mercato aperto e della concorrenza”.

Con l’abrogazione materiale dei principi fondamentali della costituzione in Italia, si è dato luogo ad un colpo di stato incruento, in cui è stato il capitalismo globale ad assumere un ruolo sovversivo, ai danni di un popolo proletarizzato e privato dei suoi diritti sociali.

Analogamente a quanto accaduto per il referendum inglese sulla Brexit, gli USA e la UE hanno manifestato il loro appoggio alle riforme costituzionali del governo Renzi. Emerge chiaramente la subalternità del governo italiano ai poteri forti dell’occidente americano. Le classi dominanti dell’occidente, in primis della UE, impongono il proprio neo colonialismo attraverso programmi di riforme in senso liberista che comportano la progressiva espropriazione della sovranità nazionale degli stati.

Quindi il voto per il NO, non è certo di stampo conservatore. Anzi, potrebbe essere l’incipit di una strategia politica volta alla riaffermazione della sovranità nazionale e dei diritti sociali garantiti dalla costituzione ma ormai di fatto disattesi. Secondo la vulgata mediatica attuale favorevole al SI, abrogare significa innovare. A tal riguardo potrebbero essere oggetto di abrogazione le norme costituzionali che impongono il pareggio di bilancio (volute dalla UE) e quelle che sottraggono al referendum popolare i trattati internazionali. Il pareggio di bilancio richiama alla memoria le tristi esperienze storiche dello stato liberale, che raggiunse il pareggio di bilancio a prezzo di un aumento vorticoso dell’emigrazione e dell’impoverimento generalizzato del paese. Riguardo ai trattati internazionali, ci sembra del tutto antidemocratico sottrarre al giudizio popolare (come avviene in tanti paesi europei) trattati che determinano il destino del proprio paese (vedi quelli europei e l’appartenenza dell’Italia alla Nato).

Il ripristino dei principi della costituzione sarebbe quindi una rivoluzione possibile. Ma nessuna forza politica impegnata nella campagna referendaria ha tuttavia manifestato alcuna sensibilità riguardo alla problematica della indipendenza nazionale che è indissolubilmente legata alla sovranità popolare e ad una rifondazione dello stato sociale, in una Italia in cui la questione sociale registra dati sempre più allarmanti, in tema di disoccupazione giovanile, calo demografico e impoverimento generalizzato della popolazione.

Migrazioni di massa, crisi bancaria, subalternità alla Nato: una Europa in perenne disfacimento

L’Europa, che con gli USA, si è resa responsabile delle guerre scaturite dalle primavere arabe, della conseguente espansione dell’integralismo sanguinario dell’Isis e della destabilizzazione del Medio Oriente e del Nordafrica, oggi subisce devastanti ondate migratorie senza essere in grado di elaborare una politica comune e assumere un ruolo indipendente nella geopolitica mondiale. Il fenomeno migratorio di massa, anzi, non fa che accentuare gli egoismi e la conflittualità fra gli stati. La politica nazionale nei paesi europei era incardinata sulla dicotomia destra – sinistra. Tale contrapposizione è venuta meno con l’avvento della UE e dell’euro, in quanto gli stati hanno devoluto la propria sovranità economica e monetaria alla UE. Quindi, data la scontata convergenza politica sulle direttive di Bruxelles, è scomparsa ogni differenziazione tra gli schieramenti di destra e sinistra, che non di rado hanno dato luogo a governi unitari. La classe politica è dunque divenuta una oligarchia subordinata ai tecnocrati di Bruxelles, del tutto estranea alla realtà sociale dei popoli europei, espropriati della democrazia. In tale contesto, sono sorte nuove forze politiche di opposizione, definite spregiativamente “populismi”, che hanno interpretato il dissenso verso le politiche europee di austerity, le migrazioni di massa, la espropriazione della sovranità nazionale da parte della UE.

Alcuni paesi dell’est europeo hanno eretto muri e chiuso le frontiere, in aperto disconoscimento delle normative europee. Ma anche la Gran Bretagna, a seguito della Brexit, unitamente alla Francia perseguono politiche di chiusura verso le migrazioni, a diretto discapito dell’Italia, che nel Mediterraneo è il paese più esposto a tale fenomeno. Dinanzi ad istituzioni europee, in grado solo di imporre politiche finanziarie devastanti per i popoli, ma del tutto incapaci di proporre soluzioni unitarie al problema migratorio, si manifestano fenomeni di aspro dissenso negli stati, per la rivendicazione della sovranità nazionale. I populismi suscitano l’inquietudine delle classi dirigenti europee con relativa criminalizzazione dei partiti populisti. E pertanto l’emergenza europea, secondo i media governativi sarebbe rappresentata dal pericolo populista. Pertanto, perché l’Europa della UE sussista, è indispensabile sconfiggere il nemico populista preservando cioè lo stato di cose presente, con l’incipiente impoverimento dei popoli, il dominio finanziario filotedesco della UE, la fine degli stati. Si avversa il populismo, in nome dei diritti umani e della salvezza della UE, salvo poi, come ha fatto la Germania, concludere accordi per fermare i flussi a suon di milioni di euro con la Turchia di Erdogan, che non è certo un modello di democrazia e di libertà.

Ma non saranno davvero i populismi a restituire la sovranità gli stati né a rovesciare il dominio del capitalismo finanziario della UE. I partiti populisti sono interpreti del dissenso dei popoli contro la UE, ma non sono portatori di ideologie e programmi politici anticapitalisti e, se sono ostili alla UE, non lo sono certo, in larga maggioranza, agli USA e alla Nato. Anzi, per i paesi dell’est europeo l’adesione all’Europa è stata una condizione obbligata per aderire alla Nato. I paesi dell’est europeo sono i più convinti sostenitori dell’alleanza atlantica, ospitano oggi la maggioranza delle basi Nato, sono gli alleati più stretti degli USA nelle strategie espansionistiche in Eurasia, i nemici più estremisti della Russai di Putin. Il populismo europeo esprime un malessere diffuso, ma solo verso la UE, accettando la subalternità agli USA e al sistema capitalista. E’ questa una contraddizione evidente che può condurre solo ad una ulteriore disgregamento e conflittualità interne all’Europa, a tutto vantaggio del dominio americano.

La crisi in Europa non può davvero ritenersi superata. La crescita è debole o inesistente, disoccupazione e diseguaglianze sociali si accentuano. Cresce più di tutti la Spagna che dal 2015 è senza governo. Tale fenomeno rende evidente l’evanescenza della politica nel governo dei paesi europei eterodiretti dall’oligarchia di Bruxelles. Occorre inoltre rilevare che alla crescita in Spagna, fa riscontro una drastica compressione salariale e il tasso di disoccupazione più elevato d’Europa. E’ quello europeo un modello in cui la crescita non comporta redistribuzione della ricchezza e perequazione sociale.

Si accentua altresì la crisi del sistema bancario. La crisi delle banche italiane è un fenomeno relativamente ridotto rispetto alla crisi delle banche tedesche. La ricapitalizzazione del sistema bancario tedesco, effettuata dallo stato per 240 miliardi in aperta violazione delle norme europee coattivamente imposte agli altri stati proprio dalla Germania, non ha sortito gli effetti sperati. Deutsche Bank, già protagonista di scandali finanziari negli USA, versa in una crisi insolubile a causa delle perdite sui titoli derivati del 2008. Nel contempo, dal 2016 è in vigore in Europa la normativa del bail in che comporta il divieto di intervento dello stato nei dissesti bancari. Responsabili delle perdite sono quindi gli azionisti, gli obbligazionisti e in misura minore i correntisti. Tale normativa ha introdotto ulteriori elementi di instabilità nel sistema bancario europeo. Infatti, la prima avvisaglia di crisi genera il panico tra gli investitori, con conseguente crisi di liquidità e vorticosi ribassi delle quotazioni dei titoli bancari. In tale contesto è facile immaginare come tale normativa possa favorire acquisizioni a prezzi di liquidazione delle banche europee da parte dei gruppi americani. La prossima acquisizione di MPS da parte di JP Morgan ne è la conferma.

Il QE di Draghi non ha sortito gli effetti sperati per quanto riguarda la ripresa economica e la deflazione. Il ribasso dei tassi fino al loro azzeramento non si è stato sufficiente a far ripartire una economia europea afflitta da perdurante deficit di domanda. Il 2016 è stato caratterizzato da una incessante instabilità finanziaria. Il calo dei tassi ha paralizzato il mercato obbligazionario e incentivato gli investimenti a rischio più elevato nel mercato azionario. Tuttavia anche il QE finirà e quindi si verificherà un innalzamento dei tassi con conseguente dirottamento dei capitali da un mercato azionario già volatile a quello obbligazionario. Le conseguenze a medio termine di tali eventi non sono prevedibili. Lo spead potrebbe tornare a salire e il debito pubblico italiano potrebbe rivelarsi alla lunga insostenibile.Si verificheranno pertanto nuove bolle finanziarie e nuove crisi globali? Il futuro dell’economia europea e mondiale si presenta assai nebuloso ed incerto.

Presidenziali moralistico – mediatiche e declino americano

Il confronto Trump – Clinton per le presidenziali americane si è rivelato un grande spettacolo mediatico. Trattasi di una bagarre elettorale combattuta  a colpi di moralismo ipocrita e denigrazione sistematica. Alla competizione politica si è sostituito il dogmatismo morale del politically correct. I contenuti politici sono stati oscurati onde orientare l’opinione pubblica sulla indegnità morale dell’avversario. Mentre la Clinton è espressione delle elites della classe dominante, Trump, miliardario grossolano e di scarso appeal mediatico (peraltro misconosciuto da larga parte dello stesso partito repubblicano), rappresenta la “pancia” di un’America ignorata e disprezzata dalle oligarchie politiche e culturali liberals. La Clinton ha definito “miserabile” l’elettorato di Trump: tale definizione rivela il distacco e l’atteggiamento di disprezzo delle classi dominanti rispetto al popolo. La stratificazione sociale prodotta dal capitalismo assoluto, ha generato un sistema politico oligarchico ormai estraneo alla democrazia rappresentativa. Il livello infimo delle manifestazioni di propaganda e dei dibatti tra i candidati, sono fattori rivelatori di una dimensione della politica ormai divenuta evanescente: il dominio della global class finanziaria ha ormai espropriato la politica dei suoi contenuti e la governance è stata di fatto devoluta al sistema economico. Pertanto emergono in tutta evidenza i meccanismi di riproduzione impersonale e anonimi dell’economia capitalista, ormai estesi anche alla politica. Il sistema si riproduce sempre uguale a sé stesso, indipendentemente dai soggetti politici che si avvicendano al governo dello stato.

Trump non rappresenta certo un’alternativa credibile alla attuale classe dominante, di cui anch’egli fa parte. Tuttavia l’orientamento dell’elettorato delle classi subalterne è rivelatore di problematiche sociali interne agli USA, che denotano fenomeni di tensione e disgregazione sociale preoccupanti. Con l’avvento del capitalismo assoluto, che ha incrementato le diseguaglianze sociali e il malcontento popolare, la rappresentatività democratica delle istituzioni è venuta meno. L’innovazione tecnologica, l’impiego di nuove fonti energetiche, la globalizzazione economica, hanno determinato una nuova rivoluzione industriale che estromette masse crescenti di lavoratori dal processo produttivo. Tra le classi subalterne domina frustrazione e rassegnazione. La crescita economica registratasi nel secondo mandato di Obama ha prodotto 8 milioni di nuovi posti di lavoro, ma trattasi in massima parte di occupazione precaria, part-time e scarsamente remunerativa. La crisi del 2008 ha determinato profonde trasformazioni nella società americana. Il ceto medio è in via di estinzione e soprattutto nella popolazione è assai diffuso un sentimento di emarginazione e di abbandono. Non si avverte più la presenza di uno stato che tuteli e rappresenti le esigenze sociali diffuse. I valori civili e religiosi in cui una popolazione multietnica si riconosceva e che avevano una essenziale funzione di integrazione sociale sono in declino.

Probabilmente si sta manifestando una nuova fase involutiva del capitalismo. La disgregazione sociale e la sfiducia crescente nelle istituzioni, avvertite come estranee o assenti ne sono gli effetti più evidenti. La fase di regresso involutivo della società americana si evidenzia nella conflittualità razziale che riemerge con inaudita violenza. Tale fenomeno non è però assimilabile alla protesta contro la segregazione razziale del ‘900. Le contrapposizioni della società post moderna scaturiscono dalla diseguaglianza crescente: il nuovo razzismo è razzismo sociale e non etnico, la conflittualità è tra l’oligarchia dominante e le masse proletarizzate. I conflitti razziali attuali tra bianchi e neri sono conflitti interni a masse impoverite, l’ennesima sconcertante guerra tra poveri. E se bianchi e neri poveri si combattono tra loro, ne trae beneficio solo la classe dominate, perché la protesta si orienta verso falsi obiettivi. Comunque, così come in Italia ed in Europa, anche in America, il nemico da sconfiggere è il populismo di Trump e pertanto l’emergenza delle tensioni sociali viene oscurata a vantaggio della sussistenza dell’ordine oligarchico capitalista.

La vittoria della Clinton è quasi scontata. La Clinton, quale segretario di stato, è stata la più accesa fautrice delle guerre in Medio Oriente, Nordafrica e Ucraina. Ma l’eredità di Obama in politica estera si rivelerà per lei assai pesante, perché le posizioni americane nei conflitti in corso sono assai compromesse. Sono naufragati gli accordi sulla liberalizzazione degli scambi con l’Europa (TTIP), e con l’Asia (TPP). Il ritorno della Russia sulla scena mondiale e l’affermarsi nella geopolitica mondiale dei paesi del BRIC sono elementi che inducono a costatare che il declino degli USA nel mondo è un fenomeno già in stato avanzato. La globalizzazione potrebbe rivelarsi nel prossimo futuro un processo reversibile: le crepe sono evidenti.

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