Guerra in Ucraina: quale è la posta in gioco culturale?

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QUINTA COLONNA

di Roberto Buffagni

Fonte: L’Antidiplomatico

Qual è la posta in gioco culturale (spirituale, ideale, ideologica) del conflitto in Ucraina? Semplificando al massimo, cerco di rispondere alla domanda.
Se la Russia vince – se la Russia ottiene gli obiettivi politici limitati per conseguire i quali sta conducendo, con mezzi limitati, una guerra limitata, “vestfaliana” – segna l’inizio della fine dell’ordine internazionale unipolare liberal-democratico a guida USA.
L’ordine internazionale unipolare liberal-democratico a guida USA s’è inaugurato con la disgregazione dell’URSS. Trent’anni fa, sconfitta l’URSS, gli USA restano l’unica grande potenza al mondo: non hanno più nemici che possano minacciarne la sicurezza.
Esso è un ordine internazionale che ha un contenuto ideologico, il liberal-progressismo. È un contenuto ideologico obbligatorio perché sconfitti i suoi avversari storico-ideali (ancien régime, fascismi, comunismo) il liberalismo si conforma al suo concetto, e si manifesta come universalismo politico.
Il liberalismo è universalista perché si fonda sui “diritti inalienabili dell’individuo”. Postula dunque che l’intera umanità è composta da individui, tutti eguali in quanto dotati dei medesimi “diritti inalienabili”. La relazione di interdipendenza tra l’individuo e gli altri individui, tra l’individuo e la comunità politica, tra l’individuo e la dimensione trascendente (Dio) viene omessa o, nel linguaggio lacaniano, forclusa: anche perché famiglia, comunità politica, Dio sono le ragioni e le bandiere del primo avversario storico del liberalismo classico, l’alleanza Trono-Altare ossia la Cristianità europea.
Questa omissione o forclusione conforma il liberalismo alla logica capitalistica, nella quale esistono solo individui: individui produttori e individui consumatori, che si legano astrattamente tra loro mediante lo scambio di merci, compresa la merce-lavoro.
Esempio uno: “Noi riteniamo che sono per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità” (Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America, 1776).
Esempio due: “I rappresentanti del popolo francese costituiti in Assemblea Nazionale, considerando che l’ignoranza, l’oblio o il disprezzo dei diritti dell’uomo sono le uniche cause delle sciagure pubbliche e della corruzione dei governi, hanno stabilito di esporre, in una solenne dichiarazione, i diritti naturali, inalienabili e sacri dell’uomo.” (Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, 1789).
Privo di avversari ideologico-politici che possano limitarne la manifestazione nell’effettualità storica, l’universalismo politico liberale, contenuto ideologico dell’ordine internazionale unipolare a guida USA, procede ad ampliarsi secondo la sua logica, e a estendersi all’universale umanità.
Esso tende ad estendersi all’universale umanità, intesa come collezione di individui, mediante la logica capitalistica (globalismo economico) e mediante la politica estera statunitense (globalismo politico). Il centro direttivo USA ritiene che politica estera statunitense e logica capitalistica siano perfettamente compatibili e operino a conseguire lo stesso scopo strategico finale.
La logica strategica dell’ordine internazionale unipolare a guida USA è la graduale creazione, prima de facto, poi de jure, di un governo mondiale. Esso controllerà un insieme di Stati, che gradualmente adotteranno sia la logica capitalistica, sia il regime sociale liberal-democratico dei quali gli Stati Uniti rappresentano il metro campione. Gli Stati Uniti d’America sono il “benign hegemon” mondiale.
La stessa logica strategica sarebbe stata adottata anche dall’URSS, qualora essa avesse vinto la Guerra Fredda e si fossero disgregati gli USA: perché anche il comunismo, come il liberalismo, è un universalismo politico. Ovviamente, il contenuto ideologico di un ordine internazionale unipolare a guida URSS sarebbe stato il comunismo, e non il liberalismo: la somiglianza che qui rilevo è puramente formale, logica.
Il postulato ideologico dell’ordine unipolare liberal-progressista a guida USA è che tutti gli individui componenti l’intera umanità non possono non desiderare che siano affermati nell’effettualità i “diritti inalienabili” di cui sono virtualmente titolari, anche se, magari, ancora non ne sono consapevoli.
Perché questi “diritti inalienabili dell’individuo” si realizzino nell’effettualità storica può essere sufficiente l’adesione alla logica capitalistica del loro sistema economico. Il premio che essa riserba a chi vi aderisca è il benessere, la ricchezza, la modernizzazione scientifica e tecnologica, e il conseguente “empowerment” degli individui, che nel settore politico conduce all’instaurazione di una liberal-democrazia, il regime storicamente e logicamente più conforme alla logica capitalistica.
Le liberal-democrazie sono per definizione pacifiche. Tra liberal-democrazie non si danno guerre. La competizione tra liberal-democrazie si limita alla competizione economica, un importante fattore di sviluppo i cui effetti collaterali indesiderati si possono ridurre con opportuni interventi politico-amministrativi.
Da questi postulati ideologici discende la scelta statunitense di una politica di “engagement” con la Cina.
Secondo logica capitalistica (teoria dei costi comparati di Ricardo) è perfettamente razionale integrare l’economia cinese con l’economia americana. Lo sviluppo economico cinese è poi destinato a trasformare anche la Cina in una liberal-democrazia, dunque in un pacifico partner della liberal-democrazia USA.
Secondo la logica di potenza, invece, con la disgregazione dell’URSS cessa ogni interesse USA all’alleanza con la Cina, che il presidente Nixon stipulò negli anni Settanta in funzione antisovietica. La scelta di favorire lo sviluppo economico della Cina è una scelta autolesionista, un errore strategico di prima grandezza perché la potenza economica è “potenza latente” destinata a trasformarsi in “potenza manifesta” ossia potenza militare.
Gli eventi storici dimostrano che la logica di potenza sconfigge la logica capitalistica. La Cina, già demograficamente fortissima, si sviluppa economicamente, inizia a sviluppare potenza militare, diviene una grande potenza nucleare, non si trasforma in una liberal-democrazia, e si profila come concorrente alla pari degli Stati Uniti, che dal 2017 in poi la designano come avversario principale. Essa può infatti divenire, in un futuro prossimo, egemone regionale dell’Asia Settentrionale.
Risalita dallo sfacelo impostole dalla sconfitta dell’URSS e dal susseguente “periodo di torbidi” provocato dalla introduzione della logica capitalistica nella sua forma più violenta e predatoria, la Russia si ritrova, si dà una direzione politica coesa ed efficace, si stabilizza come grande potenza. La sua “potenza latente” economica è insufficiente, la demografia manchevole, ma la sua “potenza manifesta” militare, convenzionale e nucleare, basta a garantirne l’autonomia politica rispetto all’egemone mondiale statunitense. Essa però, ad oggi, non è in grado di divenire egemone regionale, né lo sarà in futuro a meno che non riesca ad invertire la sua curva demografica e a sviluppare a ritmi cinesi la sua “potenza latente”.
Questa è la situazione odierna: con il sorgere di due grandi potenze politicamente capaci di autonomia, l’ordine internazionale unipolare liberal-democratico a guida USA è oggettivamente finito.
Nei decenni precedenti, e specialmente a partire dagli anni Duemila, gli Stati Uniti procedono ad attuare il loro progetto di uniformazione del mondo (globalizzazione o mondializzazione economico-politica). Vi impiegano tanto la persuasione (“soft power”) quanto la forza militare (“hard power”), combinandole.
L’episodio paradigmatico della combinazione tra soft e hard power nel perseguimento del progetto di uniformazione del mondo è la seconda invasione dell’Irak (2003). Essa si propone l’obiettivo di sconfiggere con le armi lo Stato irakeno, definito una “dittatura”, e di “esportarvi la democrazia”. L’operazione “Desert Storm” è intesa come primo passo di un progetto più ambizioso, che deve estendersi mediante la stessa combinazione di soft e hard power all’Iran e alla Siria, ridisegnando l’intero Medio Oriente.
Il testo che meglio illustra la ratio del progetto è “Shock and Awe: Achieving Rapid Dominance”, di Harlan K. Ullman and James P. Wade[1], 1996.
In estrema sintesi, il progetto Shock and Awe combina una dottrina militare operativa con una dottrina psicologico-culturale. “Shock” significa “trauma”, “Awe” significa “timore reverenziale”, una parola che designa l’emozione travolgente che si prova di fronte alla manifestazione del sublime naturale (tifoni, terremoti, eruzioni vulcaniche) o del divino (apparizioni miracolose della potenza divina). Una buona benché libera traduzione potrebbe essere “Sidera e converti”.
Nel testo di Ullman e Wade infatti si argomenta che l’effetto psicologico sulla volontà del nemico di una tempesta di fuoco che lo soverchi e travolga come un’eruzione vulcanica o una manifestazione del Dio degli eserciti sortisca un effetto di vera e propria “siderazione”. La siderazione traumatica induce “awe”, timore reverenziale, e consente di convertire il nemico: convertirlo al modello di uomo e società portato da chi sa dispiegare tanta inarrivabile potenza (ovviamente la potenza è un attributo divino). Un modello – la liberal-democrazia – che d’altronde, garantendo i “diritti inalienabili dell’individuo”, è conforme a ciò che tutti gli uomini non possono non desiderare per sé, non appena siano liberati dai modelli oscurantisti cristallizzati negli Stati “dittatoriali”, non liberal-democratici. Nel testo si fa espresso riferimento all’esperienza del Giappone, convertito alla liberal-democrazia dopo una campagna di bombardamenti a tappeto terrificante, e suggellata dal lancio di due bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki.
Il progetto del ridisegno del Medio Oriente si risolve in una catastrofe politica, o ovviamente in una catastrofe umana per l’Irak. L’Irak sconfitta sul campo precipita nel caos e nella guerra civile, ed entra nella zona di influenza iraniana.
Un ulteriore progetto di esportazione della democrazia mediante la combinazione di soft e hard power, l’invasione e occupazione dell’Afghanistan, dopo vent’anni finisce anch’esso in una catastrofe politica per gli Stati Uniti, umana per l’Afghanistan.
Il progetto di esportazione della democrazia in Siria si arresta a metà dell’opera per l’intervento russo che sostiene il governo di Bashar El – Assad, e termina con una sconfitta politica degli Stati Uniti, una catastrofe umana per la Siria.
L’unico progetto di esportazione della democrazia che si concluda con un successo politico americano è la frammentazione della Jugoslavia, con la creazione dello Stato del Kosovo, e l’integrazione nella NATO di Slovenia, Croazia e Montenegro. La catastrofe umana provocata dalla guerra civile jugoslava è terribile.
Tranne (forse, è discutibile) il caso jugoslavo, gli altri interventi di esportazione della democrazia USA non rispondono a interessi strategici americani. Secondo logica di potenza, gli Stati Uniti non avevano alcuna ragione di occupare l’Irak, sino ad allora cliente degli USA, o l’Afghanistan, che non poteva minacciare l’India o il Pakistan, o la Siria, che non poteva minacciare Israele e apparteneva invece, storicamente, alla sfera d’influenza russa. Si tratta di guerre puramente ideologiche, decise in quanto conformi a un progetto globale di riconfigurazione economica, politica, culturale dell’intero mondo. (Poi ovviamente nella dinamica della decisione pesano anche gli interessi economici e istituzionali di tutti i centri coinvolti).
Il fallimento catastrofico del progetto di riconfigurazione globale del mondo in un insieme di pacifiche liberal-democrazie capitalistiche guidate dal metro campione di tutte le liberal-democrazie capitalistiche, gli Stati Uniti d’America, e il sorgere delle due grandi potenze cinese e russa, impone una battuta d’arresto finale all’ordine internazionale unipolare liberal-democratico americano, e ne segna la fine nell’effettualità storica.
Inizia a sorgere l’ordine internazionale multipolare.
La guerra in Ucraina, che vede la vittoria militare della Russia e la sconfitta politica degli Stati Uniti, è la prima doglia del parto dell’ordine internazionale multipolare.
La guerra ucraina è tutta – dalle cause lontane, alla conduzione delle operazioni militari, all’esito politico – conforme alla pura logica di potenza. La Russia scende in campo per difendere un interesse vitale: negare a un’alleanza militare straniera la creazione di un bastione alle proprie frontiere. Essa conduce una guerra limitata per obiettivi politici limitati, una guerra “vestfaliana” che non si prefigge di convertire o uniformare a sé il nemico ma semplicemente di impedirgli di nuocere alla propria sicurezza. La Russia cerca la trattativa col nemico in parallelo alla conduzione delle operazioni militari, come da Westfalia al Vietnam si è sempre fatto.
La causa lontana della guerra in Ucraina è l’espansione a Est della NATO. Secondo logica di potenza, essa non è conforme all’interesse strategico degli Stati Uniti, perché provoca inutilmente la Russia, una potenza che non è in grado di diventare egemone regionale sul continente europeo; e perché getta la Russia nelle braccia della Cina, della quale sarebbe rivale naturale (4250 km di frontiera in comune). Nonostante i ripetuti, chiari moniti russi, gli americani perseguono l’espansione NATO sino all’Ucraina, integrandovela de facto se non de jure, e provocano le attuali ostilità.
Quest’ultima forzatura statunitense è anche l’ultima manifestazione della logica dell’ordine internazionale unipolare liberal-democratico.
L’Ucraina è un interesse vitale russo, ma non è un interesse vitale degli USA. Infatti, gli USA si guardano bene (e razionalmente) dall’intervenire militarmente a sostegno dell’Ucraina.
Però, la reazione statunitense all’invasione russa è, su tutti i piani tranne quello che conterebbe davvero ossia il piano militare, violentissima. Contro la Russia, USA e UE scagliano un vero e proprio anatema, quando sarebbe nell’interesse americano (per tacere dell’interesse europeo) limitare i danni provocati dal proprio errore strategico e, in vista del conflitto con la Cina, non alienarsi radicalmente la Russia.
Perché l’anatema? Qual è la posta in gioco, per gli USA?
Per gli USA, la posta in gioco è il prestigio della loro posizione di guida dell’ordine internazionale unipolare. Dico “il prestigio”, perché nei fatti, con il sorgere di due grandi potenze come Russia e Cina, l’ordine internazionale unipolare è già finito.
Quel che non è finito è “il prestigio” di guida di quell’ordine, che gli USA ancora detengono e vogliono conservare.
È infatti questo prestigio che consente agli USA di presentarsi nel mondo come Stato eccezionale, che non conosce né superiori né eguali, e che dunque può pretendere di presentarsi come “giudice terzo” nelle controversie internazionali. Da questo scranno inarrivabile gli USA possono decidere che cosa è giusto, che cosa sbagliato, che cosa bene e che cosa male; quale regime sociale sia accettabile (la democrazia liberal-progressista) e quale inaccettabile (tutti gli altri); possono chiamare le loro guerre “instaurazione dei diritti e della democrazia”, e se le perdono, “sfortunati errori”: mentre le guerre altrui, vinte o perse, sono sempre “crimini”; possono insomma, come Dio nella teologia islamica, decidere a piacer loro se il fuoco debba esser caldo o freddo.
Con la sconfitta politica che conseguirà alla guerra ucraina, questo prestigio degli Stati Uniti, o se si vuole la loro “investitura” di eccezionalità e superiorità, comincerà a logorarsi.
Non può essere “giudice terzo” nelle controversie internazionali uno Stato incapace di eseguire le proprie sentenze.
Non può essere “eccezionale” uno Stato che promette protezione a un suo cliente, lo spinge a confrontarsi con un’altra grande potenza minacciandone un interesse vitale, e poi lo abbandona al suo destino.
Non può realizzare universalmente nell’effettualità i “diritti inalienabili dell’individuo” se rifugge dal confronto militare con una “dittatura” come la Russia, che agisce in conformità alla pura logica di potenza, la quale è sempre particolare, mai universale: perché la ratio della logica di potenza è l’anarchia del sistema-mondo, nel quale ciascuna potenza è costretta a garantire da sé la propria sicurezza, nel conflitto permanente con le altre.
Il prestigio o investitura degli Stati Uniti come guida dell’ordine internazionale unipolare liberal-democratico è il garante, o se si vuole, nel linguaggio della finanza, “il sottostante”, di tutto il pensiero dominante occidentale: “diritti inalienabili dell’individuo”, liberal-democrazia, primazia dell’economico, cosmopolitismo, universalismo politico.
Logoratosi e poi spentosi questo prestigio, deposta questa investitura, il pensiero dominante occidentale smetterà di essere dominante. I luoghi comuni, i riflessi condizionati, le certezze che oggi il pensiero dominante dà per scontate non saranno più scontate. Chi pensa nel mondo occidentale, ossia tutti gli occidentali, pensatori o no che siano, dovranno di nuovo interrogarsi su che cosa è uomo, che cosa è mondo, che cosa è giusto, che cosa è sbagliato, che cosa male e che cosa bene: e dovranno chiedersi “da che punto di vista pensiamo e parliamo”: un punto di vista che non sarà mai più l’unico vero punto di vista da cui guardare il mondo e l’uomo.
Come diceva un orientale,” Grande è la confusione sotto il cielo, quindi la situazione è eccellente.”

Gheddafi, la parabola di un dittatore durato 42 anni

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di Ferdinando Bergamaschi

Gheddafi: esattamente dieci anni fa il raìs libico veniva catturato e ucciso dai ribelli del Consiglio nazionale di transizione. In un canale di scolo presso Sirte si chiudeva così la prima fase di un attacco da parte della Nato, della Gran Bretagna e soprattutto della Francia, che è difficile non definire subdolo e ipocrita. Beninteso, il Colonnello fa parte di quella schiera di dittatori che non vanno presi troppo sul serio. Sbruffone, despota, ridicolo nello sfoggiare ovunque la sua divisa ridondante, cultore di un maschilismo che sarebbe stato fuori tempo anche 100 anni fa.

Detto questo, l’impresa che i vertici occidentali sono riusciti a confezionare in Libia, rovesciando il regime del Colonnello se non fa rimpiangere Gheddafi, come minimo ci fa pensare che qualcosa di brutto è stato sostituito con qualcosa di peggio. E che in questi anni tutti noi abbiamo imparato a conoscere: la destabilizzazione totale di uno Stato sovrano in pieno Mediterraneo.

Un po’ di storia 

Con il colpo di Stato militare del settembre 1969, Gheddafi rovescia la monarchia di re Idris I e instaura una dittatura militare con forti tratti populistici. Egli sostanzialmente aderisce al baathismo, la corrente politica del socialismo nazionale arabo. Questo movimento è al contempo nazionalista e panarabo. È un movimento di sinistra, ma anti-marxista in quanto anti-materialista. È stato il leader egiziano Nasser il principale esponente nel mondo arabo di questa corrente, che lui stesso teorizzerà e che prenderà anche il nome di Terza Via Universale (nel novero dei suoi principali fautori vi sono, oltre a Nasser, Saddam in Iraq, Ben Bella in Algeria, Assad in Siria). 

Gheddafi, Reagan e Mandela

Negli anni ’80 si intensificano da parte del regime di Gheddafi le scelte anti americane e anti israeliane in politica estera. Il Colonnello non solo sostiene e finanzia l’Olp di Arafat ma anche l’Ira irlandese. Il suo Governo diventa il nemico numero uno degli Stati Uniti d’America e della Nato, tanto che nell’aprile 1986 il presidente statunitense Reagan decide di bombardare il suo bunker, dal quale comunque Gheddafi esce illeso. Ma tra tanti nemici in occidente il Colonnello può contare su un’amicizia di grande prestigio, quella di Nelson Mandela che sempre gli sarà grato per gli aiuti che gli aveva fornito all’Anc e ai movimenti per la lotta all’apartheid. 

Venendo a tempi più recenti, Gheddafi, dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001, assume una posizione fermamente nemica del fondamentalismo islamico (ciò d’altra parte è coerente con la dottrina baath, sostanzialmente moderata in campo religioso), mostrando anche aperture verso Washington. Tanto che George W. Bush toglie la Libia dalla lista degli stati canaglia. Più tardi, il Colonnello elogerà Obama, considerando un grande evento storico il fatto che egli fosse diventato presidente degli Stati Uniti, un Paese nel quale fino a pochi decenni prima neri e bianchi non potevano neppure prendere un caffè insieme.

Il trattato di Bengasi

Non si può non ricordare infine il capitolo delle relazioni bilaterali. Nel 2008 l’allora premier Berlusconi decide saggiamente – sulla linea filoaraba e mediterranea che era stata di AndreottiFanfaniMoro e Craxi –  di stipulare degli accordi commerciali e politici con la Libia del Colonnello. Così verrà firmato tra Italia e Libia il Trattato di Bengasi. Questi accordi erano particolarmente vantaggiosi sia in materia di immigrazione, sia, soprattutto, per quel che riguardava la questione energetica, seguendo la via ancora attuale degli accordi bilaterali che aveva indicato più di sessant’anni fa in questo campo Enrico Mattei.

Il Trattato di Bengasi oggi più che mai sarebbe stato utile per l’Italia che si trova a pagare rincari energetici enormi. Ma purtroppo poi lo stesso Berlusconi si accoderà agli Stati Uniti, alla Gran Bretagna e alla Francia in una lotta alla Libia di Gheddafi, che si rivelerà dannosa anche per il nostro Paese. E che da allora vede la Libia ancora divisa dalla guerra civile. 

Siris, l’Isis cerca la rivincita

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Segnalazione del Centro Studi Federici

Attacchi condotti nel 2020? 593. Uccisi in queste azioni 901 uomini delle Forze Democratiche Siriane (Sdf, le milizie di curdi, arabi e siri riunitesi nel 2015 sotto l’egida degli Usa), 407 soldati dell’esercito siriano e 19 miliziani di altri gruppi.. La geografia di questi attacchi? Per la maggior parte intorno a Deir-ez-Zor (389), poi Raqqa (59), Hasakah (39), Homs (38), Aleppo (36) e Dar’a (29). Questi, almeno, i dati diffusi da Amaq, l’agenzia di notizie comparsa per la prima volta nel 2014, ai tempi dell’assedio di Kobane, e che fa da portavoce ufficioso del gruppo Stato islamico (Isis).
 
È certo possibile che i numeri siano un po’ gonfiati a scopo di propaganda. Forse l’Isis non ha lanciato tutti quegli attacchi e non ha ucciso tutte quelle persone. Ma un fatto è certo: i terroristi dello Stato islamico stanno cercando la rivincita in quelli che un tempo erano i loro caposaldi. Ultima propaganda a parte, certi segnali erano inequivocabili. 
L’aumento degli attentati, soprattutto di quelli che rivelano la mano dell’Isis come le auto-bomba tra i civili e i kamikaze. Non a caso il 2020 si è concluso, il 31 dicembre, con un attacco a un autobus che viaggiava tra Palmira e Deir ez-Zor, che ha fatto 25 morti. Vi sono poi gli omicidi mirati, soprattutto ai danni della stampa indipendente e degli attivisti dei movimenti filo-curdi, e l’inesorabile crescita di atti di violenza compiuti in pieno giorno da uomini mascherati svelti poi a sparire confusi nella folla.

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Non complottismo ma realismo

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di LUCIANO FUSCHINI

Fonte: Il giornale del Ribelle

C’è un complottismo che fantastica e vaneggia, senza curarsi di fare i conti con la realtà. C’è d’altra parte l’atteggiamento di quanti sono convinti che molto di ciò che viene martellato quotidianamente da governi e grandi media è propaganda che nasconde le vere motivazioni. Costoro tentano di dedurre le ragioni profonde attenendosi ai fatti noti e cercando di interpretarli e connetterli. Questo non si chiama complottismo: è realismo. I primi 20 anni del millennio sono stati scanditi da eventi epocali, presentati all’opinione pubblica sotto una veste tanto incredibile da configurarsi come fake news sistematiche. Proviamo a individuarne qualche linea riconoscibile e coerente.

La prima enormità che ha aperto il millennio è stato l’evento dell’11 Settembre. Sono riusciti a farci credere che 19 beduini, dopo un corso di pilotaggio di pochi giorni, abbiano sequestrato alcuni grandi Boeing usando come arma dei taglierini, poi abbiano guidato quei mastodonti contro il muro di recinzione del Pentagono, tanto basso da richiedere di guidare il Boeing a pochi metri da terra, e contro due grattacieli. Gli aerei che li hanno colpiti sono stati due ma i grattacieli collassati sono risultati tre. Del terzo si è parlato pochissimo perché avrebbe insinuato dubbi sull’intera storia. Nel giro di poche ore sono stati individuati tutti gli attentatori perché uno strano caso ha fatto ritrovare intatti i documenti di uno di loro nell’inferno di braci e ceneri fumanti. Quello che è successo poi fa comprendere come sono andate presumibilmente le cose. Si cercava un pretesto per invadere Afghanistan e Iraq. L’obiettivo era quadruplice e strategicamente assai rilevante: impadronirsi di un’area decisiva per i rifornimenti di materie prime energetiche; circondare l’Iran; collocare altre basi militari vicino ai confini di Russia e Cina; favorire i disegni di Israele. Questo non è complottismo, è realismo basato sui fatti. Benintesi: l’estremismo islamico esiste, ma non è mai stato una minaccia seria per il resto del mondo, a causa delle sue divisioni interne e della sua debolezza. La conferma è venuta da un altro grande evento di questo inizio di millennio: nel 2014 improvvisamente un’armata internazionale islamica, Isis, faceva la sua apparizione nel vicino oriente, travolgendo ogni difesa in una avanzata che sembrava irresistibile. In realtà quei guerrieri fanatici si spostavano in colonne di automezzi non attraverso la jungla del Viet Nam ma in mezzo a deserti. Erano facilmente individuabili e i cacciabombardieri o i droni della NATO ne avrebbero fatto ferraglia fumante nel giro di poche ore se avessero voluto. Lasciarono fare. Del resto l’internazionale islamica era stata utilizzata da USA e NATO già in Afghanistan contro i sovietici, in Jugoslavia contro i serbi e in Libia contro Gheddafi. In quel 2014 doveva servire a rovesciare il governo iracheno troppo amico dell’Iran, a minacciare l’Iran stesso e a spodestare Assad in Siria, già sotto attacco. La cosa non funzionò per la reazione dell’Iran e l’intervento russo a sostegno di Assad. I terribili e invincibili guerrieri di Allah furono spazzati via in tempi brevi. Questa ricostruzione non è complottismo: è realismo.

Un’altra stranezza è stata la folgorante apparizione di Greta. Ci hanno raccontato che questa ragazzetta svedese ha commosso il mondo piazzandosi davanti a scuola con un cartello che denunciava il riscaldamento globale. In breve è diventata una star, ha parlato all’ONU, ha interloquito con i grandi del mondo puntando il ditino accusatore e spianando la grinta. Doveva essere chiaro a tutti che questo personaggio è stato volutamente creato dal nulla dai media asserviti ai poteri transnazionali, per un fine che evidentemente era il lancio del nuovo grande affare della green economy. Dedurlo non è complottismo: è realismo.

La più gigantesca messinscena della storia dell’umanità è la risposta globale all’epidemia di Covid. Il virus esiste, è molto contagioso e può essere mortale. Negarlo significa collocarsi fra i complottisti deliranti. Tuttavia si tratta di una malattia che uccide lo zero virgola qualcosa per cento della popolazione nel suo complesso. Una percentuale che sostanzialmente non muta sia nei Paesi che hanno imposto clausure rigorose sia in quelli i cui governi si sono limitati a raccomandazioni. L’enfasi data alle centinaia di migliaia di morti negli USA di Trump è tutta propaganda di regime. I nostri 70.000 morti valgono quanto le centinaia di migliaia di americani, perché la popolazione degli USA è di 330 milioni, quindi le percentuali sono analoghe. L’Italia è forse il Paese che ha imposto sacrifici e isolamenti più di ogni altro, eppure è uno dei Paesi che hanno il più alto numero di morti. Si può concludere che museruole e distanziamenti servono a quasi nulla. Allora perché questo massacro di piccole e medie imprese, questa devastazione del settore del turismo, queste reclusioni di bambini e ragazzi che danneggiano o compromettono la loro crescita? Perché questa volontaria distruzione di un’economia e di una società? Per provare a rispondere bisogna riesumare un altro grande evento di questi cruciali 20 anni: la crisi finanziaria del 2008 che ha innescato una profonda crisi economica. Allora non si fece nulla per ovviare alle storture che avevano prodotto il disastro. Ci si limitò, sull’esempio di Obama, a tamponare la frana puntellando le banche con i soldi dello Stato, quindi dei contribuenti, senza che lo Stato entrasse nella direzione degli istituti di credito che aveva salvato. In realtà ora si può capire che i poteri transnazionali (giganti del web, grandi imprese multinazionali, grandi banche, responsabili dei maggiori servizi segreti, talvolta in competizione fra loro ma alla fine capaci di trovare una linea comune nelle conventicole più o meno massoniche) avevano compreso che un tipo di economia era ormai insostenibile e che si doveva operare un totale riassetto. Greta era servita a rendere popolare il tema della green economy, ma ci voleva ben altro. L’occasione è stata offerta da Covid. Bisognava terrorizzare la popolazione mondiale per fare accettare profondi e dolorosi cambiamenti, camuffando il fallimento di un sistema dietro la motivazione sanitaria: la colpa delle difficoltà è del terribile virus ma noi facciamo tutto per il vostro bene. I poteri transnazionali, che controllano governi e grandi media, hanno probabilmente compreso, dopo il crollo del 2008, che il vecchio mondo non funzionava più. I debiti pubblici non più sanabili, il consumismo, il turismo di massa, la pressione eccessiva sull’ambiente, lo spreco di energia, una demografia in continua crescita, la tendenza alla caduta del saggio del profitto, tutto ciò avrebbe condotto a breve termine a un collasso la cui responsabilità sarebbe stata attribuita proprio ai poteri che quel sistema avevano instaurato. Hanno elaborato un piano che è già in pieno svolgimento, anche grazie al Covid. Indulgenza sui debiti pubblici, dopo tanto rigorismo; riduzione della mobilità di massa; green economy; smart working; abbandono dei luoghi deputati ai grandi spettacoli e ai grandi raduni, a favore della fruizione in streaming; digitalizzazione integrale, robotizzazione; controllo di ogni individuo del pianeta attraverso gli strumenti informatico-sanitari e la repressione poliziesca; progressivo abbandono della democrazia parlamentare rappresentativa; reddito di cittadinanza per i milioni di disoccupati che l’automazione creerà; distruzione dei piccoli esercizi commerciali e delle piccole e medie imprese, a favore delle grandi concentrazioni. Per la piena realizzazione del progetto occorre un rafforzamento del ruolo dello Stato, che dovrà regolare i mercati, reperire i fondi per il reddito di cittadinanza e organizzarne la distribuzione, salvare le banche che rischiano nuovi crolli per i crescenti crediti inesigibili. Non a caso serpeggia una certa ammirazione per il sistema cinese, quello di maggiore successo in questo inizio di millennio.

Questa trasformazione è in atto e viene ormai dichiarata apertamente. Si sta svolgendo sotto i nostri occhi un grandioso esperimento che per ora ha pieno successo. Le masse del pianeta sono state facilmente inquadrate in un gregge che segue docilmente il pastore. Il progetto in corso non ha alternative. Non esiste una forza politica di una certa consistenza che abbia un disegno strategico diverso. I cosiddetti sovranisti “di destra” non sono veri sovranisti perché si limitano a qualche critica dell’UE, sono fedelissimi a USA e NATO, i loro capi si affrettano a rendere omaggio a Israele con lo zucchetto in testa, sono proni al dio dei Mercati e alla libera iniziativa privata. Il sovranismo “di sinistra” è ideologicamente inconsistente e ha percentuali paragonabili a quelle delle vittime di Covid.

Tuttavia non è detto che la grande trasformazione già iniziata vada in porto. La green economy è solo uno slogan perché la digitalizzazione e la robotizzazione esigono una quantità crescente di energia, che non potrà essere pulita come si illudono i sognatori della decrescita felice; computer e robot utilizzano materiali come le terre rare, che sono chiamate così proprio perché la loro quantità è molto limitata; i problemi ambientali e demografici sono ormai senza soluzione; le masse di senza lavoro ridotte a vivacchiare con un misero reddito di cittadinanza si aggiungeranno ai bivacchi degli emigrati sfilacciando un tessuto sociale già lacerato; la richiesta di cancellare in tutto o in parte i debiti pubblici non sarà ben accolta dai creditori, tanti e potenti. Al fondo di tutto c’è poi la contraddizione fra un progetto che è improntato a un capitalismo estremo che mette tutto il potere e tutte le ricchezze in poche mani e la necessità di uno Stato forte, non solo fiancheggiatore del capitale ma anche regolatore. La tentazione di imitare il modello cinese è illusoria. In Cina prospera l’iniziativa privata ma vige ancora un piano economico fissato dai poteri pubblici, che orienta e regola l’economia; il credito è pressoché interamente gestito dal potere politico, il commercio con l’estero è diretto dallo Stato, circa la metà delle grandi imprese sono statali o a partecipazione statale. Inoltre la Cina non ha conosciuto la democrazia parlamentare pluripartitica; da 70 anni domina la dittatura di un partito unico; sulla mentalità cinese ha ancora un peso notevole la tradizione confuciana e taoista, a noi estranea. Il modello cinese non è esportabile da noi per tutte queste ragioni.

In conclusione, non c’è una forza politica organizzata che possa ostacolare la trasformazione in corso, ma la forza delle cose è tale che il Grande Reset potrebbe fallire. Ne scaturirebbe non la liberazione dei popoli oppressi ma una barbarie di cui sono già evidenti i segni e che lascerà soltanto macerie. Su quelle ricostruiranno i sopravvissuti.

 

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Perché Israele ha colpito la Siria subito dopo l’accordo di Idlib

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di Fulvio Scaglione

Perché Israele ha colpito la Siria  subito dopo l’accordo di Idlib

Fonte: Gli occhi della guerra

La cronaca degli ultimi eventi in Siria, dai primi bombardamenti russi sulla provincia di Idlib alle minacce americane, dal ricognitore russo abbattuto dalla contraerea siriana per colpa delle manovre dei caccia di Israele ai missili su Latakia alle bombe al fosforo sganciate dagli americani su Deir Ezzor, è ovviamente drammatica.
Ma il sottofondo politico è più complesso di quel che sembra e, in un certo senso, anche meno preoccupante. La partita è la solita: il controllo della Siria. O meglio: il controllo della sua frammentazione. Da sette anni una coalizione potentissima, che va dall’Arabia Saudita agli Usa, dalla Francia al Regno Unito, dalla Turchia al Qatar, passando per una lunga serie di Paesi che sono stati o sono complici “di fatto”, lavora per disgregare l’unità politica e territoriale della Siria.
Non sempre questi Paesi hanno mostrato una perfetta unità d’azione o di visione politica. La Turchia, per esempio, dopo il fallito golpe del 2016, che Recep Tayyip Erdogan considera ispirato dagli Usa, ha preso una strada autonoma e ha costruito una sorta di intesa con Russia e Iran. Nondimeno l’obiettivo è sempre stato quello, all’insegna dello slogan “Assad must go”. Un obiettivo così importante che, per raggiungerlo, la strana coalizione ha puntato via via su diversi cavalli. Continua a leggere

Libia-Siria: per chi tifano, per chi tifare

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di Fulvio Grimaldi
Amici, anche stavolta siamo lunghi. Perdono. Comunque per 15 giorni sono fuori e, dunque, c’è tempo per piano piano farcela. Se credete.

Diciamocelo: che bravi governanti sono quelli di Al Qaida e Isis!
Per chi tifano in Siria quelli là (non fatemeli nominare sennò Facebook mi banna e cancella il post) non è difficile saperlo: basta leggere il “New York Times”, standard aureo del giornalismo perennemente degno  dei riconoscimenti, se non di Pulitzer, di Reporters Sans Frontières (il corrispettivo mediatico di Medicins Sans Frontières e altrettanto cari a quelli là). Se pensavamo che nella provincia nord-occidentale di Idlib si fossero concentrati, accolti, nutriti e armati dai vecchi padrini turchi, tutti i tagliagole Isis e Al Qaida generosamente fatti evacuare dai territori e dalle città da loro abbellite con croci appesantite da infedeli, o con pelli di corpi scuoiati di dissidenti, la lettura del “New York Times” ci libera dall’intossicazione di simili fake news.
L’autorevole giornale che, se non fosse stato per l’assist della CNN, dei media di obbedienza atlantista con, nel nostro piccolo, il “manifesto”, ci avrebbe con le sue sole penne liberato da Milosevic, Saddam, Gheddafi, Assad e dai Taliban, rettifica quella che finora e per troppo tempo, quasi otto anni, è stata un’informazione falsa, bugiarda, truffaldina. Assad, con quegli hackers e troll delle ingerenze urbi et orbi russe, con quegli spiritati di flagellanti sciti, iraniani e hezbollah, voleva farci credere, col supporto di chilometri di audiovisivi fabbricati, raffiguranti giustizieri cha spellavano vivi innocenti, li incendiavano, o li annegavano in gabbie o li crocifiggevano, o ne sposavano a ore le donne, che il suo paese era stato invaaso, non da oppositori democratici assistiti dalla “comunità internazionale”, bensì da un branco di ossessi islamisti attivati da una “comunità internazionale” in preda a psicopatia stragista. Come pretendeva fosse successo in Libia e, poi di nuovo, in Iraq.
No, no, il NYT e i Pulitzer nostrani ci gratificano del privilegio della verità: E’ da far rabbrividire il destino “di combattenti ribelli e dei loro sostenitori civili che, oltre sette anni fa, si sollevarono per chiedere un cambio regime”. Deplorato che il vice primo ministro siriano si sia permesso di definire “terroristi” questi bravi combattenti, il giornale, al quale dobbiamo molto della credibilità delle armi di distruzione di massa di Saddam e del viagra fornito da Gheddafi ai suoi soldati perché stuprassero le connazionali, passa alla descrizione di come gli ingiustamente diffamati ribelli abbiano ben governato la provincia dai turchi loro affidata: “Si sono comportati da legittima autorità di governo e pubblica amministrazione, facilitando, tra l’altro, il commercio transfrontaliero con la Turchia e organizzando forniture di aiuti alla popolazione”. Visto che bravi, si preoccupano di nutrire la popolazione. Altro che Assad, che per principio l’affama.

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Problemi nell’enclave spagnola: si sta avverando la profezia di Gheddafi?

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Immagine correlataSegnalazione di R.G.

Giovedì più di 500 migranti africani hanno oltrepassato le barriere di separazione dell’enclave spagnola di Ceuta e si sono introdotti illegalmente in UE. Già nel 2011 quando sembrava che niente facesse presagire una crisi tanto grave, il leader libico Gheddafi quasi fu in grado di prevedere qualcosa di simile prima del suo assassinio.

Questo è riecheggiato nelle pagine dei giornali di tutto il mondo: di mattina presto la guardia civile spagnola e quella marocchina hanno tentato di impedire a centinaia di migranti con un temperamento aggressivo di oltrepassare il confine tra il Marocco e l’UE. Durante quello che sembra un attacco premeditato le forze dell’ordine sono state attaccate con lanciafiamme, escrementi e sostanze corrosive.

Le forze dell’ordine erano smarrite poiché, sebbene si fossero verificati attacchi a Ceuta anche in passato, i migranti non avevano mai avuto reazioni tanto violente. Nell’area circostante l’enclave spagnola aspettano la loro possibilità di entrare in Europa ancora decine di migliaia di poveri africani.

Sebbene il numero delle nuove richieste di asilo all’UE sia diminuito quest’anno, la crisi migratoria al momento sembra aver raggiunto il suo punto più alto. Centinaia di migranti hanno dimostrato di essere decisi ad entrare in UE e nessuno potrà fermarli.Spinti dalla disperazione e dalla fame sono pronti a mettere a repentaglio la loro stessa vita e la vita degli agenti di frontiera per entrare in Europa. Non accettano i “no”.

La violenza che impiegano contro la polizia è impressionante e dev’essere un segnale d’allarme per Bruxelles. Fino ad ora l’UE non ha risposto a questo incidente, ma, se a breve non sarà elaborato un concreto piano d’azione, vi è il rischio che la violenza e l’anarchia arrivino anche al cuore dell’Europa.

Ancor prima dell’inizio della guerra civile del 2011 il dittatore libico Gheddafi così ammoniva:

“Ascoltatemi bene. Se mi volete soffocare e destabilizzare, farete solo il gioco di Bin Laden e aiuterete i gruppi armati di rivoltosi. Succederà quanto segue. Verrete aggrediti da un’ondata migratoria proveniente dall’Africa che si riverserà in Europa dalla Libia. Qui non ci sarà più nessuno a fermarli”.

Al tempo Gheddafi probabilmente non avrebbe mai immaginato che solo 6 mesi dopo sarebbe stato ucciso dai rivoltosi per la strada dopo l’intervento della NATO. Ma col suo ammonimento Gheddafi aveva ragione sebbene questo non intende giustificare in alcun modo l’operato del despota libico.Fino al 2011 la Libia era il Paese africano più ricco e la meta agognata per le popolazioni eritree e nigeriane che facevano la fame.

Quanto alla popolazione la Libia rientrava fra i Paesi con più immigranti al mondo. Oggi la Libia è unо stato fallito nel quale vi è un doppio governo ma non vi è alcun ordine. Il fallimento di questo stato ha destabilizzato anche i Paesi vicini. Situazioni difficili si osservano praticamente dalla Nigeria alla Somalia. Durante la guerra civile la Francia e gli USA hanno attivamente rifornito di armi i ribelli libici che naturalmente dopo la fine della guerra non le hanno restituite. Le attrezzature militari degli arsenali di Gheddafi furono depredate. Così il Libia si venne a formare un vero e proprio “mercato delle armi”. L’organizzazione Humans Rights Watch ha così ammonito dopo la fine della guerra civile: “È la maggiore distribuzione di armi che abbiamo mai visto. Negli prossimi decenni sarà una minaccia per la regione”. Un simile sviluppo si poté osservare anche in seguito agli interventi americani in Iraq, Afghanistan e, prima dell’intervento russo, anche in Siria.

Oggi la maggior parte delle domande di asilo in Germania è presentata da profughi provenienti dai Paesi di cui sopra. Partono dall’Africa diretti in Europa soprattutto abitanti di Nigeria, Eritrea, Somalia e Chad. Più del 75% dei profughi che arrivano in Europa via mare partono dai porti libici.

La politica della cancelliera tedesca del “in qualche modo ce la faremo” ricorda l’impotenza dell’Impero romano poco prima della sua caduta. I romani non riuscirono a gestire la crisi migratoria quando i Goti erano alle porte e entrarono nell’Impero durante l’attacco degli Unni. Inizialmente i Goti furono accolti pacificamente, venne fornito loro del cibo, ma quando il flusso divenne troppo importante, i romani cominciarono una guerra per fermare i Goti.

Inoltre, le autorità romane corrotte tenevano per loro il cibo e, quando i Goti che abitavano a Roma si accorsero di questo trattamento ingiusto nei loro confronti, scoppiò un’insurrezione. Il celebre storico Alexandr Demandr ha elencato anche altre cause della caduta dell’Impero romano: “Decadenza, ingordigia, modo di pensare antiquato, immobilità e perdita della identità nazionale”. E oggi in Europa pare che molti cittadini dell’Unione ritengano che tutto sia a posto finché hanno un tetto sulla testa, possono andare a mangiare fuori e a farsi le vacanze. La caduta dell’Impero romano cominciò prima della crisi migratoria, dunque i parallelismi sono agghiaccianti. E la leggendaria citazione di Cicerone: “Quousque tandem abutere patientia nostra?” si rivela più attuale che mai se indirizzata alla cancelliera tedesca Angela Merkel e al ministro degli Interni Horst Seehofer.

La politica di sicurezza della Merkel nei confronti dei migranti si distacca dalla politica del suo predecessore, l’ex cancelliere Willy Brandt: “Nella nostra società lavorano circa 2,5 milioni di persone che rappresentano altre nazioni. Siamo arrivati al punto di dover attentamente valutare dove si trovi il limite ultimo al di là del quale non possiamo più accogliere altre persone e la nostra responsabilità sociale finisce”.

Helmut Schmidt dieci anni dopo ammoniva:”Più di 4 milioni di stranieri sono il numero massimo per la società tedesca se non vogliamo avere seri problemi. Non saremo in grado di integrare più di 4,5 milioni di stranieri senza che si presentino conseguenze negative”. Oggi in Germania vivono 10,6 milioni di stranieri e non si parla più da tempo di confini sicuri. Horst Seehofer ha tentato insieme al cancelliere austriaco Sebastian Kurz e ai Paesi del gruppo di Visengrad di presentare un programma alternativo per la risoluzione della crisi migratoria. “I clandestini devono essere espulsi, la difesa dei confini va rafforzata. In Paesi terzi bisogna costruire centri di raccolta dei migranti a cui è stata rifiutata la domanda di asilo e l’agenzia Frontex deve essere convertita in una polizia frontaliera”.

Il punto principale di questo programma è la possibilità di presentare domanda di asilo nel Paese di origine. Dunque, dopo le insurrezioni di Ceuta sorge la domanda: cosa dovrebbero fare questi centri e come andrebbero difesi? La popolazione africana cresce molto velocemente ed entro il 2050 raddoppierà fino a raggiungere 2,5 miliardi. Il flusso di profughi spinti dalla fame, dai problemi economici, dalla corruzione e dalla mancanza di prospettive potrebbe aumentare. È molto probabile che i profughi non accettino il rifiuto della propria domanda di asilo e partano comunque per l’Europa.

In Siria vi è un barlume di speranza perché è lì che al momento si dirige buona parte dei profughi “europei”. Grazie al sostegno russo al presidente Bashar al-Assad è stato possibile scacciare in buona parte l’ISIS dalla Siria e interrompere la guerra civile. Dopo la visita della delegazione russa il presidente siriano ha confermato che a tutti i profughi “sarà garantito un rimpatrio sicuro”. Si sta già lavorando attivamente al rimpatrio dei profughi siriani dai Paesi vicini (Turchia, Libano e Giordania) affinché possano essere parte integrante della ripresa del Paese. Probabilmente in futuro sarà possibile dialogare con Assad per concludere accordi simile per il rimpatrio dei profughi.

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Salvate il soldato Mohamed

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Segnalazione del Centro Studi Federici

Ecco chi sono gli ‘intoccabili’ gruppi ribelli dell’enclave di Daara
La maggior parte delle milizie ribelli presenti nel sud della Siria nel governatorato di Daara (1400 km quadrati ed 1 milione di persone),  fanno capo ad una ‘sala di regia’ chiamata “Fronte meridionale” (o Shoutern Front – SF) è stato costituito il 14 febbraio  2014 per opera degli Stati Uniti ed è sostenuta anche dai paesi europei, nonché dall’Arabia Saudita e dalla Giordania. La coalizione (che raggruppa circa 49 milizie oltre a sale operative locali ), ha una sala operativa principale ad Amman (che nient’altro è che  la filiale del ‘Centro di operazioni militari’ (MOC) degli Stati Uniti per la Siria).
Mentre l’appartenenza del Fronte Meridionale controversa – perché seppure cade sotto l’egida dell’esercito siriano libero (FSA) , si è generalmente dissociata dall’opposizione politica, la Coalizione nazionale siriana (SNC) –  ciò che è certo che è finanziata dagli Stati Uniti e dai suoi alleati. Le proprie milizie ricevono aiuto a partire dalla Giordania mentre – come sappiamo – al governo siriano in questo modo è precluso in ogni modo di far valere si propri diritti o ovviamente agire in alcun modo in Giordania.
Shoutern Front si avvale di un’attivita’ molto potente e ramificata sui media mainstream  e  da molte fonti (tra cui l’organizzazione non -governativa  ‘Carter Center’ fondata dall’ex presidente Jimmy Carter),  è giudicata come una entità che raggruppa gruppi ‘moderatamente religiosi’ e laici . Questo giudizio però confligge con la provata  correlazione di molti suoi membri  con il gruppo al Nusra e con la jihad finanziata dai sauditi.
Il Fronte Meridionale agisce nelle provincie di Daara , Kuneitra e Suwaida ed alcuni giorni fa è stato difeso dal portavoce del Dipartimento di Stato Americano che ha minacciato l’esercito siriano di serie conseguenze, in caso di continuazione su grande stile dell’offensiva su Daara e zone limitrofe.
Come avversari il Fronte Meridionale ha  nell’enclave di Daara  lo Stato Islamico tramite una fazione che si chiama “Jaysh Khalid bin al-Waleed” (anche per questo a questo gruppo è precluso l’ingresso in Giordania ed ogni tipo di aiuto tramite i canali attivati da Amman).
Sebbene molti militanti provengono dagli stessi clan e a volte dalle stesse famiglie estese, al Fronte Meridionale si contrappone il gruppo Hay’at Tahrir al-Sham. Inoltre, nella zona di Daara esiste anche la fazione denominata  Jund al-Malahem che è nata nel 2015 da una rottura con Jabbat al Nusra , affiliata ad al Qaeda. Il suo leader era un emiro di Jabhat al-Nusra a Deraa. Attualmente i militanti di questo gruppo non ricevono più stipendi  e la propria attività è molto limitata.
Attualmente sia gli USA che Southern Front ritengono che la tregua concordata nell’area di de-escalation sia a tempo indeterminato e conferisca la facoltà permanente di fondare un feudo finanziato dall’occidente sottratto alla sovranità del governo siriano. Invero le cose stavano diversamente, l’area di de-escalation doveva fungere per un allentamento della tensione per avviare negoziati in cui tutte le parti avrebbero trovato un accordo per la riunificazione , dietro specifiche ed eque garanzie.
Invece Southern Front continua a puntare gli occhi su Damasco che si trova a 100 km dall’enclave di Daara e i suoi leader non nascondono che il conflitto non avrà termine con la riconciliazione ma con la vittoria finale contro Assad.
A marzo 2018 le ostilità sono riprese fino ad arrivare all’imminente offensiva dell’esercito siriano. Ogni chance di negoziato è stato puntualmente respinta dal Fronte Meridionale.
Mentre il governo siriano ha cercato di negoziare un possibile accordo per allentare la situazione nella parte meridionale del paese, per tutta risposta i gruppi militanti locali si sono attivati lanciando una battaglia preventiva contro l’esercito siriano.
 

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Israele abbocca, la Siria no

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di Tony Cartalucci

Israele abbocca, la Siria no

Fonte: Aurora sito

Israele ha ripetutamente colpito la Siria con missili e razzi, lo scambio più recente ebbe luogo dopo che Israele dichiarò che “razzi iraniani” avevano colpito posizioni dell’esercito israeliano nelle alture del Golan che occupa illegalmente. Titoli, come dell’Indipendent, “Israele e Iran sull’orlo della guerra dopo il bombardamento della Siria in risposta al presunto attacco sul Golan“, tentano di ritrarre l’aggressione israeliana come autodifesa. L’Independent, tuttavia, non forniva alcuna prova a conferma delle pretese israeliane. Per facciata, con l’Iran che lancerebbe inspiegabilmente missili contro Israele, non provocato e non ottenendo alcun vantaggio tattico, strategico o politico, la credibilità della narrativa d’Israele viene ulteriormente erosa. Ma forse è la pubblica politica degli Stati Uniti che designa Israele provocatore ostile incaricato d’espandere la guerra per procura di Washington contro Damasco, a rivelare il gioco letale e ingannevole che Israele e i media occidentali giocano. Per anni, i politici statunitensi hanno ammesso sui loro giornali che gli Stati Uniti desiderano un cambio di regime in Iran cercando di provocare una guerra per ottenerlo. Continua a leggere

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