NOTE CIRCA LA PROPOSTA DI LEGGE REGIONALE SUL SUICIDIO ASSISTITO

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Segnalazione del Centro Studi Livatino

di Francesco Farri

1. La proposta di legge regionale di iniziativa popolare su “Procedure e tempi per l’assistenza sanitaria regionale al suicidio medicalmente assistito ai sensi e per l’effetto della sentenza della Corte Costituzionale n. 242/2019” richiede, anzitutto, di chiarire un equivoco di fondo, che essa si presta a generare fin dalla sua intitolazione.

Il richiamo fin dal titolo alla sentenza della Corte Costituzionale n. 242/2019 sembra presentare la proposta di legge come qualcosa di costituzionalmente necessario, ossia di indispensabile per dare attuazione ai principi costituzionali, come affermati – secondo la proposta stessa – dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 242/2019.

Sennonché, essa in verità non ha e non può avere tale portata.

Infatti, la sentenza n. 242/2019 ha un ambito ben preciso, che è quello di dichiarare incostituzionale la norma che puniva in ogni caso e senza differenziazione l’aiuto al suicidio; non è una sentenza la cui portata precettiva investe l’organizzazione amministrativa e sanitaria; non è una sentenza che istituisce un “diritto al suicidio”.

La sentenza stabilisce che, in alcuni casi peculiari, l’aiuto al suicidio non deve essere punito in maniera identica alla generalità dei casi; non dichiara illegittime le norme sul servizio sanitario nazionale nella parte in cui non stabiliscono procedure e tempi per l’aiuto al suicidio. La sentenza si limita a dichiarare la non punibilità di alcuni comportamenti, non fonda un diritto pretensivo a ottenere dall’amministrazione pubblica il comportamento scriminato (come efficacemente precisato da G. Razzano, Le proposte di leggi regionali sull’aiuto al suicidio, in Consulta Online, 2024, 77). E non fonda un simile “diritto pretensivo”, non già per ragioni formali o processuali, ma ben più radicalmente perché esclude nel merito che un tale diritto esista: la sentenza afferma infatti, a chiare lettere, che “la presente declaratoria di illegittimità costituzionale si limita a escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici” (par. 6) e che dalla Costituzione “discende il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo: non quello – diametralmente opposto – di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire” (par. 2.2.).

Questa differenza di portata precettiva è fondamentale e va tenuta ben presente quando si affronta il tema.

La sentenza è quindi di per sé già del tutto autosufficiente per conseguire il risultato che essa ritiene costituzionalmente doveroso, ovvero differenziare il trattamento di alcuni casi di aiuti al suicidio rispetto agli altri. Essa non richiede affatto come costituzionalmente necessario un intervento del legislatore per completarla.

La Corte “auspica” solamente che la materia formi oggetto di compiuta disciplina da parte del legislatore, ma non detta un obbligo vincolante in tal senso, né detta tempi, né suggerisce contenuti.

Tanto meno la Corte ha imposto al servizio sanitario nazionale di erogare prestazioni di suicidio assistito: essa ha unicamente affidato al servizio sanitario nazionale una fase di verifica delle condizioni e delle modalità del protocollo suicidario, non certo la diretta erogazione del servizio o assistenza per la sua esecuzione materiale, come invece propugna la proposta di legge di cui si discute (art. 2, comma 5; art. 3, commi da 5 a 7; art. 4).

Occorre quindi sgombrare il campo dal possibile equivoco che la proposta di legge in questione sia costituzionalmente doverosa. Essa non lo è e rappresenta unicamente una proposta politica, rispondente a una precisa scelta ideologica.

2. Appurato che la proposta di legge non è costituzionalmente necessaria, se la si esamina nel dettaglio balzano agli occhi – per converso – macroscopici profili di incostituzionalità, che rendono pressoché certo il suo annullamento da parte della Corte Costituzionale, nella ipotesi in cui venisse approvata.

I profili di incostituzionalità si possono dividere in due gruppi.

Un primo gruppo attiene all’incompetenza delle regioni a legiferare in materia.

Un secondo gruppo attiene ai contenuti della proposta di legge stessa, che violano i paletti posti dalla Corte Costituzionale nella stessa sentenza n. 242/2019 cui pure la proposta ambirebbe a dare esecuzione.

Vediamoli con ordine.

3. A dispetto del titolo, la proposta di legge va ben oltre il perimetro dell’organizzazione sanitaria di competenza (concorrente) regionale e impinge in modo consistente in materie di competenza legislativa esclusiva dello Stato. Tale aspetto è stato analiticamente dimostrato, tra l’altro, da un parere reso dall’Avvocatura Generale dello Stato ai Presidenti dei Consigli Regionali del Veneto e del Friuli Venezia Giulia, nn. 39326/23 e 40525/23 del 15 novembre 2023.

3.1. Anzitutto, è evidente che la proposta normativa in questione incide in modo diretto sul diritto alla vita, introducendo un “diritto al suicidio”, ossia a disporre della propria vita, addirittura esigendo la cooperazione dell’amministrazione pubblica per renderlo effettivo.

Ebbene, come ben evidenziato anche nella prima parte del parere reso dall’Avvocatura Generale dello Stato in data 15 novembre 2023, la Corte Costituzionale, per giurisprudenza costante (ribadita sia nella sentenza n. 242/2019, sia nella giurisprudenza successiva, si pensi, in particolare, alla sent. n. 50/2022), qualifica il diritto alla vita come diritto inviolabile supremo, “cioè tra quei diritti che occupano nell’ordinamento una posizione, per dir così, privilegiata, in quanto appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana”, costituendo “la matrice prima di ogni altro diritto, costituzionalmente protetto, della persona”.

Se così è, ogni bilanciamento che lo riguardi non può che attenere ai livelli essenziali delle prestazioni attinenti ai diritti civili che devono essere garantiti in modo uniforme su tutto il territorio nazionale.

Il discorso va oltre la formale individuazione dei LEA e attiene al cuore dello stesso concetto di “livello essenziale” dei diritti civili, utilizzato dalla Costituzione (art. 117, c. 2, lett. m). Se per la Corte Costituzionale il diritto alla vita attiene “all’essenza dei valori supremi”, ne consegue che tutto ciò che direttamente lo riguarda integra per sua natura un nucleo “essenziale” dei diritti civili. Come tale, ciò rientra nella competenza esclusiva statale perché non può che essere disciplinato in modo unitario su tutto il territorio nazionale, pena una radicale compromissione dei principi supremi di pari dignità sociale di tutti i cittadini (art. 3 Cost.) e di unità della Repubblica (art. 5 Cost.).

3.2. In materia affine, quella delle d.a.t., dove una regione aveva tentato di introdurre una regolamentazione regionale prima di una legge nazionale (poi approvata con legge n. 219/2017), la Corte ha chiaramente affermato che si tratta di temi che “necessita[no] di uniformità di trattamento sul territorio nazionale, per ragioni imperative di uguaglianza” (Corte Cost., n. 262/2016), pena la violazione anche di un altro ambito di competenza legislativa esclusiva dello Stato, ossia l’ordinamento civile e penale della Repubblica (art. 117, c. 2, lett. l Cost.).

Invero, se rientrano nel concetto di ordinamento civile tutte quelle norme suscettibili di incidere “su aspetti essenziali della identità e della integrità della persona” (Corte Cost., n. 262/2016), appare evidente come una norma, che sancisca un “diritto al suicidio” e lo disciplini per esigere una cooperazione di soggetti terzi per realizzarlo, non potrebbe che essere emanata – sul puro piano delle competenze (e ferma la sua incostituzionalità nel merito, cfr. infra par 4.1.) – unicamente dal legislatore statale. Una norma del genere, infatti, inciderebbe in sommo grado sulla “integrità della persona”, compromettendola alla radice (F. Piergentili, Progresso tecnologico e nuove questioni costituzionali: la (in)competenza delle Regioni sul fine vita, in Dir. Merc. Tecn., 2023, par. 4).

3.3. E’ chiarissimo, d’altronde, che l’invito – non vincolante – che la Corte rivolge al legislatore affinché intervenga a disciplinare compiutamente la materia è rivolto specificamente al Parlamento, e non al legislatore regionale. E’ il Parlamento cui si rivolge la propedeutica ord. n. 207/2018 ed è il Parlamento a essere evocato nei passaggi della sent. n. 242/2019 che al possibile intervento del legislatore si riferiscono.

A ciò si aggiunga che, come rilevato dall’Avvocatura Generale dello Stato, “i criteri dettati dalla Corte nella sentenza n. 242/2019 scontano un inevitabile tecnicismo (si pensi, ad esempio, alla nozione di “trattamenti di sostegno vitale”), che, inevitabilmente, si prestano ad interpretazioni non omogenee, le quali potrebbero determinare una ingiustificabile disparità di trattamento, per casi analoghi, sul territorio nazionale”, laddove la normativa fosse dettata da leggi regionali, così ledendo anche sotto questo ulteriore profilo la competenza esclusiva statale in tema di “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”, di cui all’articolo 117, c. 2, lett. m), Cost..

3.4. Alla luce di quanto sopra esposto, risulta chiaro come sia dunque privo di attinenza il richiamo, compiuto dalla proposta di legge, al principio di “cedevolezza invertita”, secondo cui l’intervento del legislatore regionale potrebbe anticipare l’inerzia del legislatore statale, nelle more e fino a un intervento di quest’ultimo. Tale principio, infatti, “attiene pur sempre (e soltanto) a materie di competenza concorrente della Regione” (Corte Cost., n. 1/2019), per cui non vale neppure in parte nel caso di specie dove, come si è detto, vengono in rilievo competenze legislative esclusive dello Stato.

Anche sul punto, davvero nessun dubbio può sussistere, poiché il tema è già stato affrontato dalla Corte Costituzionale nel già menzionato affine caso del “testamento biologico” regionale. Anche in quel caso la Regione interessata (il Friuli Venezia Giulia) ritenne di aver titolo a intervenire a fronte della mancata regolamentazione da parte del legislatore nazionale (poi, in qual caso, superata dalla l. n. 219/2017). La Corte, tuttavia, non ebbe dubbi nel dichiarare incostituzionale la legge regionale, statuendo che, in una materia affidata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, l’affermata inerzia del Parlamento “non vale a giustificare in alcun modo l’interferenza della legislazione regionale” (Corte Cost., n. 262/2016).

Risulta quindi confermata, sotto ogni aspetto, l’incompetenza della Regione a legiferare su aspetti come quelli fatti oggetto della proposta di legge sul suicidio assistito in commento.

4. Vi è di più, in quanto l’incostituzionalità della proposta di legge in commento non attiene soltanto al versante dell’incompetenza legislativa regionale, ma anche al merito dei contenuti.

Una legge del genere sarebbe incostituzionale anche se fosse in ipotesi approvata dallo Stato, poiché essa non viola soltanto i criteri di riparto di competenze legislative tra Stato e Regioni, ma anche altri principi costituzionali e gli stessi criteri di fondo della sent. n. 242/2019 cui pretenderebbe di dare esecuzione.

4.1. Anzitutto, contrasta alla radice con la Costituzione una proposta di legge che sancisca un “diritto al suicidio” e ne affidi l’esecuzione al sistema sanitario nazionale. L’art. 32 della Costituzione afferma che la Repubblica e, dunque, il sistema sanitario pubblico tutela la “salute” e garantisce “cure” alle persone, mentre per definizione il farmaco suicidario non tutela la salute della persona e non la cura, bensì la sopprime. La sentenza della Corte, n. 242/2019 è ben attenta a distinguere il profilo su cui si pronuncia della non punibilità della condotta di aiuto al suicidio, in alcuni frangenti, rispetto all’affermazione di un diritto a suicidarsi con l’aiuto di terzi, che essa al contrario nega.

La Corte, infatti e sulla base di costante giurisprudenza (cfr. par. 2.2.), afferma che “dall’art. 2 Cost. – non diversamente che dall’art. 2 CEDU – discende il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo: non quello – diametralmente opposto – di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire. Che dal diritto alla vita, garantito dall’art. 2 CEDU, non possa derivare il diritto di rinunciare a vivere, e dunque un vero e proprio diritto a morire, è stato, del resto, da tempo affermato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, proprio in relazione alla tematica dell’aiuto al suicidio (sentenza 29 aprile 2002, Pretty contro Regno Unito)”.

4.2. Ferma tale preclusiva ragione, la proposta di legge in esame viola i paletti posti dalla Corte Costituzionale anche se si limitasse a disciplinare i casi di non punibilità, anziché debordare nella costituzione di un preteso diritto al suicidio e alla cooperazione di terzi per realizzarlo.

La Corte Costituzionale, infatti, ha indicato chiaramente tra i pre-requisiti per la non punibilità dell’aiuto al suicidio che “il paziente sia stato adeguatamente informato … in ordine alle possibili soluzioni alternative, segnatamente con riguardo all’accesso alle cure palliative ed, eventualmente, alla sedazione profonda continua”. Requisito, questo, totalmente dimenticato dalla proposta di legge in commento.

La proposta di legge in questione, quindi, non appare idonea neppure a regolare validamente le condizioni scriminanti rispetto alla condotta di aiuto al suicidio.

Da ciò discende, altresì, un ulteriore profilo di violazione dell’art. 117, c. 2, lett. l, Cost.: omettendo di considerare il pre-requisito delle cure palliative, la proposta di legge di fatto allarga l’esimente introdotta dalla Corte Costituzionale, così intervenendo in modo diretto e illegittimo sull’ordinamento penale, riservato in via esclusiva allo Stato (M. Ronco – D. Menorello, “Legge Cappato”: la scorciatoia regionale è incostituzionale, in www.centrostudilivatino.it, 30 ottobre 2023, par. 3).

Occorre osservare, al riguardo, che la dimenticanza delle cure palliative non appare casuale, bensì al contrario consentanea rispetto all’impianto assiologico di fondo della proposta di legge in discorso. La palliazione, infatti, risponde a un modello di cura della persona opposto rispetto al suicidio.

4.3. Oltre a ciò, la proposta è costituzionalmente illegittima anche nella misura in cui, in violazione del principio di libertà di coscienza (derivante dagli artt. 2 e 19 Cost.) non consente ai medici l’obiezione di coscienza, espressamente richiesta dal par. 6 della sentenza della Corte (M. Ronco – D. Menorello, op. cit., par. 1).

La proposta è ulteriormente incostituzionale nella parte in cui impone al Servizio Sanitario Nazionale una prestazione da offrire gratuitamente agli utenti (art. 4) senza indicare analiticamente la copertura degli oneri per farvi fronte e senza addirittura allegare una relazione tecnica, in doppia violazione dell’art. 81 Cost.. Non sarebbe possibile, infatti, attingere le somme per finanziare il suicidio assistito dal fondo per le cure palliative, poiché la legislazione nazionale ne ha previsto l’utilizzo per una finalità diversa – e opposta – rispetto all’aiuto al suicidio e ha espressamente stabilito il vincolo delle somme all’utilizzo per il fine stabilito dalla legge (ossia appunto le cure palliative, non il suicidio assistito) (art. 12, c. 2 della l. n. 38/2010), nonché rigorosi meccanismi di monitoraggio dell’effettivo utilizzo per tali finalità, a pena della perdita per la Regione dei finanziamenti integrativi del sistema sanitario a carico dello Stato (art. 5, c. 4-bis della l. n. 38/2010).

Altri profili di incostituzionalità potrebbero essere individuati nella proposta di legge in commento (si rinvia, sul punto, a M. Ronco – D. Menorello, op. cit.). Si confida, tuttavia, che quanto sopra sia sufficiente a dimostrare come l’approvazione di una legge del genere da parte del Consiglio Regionale costituirebbe un’operazione giuridicamente priva di fondamento e destinata al sicuro insuccesso di fronte alla Corte Costituzionale.

 

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Le Tavole di Assisi del mondo conservatore italiano

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di Redazione

La galassia conservatrice italiana si è riunita ad Assisi. Il risultato è condivisibile. Le parole dell’Avv. Gianfranco Amato sono state, come sempre, ascoltate e molto efficaci.(VIDEO IN FONDO ALL’ARTICOLO)

“Vedo con speranza una certa sinergia tematica – dice Matteo Castagna, Responsabile del Circolo Christus Rex – inerente quella che viene chiamata la “controrivoluzione cristiana del buon senso”, che va dalla galassia conservatrice italiana al mondo cattolico tradizionalista, al messaggio principale del best seller gel gen. Vannacci. Sebbene, ovviamente, con le proprie differenze, sensibilità e specificità, si sta palesando una volontà di raddrizzare il mondo, partendo dal nostro piccolo, sebbene siamo convinti che la “maggioranza silenziosa”, tipica espressione del nostro Paese, sia con noi. Gli italiani sono stufi delle minoranze che opprimono, fingendosi oppresse. per dirla alla Belpietro. La rivoluzione antropologica in atto deve avere una risposta concreta, integralmente controrivoluzionaria, quindi integralmente cattolica e quindi marciare divisi per colpire uniti con tutti coloro che la pensano come noi”.

Segnalazione di Pro Vita & Famiglia

di Toni Brandi

“Da Assisi riparte la controrivoluzione del buon senso!”

Con un cuore fortificato e pieno di speranza sono appena rientrato dal convegno “Le Tavole di Assisi”: due giorni di dibattito su nove temi riguardanti le sfide che la nostra società è chiamata ad affrontare.Un evento unico e di grande successo (ti basti guardare la foto qui sotto – tutto esaurito dopo solo tre settimane dal lancio!).

Il contributo di relatori di altissimo livello ha fatto emergere due punti essenziali e urgenti che devo condividere con te:

  1. È in atto un attacco rivoluzionario antropologico – culturale e politico -che ha come obiettivo la dissoluzione ideologica della sacralità della vita, del matrimonio, della famiglia e della struttura sociale basata sulla differenza sessuale.
  2. Circolo, io e te siamo l’unica speranza per una controrivoluzione cristiana e del buon senso.

Per troppo tempo i valori basilari della società umana e del sentire comune, fondati su criteri di dignità umana e giustizia sociale sono stati discriminati.

Le conseguenze di una mancata presa di posizione forte sono davanti agli occhi di tutti: bambini vittime della droga, del porno, dell’indottrinamento gender nelle scuole e di una feroce ipersessualizzazione.

…la dissoluzione del matrimonio, la decostruzione della famiglia, l’attacco alla figura paterna e alla maternità tramite l’utero in affitto, i falsi tentativi di “ottimizzare” la vita umana a costo di sacrificare con l’aborto la vita di milioni di bambini innocenti e la vita di malati e anziani per mezzo dell’eutanasia.

Oggi, di fronte a questa follia dilagante, siamo chiamati a ribadire l’ovvietà.

Il matrimonio è lo specchio dell’amore incondizionato verso l’altro, dove viene accolta la vita. Le persone si dividono in uomini e donne, i bambini nascono da un uomo e una donna e non si comprano e sono persone sin dal concepimento. Stiamo parlando di ovvietà.

Eppure ci ritroviamo a dover parlare di queste cose, ad avere la responsabilità e la necessità di farlo. Questo è eloquente del mondo che ci circonda. Se siamo costretti a dover ribadire l’ovvio vuol dire che c’è un enorme problema.

Abbiamo la responsabilità e la necessità di promuovere una controrivoluzione al pensiero unico dilagante.

In questi anni, con Pro Vita & Famiglia abbiamo acceso piccoli fuochi di speranza, che pian piano si sono ampliati e sono diventati veri e propri focolai (il successo delle Tavole di Assisi ne è una dimostrazione).

A Pro Vita & Famiglia abbiamo gli strumenti, il coraggio, la tenacia per contrastare questi attacchi alla vita, alla famiglia e alla libertà educativa. Ma tutti i nostri sforzi sarebbero vani senza il tuo sostegno costante.

Dobbiamo agire ora, e agire insieme. Ogni tua azione con Pro Vita & Famiglia può fare la differenza e contribuire nella nostra lotta comune.

Circolo, so che condividi le mie stesse preoccupazioni. Ma vorrei che condividessi con me la mia stessa speranza. Dobbiamo essere coraggiosi e avere paura solo di avere paura!

Da Assisi facciamo ripartire la controrivoluzione del buonsenso e del pensiero cristiano. Avanti tutta!

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IL VIDEO DELL’INTERVENTO DI GIANFRANCO AMATO: “Cosa c’e’ dietro la carriera alias?”

 

 

 

 

 

 

IL RAFFORZAMENTO DEL PROPOSITO DI SUICIDIO INTEGRANTE ISTIGAZIONE AL SUICIDIO PUNIBILE AI SENSI DELL’ART. 580 C.P.

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Segnalazione del Centro Studi Livatino

di Carmelo Leotta

Il 12 luglio scorso è stata depositata la sentenza della Corte di assise di appello di Catania – di cui i media hanno dato ampia notizia a seguito dell’udienza del 28 giugno – che, ribaltando il giudizio di primo grado, ha condannato Emilio Coveri,  presidente dell’associazione Exit Italia, per il delitto punito dall’art. 580 c.p. (istigazione e aiuto al suicidio) per aver rafforzato il proposito di suicidio di una donna, capace di intendere e di volere, affetta da depressione e da sindrome di Eagle, non sottoposta a cure di sostegno vitale. L’intento suicidario era portato a compimento dalla donna a Zurigo presso la clinica Dignitas, il 27.3.2019.

1. Il thema decidendum: la condotta di rafforzamento del proposito di suicidio rilevante ai sensi dell’art. 580 c.p. Pur non essendosi ancora formato il giudicato sulla vicenda, la sentenza della Corte di assise di appello di Catania, a prescindere dal riferimento specifico al fatto di cronaca qui non oggetto di commento, si rivela di profondo interesse nella discussione penalistica sul fine-vita dal momento che fornisce una serie di preziosi criteri per accertare l’efficacia causale di condotte “comunicative” di convincimento rivolte da una terza persona ad un soggetto che, avendo già precedentemente contemplato tale possibilità, infine decide e mette in atto il suicidio proprio a seguito del contatto con il “rafforzatore”. La sentenza, in verità, si presta anche a talune critiche, di cui pure si dirà, allorquando tratta del bene protetto dalle norme incriminatrici dettate dall’art. 580 c.p., limitandosi a individuare nell’autonomia individuale l’oggetto di tutela della fattispecie di istigazione al suicidio.

2. Il giudizio di primo grado. Il giudizio di primo grado si svolge dinnanzi al g.u.p. di Catania che, con sentenza del 10.11.2021 assolve l’imputato dall’accusa di istigazione al suicidio di G.B., L’istigazione si sarebbe realizzata, nell’ipotesi accusatoria, con plurime condotte messe in atto dall’imputato che intratteneva con la paziente rapporti e conversazioni telefoniche, via sms e posta elettronica, a far data dal 2017 e fino al decesso, inducendola altresì ad iscriversi alla sezione italiana di un’associazione di diritto svizzero il cui scopo è quello di diffondere una cultura per la morte dignitosa, di cui lo stesso imputato era (come è tuttora) presidente. Il g.u.p catanese assolveva l’imputato ritenendo che le condotte contestate fossero sprovviste di una effettiva capacità di influenzare la decisione della donna, in particolare in considerazione del fatto che l’imputato era stato contattato dalla paziente quando già aveva maturato il proprio proposito di suicidio affinché le fornisse informazioni circa l’associazione di cui egli era presidente. Dal punto di vista strettamente fattuale il giudice delle prime cure valorizza a sostegno della propria decisione in particolare i seguenti elementi: la irreversibilità della patologia della paziente; la sua capacità di autodeterminazione (su cui si erano espressi i c.t. del P.M.); il fatto che la stessa si fosse procurata autonomamente la documentazione richiesta dalla struttura dove avvenne il suicidio e che si fosse fatta accompagnare da una propria conoscente in aeroporto per andare in Svizzera (dunque, senza l’intervento diretto dell’imputato), peraltro mentendo sulla ragione del suo viaggio.

3. L’appello del P.M. e la riforma della sentenza di assoluzione. Il P.M. siciliano chiede la riforma della sentenza di prime cure, posto che il g.u.p. non avrebbe correttamente valutato l’efficacia causale delle condotte contestate rispetto all’effetto finale di decisione e messa in atto del suicidio da parte della G.B. La Corte di assise di appello di Catania, accogliendo l’appello del P.M., all’esito di rinnovazione dibattimentale, in riforma della sentenza appellata, condanna l’imputato (peraltro escludendo la concessione delle attenuanti generiche) per avere «fornito un contributo causale idoneo a rafforzare il proposito suicidario di una persona affetta da patologie non irreversibili, seppur dolorose ma trattabili, sfruttando la fragilità e vulnerabilità della donna per convincerla, in maniera definitiva, a porre fine alla sua vita». Come si legge in sentenza, «la formazione della volontà della G. di porre fine alla propria vita non è stato il frutto di un percorso di autodeterminazione della donna: la stessa, sebbene capace di intendere e d volere, è stata rafforzata nel proprio intento suicidario dall’operato dell’odierno imputato avendo lo stesso influito in maniera determinante nel processo psichico di un soggetto vulnerabile che non aveva ancora deciso in maniera autonoma di porre fine alla propria esistenza in quanto il suo proposito suicidario, già in essere, non era ancora definitivo».

La decisione depositata lo scorso 12 luglio ripercorre i temi di maggior interesse riferiti alla fattispecie di istigazione al suicidio punita dall’art. 580 c.p. che può essere integrata, come noto, sia da una condotta di determinazione sia da una condotta di rafforzamento dell’altrui proposito di suicidio. L’art. 580 c.p., che contempla altresì, quale terza ipotesi delittuosa, l’autonoma condotta di aiuto al suicidio, sanziona pertanto, tre distinti comportamenti (determinazione, rafforzamento, aiuto) che hanno in comune l’intervento del terzo, a titolo materiale o morale, nell’altrui suicidio, senza che il fatto integri il più grave delitto di omicidio del consenziente.

Nel caso di specie il fatto contestato all’imputato sarebbe consistito, come si è sopra evidenziato, nel rafforzamento del proposito di suicidio già in precedenza manifestato dalla persona offesa. La condotta di rafforzamento può dirsi integrata solo a fronte di un obiettivo contributo alla maturazione della decisione definitiva del suicida, accompagnato, sul piano soggettivo, dalla prefigurazione dell’evento come conseguenza della propria condotta e dalla consapevolezza dell’obiettiva serietà del proposito della persona offesa.

4. I criteri di accertamento del delitto di istigazione al suicidio realizzato nella forma del rafforzamento dell’altrui intento suicidario. Il giudizio sulla integrazione della condotta di rafforzamento penalmente rilevante è, invero, piuttosto complesso; il rafforzamento, infatti, viene realizzato con condotte “comunicative” che perlopiù si estrinsecano in un “dire” e che, sul piano degli effetti, operano su di un piano psichico, tuttavia presupponendo, diversamente dalle condotte di determinazione, la previa e autonoma esistenza di un’intenzione suicidaria, necessariamente non definitiva, su cui si innesta un impulso esterno che segna, appunto, il passaggio, nel suicida, dalla possibilità alla decisione di morte. La Corte, al fine di vagliare la rilevanza penale della condotta di rafforzamento, individua taluni criteri particolarmente calzanti, che possono essere così catalogati:

a) l’esistenza di uno stato iniziale di incertezza della persona offesa rispetto alla decisione di suicidio;

b) la vulnerabilità della persona offesa, originata (ad es.) dalla sua sofferenza fisica e psichica che la rende esposta alle interferenze di soggetti terzi. Il giudizio sulla vulnerabilità deve tenere conto della sussistenza di un eventuale stato depressivo in capo alla persona offesa e in genere delle implicazioni psicologiche generate dalla sofferenza fisica, come pure degli effetti della patologia depressiva sulla percezione del dolore causato dalla patologia fisica (c.d. “somatizzazione”);

c) la consapevolezza, da parte dell’autore della condotta di rafforzamento, sia dello stato di incertezza iniziale della persona offesa rispetto alla decisione di suicidio sia  della sua condizione di vulnerabilità;

d) la possibilità di inferire la consapevolezza sulla condizione di vulnerabilità della persona offesa dalla conoscenza (da parte dell’imputato) delle condizioni di sofferenza/malessere del malato, senza che sia necessario, per l’autore della condotta di rafforzamento, il possesso di competenze mediche;

e) il carattere non neutro e non asettico con cui sono rese le informazioni sulle procedure di suicidio assistito all’estero;

f) la perduranza e la quantità delle comunicazioni con cui si esorta il futuro suicida a vincere le resistenze alla propria decisione, anche «esprimendo pensieri negativi e sottolineando gli aspetti peggiori della sua vita» che, rivolti ad un interlocutore sofferente e affetto da depressione, accentuano «il senso di inutilità della sua esistenza»;

g) la formulazione e la comunicazione alla persona offesa di un giudizio positivo sul piano etico riferito alla scelta di suicidio e la prospettazione del suicidio assistito quale unica forma di sollievo delle sue sofferenze;

h) il tono dissacrante o spregiativo con cui l’autore della condotta rafforzativa connota gli argomenti contrari al suicidio (legati, ad es., alla fede religiosa della persona offesa).

Non integra, invece, condotta penalmente rilevante il fatto di limitarsi a «fornire informazioni per realizzare il proposito già definitivo […] di ricorrere al suicidio assistito». Quanto al giudizio di valore secondo cui la morte sia preferibile ad una vita sofferente, si tratta – afferma la Corte – di «principio che di per sé non è censurabile in tale sede soltanto se è frutto di una libera scelta, non se viene propinato ad un soggetto, quale era la G.A. [persona offesa] vulnerabile e che aveva qualche resistenza a mettere in atto l’intento suicidario».

Non escludono la responsabilità per istigazione al suicidio:

– il fatto che, a valle di una condotta di rafforzamento, i successivi contatti con la persona offesa siano sporadici e abbiano solo un contenuto informativo;

– la circostanza che l’ultimo contatto con la persona offesa avvenga diversi mesi (nel caso di specie, sei mesi) prima del decesso;

– la dichiarazione, resa dalla persona offesa, che la decisione «“è solo sua”, quasi avesse la necessità di dimostrare che la scelta era stata presa autonomamente»;

– la manifestazione a terzi, da parte del suicida, del desiderio di morire avvenuto in tempi antecedenti al contatto con l’autore della condotta di rafforzamento;

– l’irremovibilità della decisione di suicidio, provata ad. es. dall’assenza di tentennamenti, nel momento in cui l’atto anticorservativo è portato a compimento.

In particolare, l’irrilevanza, al fine di escludere la responsabilità, di una eventuale distanza temporale tra l’ultimo contatto del “rafforzatore” con il suicida e la morte di questi trova ragione nel fatto che l’efficacia causale della condotta oggetto di scrutinio non deve valutarsi rispetto all’evento finale del suicidio, bensì rispetto alla maturazione definitiva della decisione di morire della persona offesa. E’ pur vero che trattandosi di fatti psichici, l’individuazione del momento preciso in cui l’aspirante suicida assume la decisione definitiva di morte non è semplice; a tal fine, appare ragionevole, come in effetti si evince dalla sentenza in commento, valorizzare comportamenti materiali della vittima (in sentenza si rinviene l’espressione «fattiva determinazione»), quali, nella vicenda di G.A., furono il reperimento della documentazione necessaria per accedere alla clinica svizzera e la fissazione dell’appuntamento presso la stessa clinica.

L’attenzione con cui la Corte siciliana fornisce un catalogo di criteri per valutare l’integrazione della condotta di rafforzamento punita dall’art. 580 c.p. risponde adeguatamente all’esigenza di ponderare, nel caso concreto, l’efficacia causale delle condotte comunicative rivolte nei confronti dell’aspirante suicida, il quale ha già considerato, eventualmente anche esternando tale ipotesi con terzi, ma non ancora deciso in via definitiva, di ricorrere al suicidio. Il giudizio sulla integrazione della condotta di rafforzamento comporta uno scrutinio delicato non solo per la difficoltà di valutare comportamenti che esplicano la loro efficacia sulla psiche del soggetto passivo, ma anche perché la condotta censurata si pone al confine con una mera manifestazione di pensiero avente come contenuto un giudizio positivo sull’atto di suicidio. Tale manifestazione di opinione merita, in verità, di essere fortemente criticata su di un piano morale e giuridico dal momento che il suicidio in sé e per sé rappresenta l’atto definitivo e irrevocabile con cui il soggetto esprime un giudizio pratico di immeritevolezza sulla conservazione del proprio essere. Il suicidio, pertanto, è sempre contrario alla dignità umana. Ancorché una manifestazione di pensiero che associ un valore positivo al suicidio sia quindi deprecabile perché pregna di un grave disvalore con immediate ricadute anche giuridiche, essa non può ancora meritare lo stigma penale. Da qui origina, pertanto, la difficoltà, ai fini della individuazione della tipicità delle condotte punite come istigazione al suicidio dall’art. 580 c.p., di tracciare la linea di confine tra una mera manifestazione di opinione, non ancora punibile, seppur contraria alla dignità della persona, e una condotta, invece punibile, perché effettivamente attivante (nel caso di condotta di determinazione) o incentivante (nel caso di condotta di rafforzamento) una volontà anticonservativa di una vittima vulnerabile.

Posto il problema in questi termini, la sentenza della Corte di assise di appello di Catania ha il pregio di fornire una serie di utili strumenti per valutare quando le “parole”, collocate in un certo contesto, che tiene conto anzitutto delle caratteristiche della vittima, abbiano innescato un suo processo decisionale definitivo in vista della morte.

Ciò detto, la decisione in commento presenta, tuttavia, come si dirà, talune non marginali criticità nella parte in cui individua essenzialmente nell’autodeterminazione individuale il bene protetto dalle norme incriminatrici che puniscono l’istigazione al suicidio.

5. Quale bene protegge la norma che punisce l’istigazione al suicidio ?

La Corte di assise di appello di Catania ripercorre, in apertura, la ratio di incriminazione della fattispecie di omicidio del consenziente (art. 579 c.p.) e di istigazione e aiuto al suicidio (art. 580 c.p.), che segnalano il persistente riconoscimento da parte dell’ordinamento del «valore fondamentale di rilevanza collettiva» assegnato alla vita umana. Tali previsioni incriminatrici si pongono all’esito di una «scelta per così dire di compromesso, per cui – pur non riconoscendo espressamente un cd. “diritto al suicidio”in quanto scelta negatrice del fondamentale principio del rispetto e della promozione della vita, e perciò non tutelata dall’ordinamento – si esclude la punibilità del tentativo di suicidio, poiché giuridicamente privo di offensività erga alios (trattandosi di fatto compiuto esclusivamente sulla propria persona e a proprio danno), ma vengono punite tutte quelle condotte esecutrici, agevolatrici, istigatrici o rafforzative del proposito suicidario altrui».

La sentenza dà atto che il principio ora richiamato ha subìto nel tempo una rilettura giurisprudenziale nell’ambito del fine-vita, in particolare a partire dalle decisioni dei casi Welby ed Englaro che, come noto, hanno segnato un’enfasi in chiave auto-deterministica del diritto al rifiuto delle cure, anche quanto queste siano necessarie alla conservazione della vita.

Venendo a trattare della ratio di incriminazione delle tre autonome ipotesi delittuose contemplate dall’art. 580 c.p. (aiuto al suicidio, determinazione e rafforzamento dell’altrui proposito di suicidio), la Corte di assise di appello individua l’offesa delle tre condotte nel «danno sociale che proviene dall’intervento di terzi nel suicidio di una persona, senza che il fatto assuma l’aspetto dell’omicidio del consenziente. Ciò è espressione – continua la sentenza – della qualificazione, nel nostro ordinamento, del suicidio quale fatto moralmente e socialmente dannoso, che cessa di essere penalmente indifferente quando a cagionarlo, concorra, insieme con l’attività del soggetto principale (il suicida), anche un’altra forza individuale estranea. Proprio detto percorso costituisce, appunto, quel rapporto tra persone che determina l’intervento preventivo-repressivo del diritto contro il terzo, poiché proprio da quest’ultimo proviene l’elemento che determina l’evento dannoso, concretizzando ciò che sarebbe stato relegato alla sfera intima del suicida».

Fin qui, a parte il riferimento al concetto di “danno sociale” che, in verità, non è appropriato perché oscura la dimensione personalistica del bene protetto dalle norme incriminatrici dettate dall’art. 580 c.p., la sentenza in commento esclude con chiarezza la configurabilità di un diritto individuale al suicidio.

Nel seguito, tuttavia, la stessa sentenza ripercorre in termini piuttosto affrettati i princìpi in materia dettati dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo nei precedenti Pretty (2002), Hass (2011) e Gross (2013), i quali, come noto, si sono occupati dell’ammissibilità dei limiti posti dagli Stati all’accesso a pratiche di suicidio assistito. Prendendo le mosse dalla decisione più risalente (Pretty c. Regno Unito), la Corte siciliana, pur menzionando alcuni passaggi di quella sentenza, omette, ad es., di richiamarne almeno due nodi fondamentali in cui i giudici europei espressamente escludono che il diritto alla vita sancito dall’art. 2 CEDU possa ricomprendere anche il diritto alla morte per mano di terze persone o con l’assistenza di un’autorità pubblica (cfr. Pretty c. U.K., par. 40) e in cui ribadiscono il dovere per gli Stati di adottare ogni atto o misura preventiva per salvaguardare l’incolumità individuale

Con riferimento, poi, al precedente Hass c. Svizzera, è pur vero, come si legge nella sentenza catanese, che la Corte EDU fa discendere dall’art. 8 CEDU il diritto individuale a decidere quando e in che modo mettere fine alla propria vita, a condizione che il soggetto sia in grado di orientare liberamente la propria volontà; tuttavia, l’arresto Hass pure afferma (precisazione omessa nella sentenza depositata lo scorso 12 luglio) che la pretesa al suicidio assistito non sia giuridicamente azionabile, in quanto non è un diritto ad una prestazione da parte dello Stato o all’intervento del terzo.

Soprattutto nella ricostruzione del diritto vivente interno in materia di fine vita, la Corte di assise di appello non offre una lettura adeguata della sentenza n. 242 del 2019 della Corte costituzionale, che, nel giudizio incidentale promosso nell’ambito del processo milanese contro Marco Cappato, ha dichiarato la parziale illegittimità dell’art. 580 c.p. Tale decisione, diversamente da quanto affermano i giudici siciliani, non ha introdotto, infatti, un diritto al suicidio assistito per le persone affette da patologia irreversibile e sofferenze intollerabili, sottoposte a trattamento di sostegno vitale e capaci di formulare personalmente la richiesta di suicidio: qualora ricorrano tali quattro condizioni, la sentenza della Consulta del 2019, dichiarando l’incostituzionalità parziale della sola norma incriminatrice (tra le tre dettate dall’art. 580 c.p.) dell’aiuto al suicidio, si è limitata a prevedere una causa di non punibilità nei confronti del sanitario che, nel contesto di una sua adesione volontaria e libera alla richiesta del malato, lo aiuti nel darsi la morte. Dalla sentenza n. 242 non discende, infatti, alcun obbligo di intervento anticonservativo per il sanitario, a riprova del fatto il suicidio assistito non costituisce una pretesa individuale che il malato possa far valere nei confronti di terzi.  Proprio a tal proposito si legge nella pronuncia della Consulta: «Quanto, infine, al tema dell’obiezione di coscienza del personale sanitario, vale osservare che la presente declaratoria di illegittimità costituzionale si limita a escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici. Resta affidato, pertanto, alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato».

A fronte di queste premesse, l’arresto catanese finisce per travisare la stessa oggettività giuridica delle norme incriminatrici dettate dall’art. 580 c.p. Si legge in sentenza: «Il quadro fin qui tracciato spinge ad evidenziare, alla luce di quanto positivizzato anche nella l. 219/2017, che il bene giuridico tutelato dall’art. 580 c.p. non è la vita in quanto valore superindividuale e non disponibile come risalenti orientamenti pretendevano di sostenere. Il bene giuridico che viene in rilievo nel caso dell’istigazione è, infatti, la libertà di autodeterminazione del soggetto: non si vuole evitare che si sviluppi un proposito suicidario ma si vuole garantire che questo avvenga in maniera del tutto autonoma e libera da condizionamenti esterni. Proprio in caso di condizionamento esterno l’evento morte non sarebbe causa di una scelta libera del suicida ma conseguenza di un comportamento volontario e cosciente di un altro soggetto volto a causarne, mediante suicidio, la morte: in caso di istigazione al suicidio, il suicida non è più un soggetto attivo, bensì un soggetto passivo della decisione altrui».

Una siffatta ricostruzione del bene giuridico protetto dall’art. 580 c.p. (e specificamente delle norme dettate da tale articolo che incriminano l’istigazione al suicidio nelle due ipotesi di determinazione e di rafforzamento dell’intento di suicidio), disattende del tutto le indicazioni della Corte costituzionale.  Come da quest’ultima chiarito con l’ord. n. 207 del 2018, infatti, «l’incriminazione dell’istigazione e dell’aiuto al suicidio – rinvenibile anche in numerosi altri ordinamenti contemporanei – è, in effetti, funzionale alla tutela del diritto alla vita, soprattutto delle persone più deboli e vulnerabili, che l’ordinamento penale intende proteggere da una scelta estrema e irreparabile, come quella del suicidio. Essa assolve allo scopo, di perdurante attualità, di tutelare le persone che attraversano difficoltà e sofferenze, anche per scongiurare il pericolo che coloro che decidono di porre in atto il gesto estremo e irreversibile del suicidio subiscano interferenze di ogni genere».

D’altronde se il bene protetto dalla norma incriminatrice dell’art. 580 c.p. fosse esclusivamente l’autodeterminazione individuale non si giustificherebbe più, a ben vedere, né l’incriminazione, dettata dallo stesso art. 580 c.p., dell’aiuto al suicidio, né quella dell’omicidio del consenziente di cui all’art. 579 c.p. che sanzionano fatti in cui non vi è intromissione da parte di un soggetto terzo nel processo decisionale del suicida.

La sentenza in commento, pertanto, pur lodevole per lo sforzo di fornire all’interprete un catalogo articolato di criteri per valutare la consumazione della condotta di rafforzamento dell’intento di suicidio punita dall’art. 580 c.p., finisce per fraintendere, forse all’esito di una lettura affrettata dei precedenti di Strasburgo e, soprattutto, delle due decisioni costituzionali relative al caso Cappato (n. 207 del 2018 e n. 242 del 2019), l’oggettività giuridica dello stesso art. 580 c.p. che, invero, non svolge la funzione di garantire che la scelta individuale di suicidarsi sia compiuta in un contesto di libertà morale del suicida, in nome dell’autodeterminazione individuale, ma tutela piuttosto la vita del soggetto esposto al rischio di suicidio, inibendo le condotte materiali e morali di terzi che agevolino su di un piano o sull’altro il compimento dell’atto suicida. È, dunque, senz’altro il diritto alla vita (e non l’autodeterminazione individuale) il bene protetto dall’articolo in questione.

Fonte: https://www.centrostudilivatino.it/il-rafforzamento-del-proposito-di-suicidio-integrante-istigazione-al-suicidio-punibile-ai-sensi-dellart-580-c-p/

 

Il necroforo dei suicidi

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di Antonio Catalano

Il necroforo dei suicidi

Fonte: Antonio Catalano

Noi in Italia abbiamo un signore, Marco Cappato, che orgogliosamente rivendica di accompagnare in Svizzera persone dove legalmente accedono al “servizio” di suicidio assistito. Missione di Cappato: garantire il “diritto assoluto di morire”. A prescindere dall’esistenza stessa di una malattia. Secondo Cappato lo Stato deve garantire il diritto di uccidersi o di essere ucciso in modo “degno”, cioè secondo certi protocolli medico-sanitari. L’ultimo caso (2 agosto) riguarda una paziente malata di cancro, non una persona dipendente da “sostegni di trattamento vitale”, condizione posta dalla Corte Costituzione dopo il caso Fabo. Cappato ritiene che questa condizione sia “discriminatoria” verso quei malati che non dipendono da alcun sostegno di trattamento vitale. Cappato quindi, con questo ultimo viaggio in Svizzera, ha voluto fissare l’asticella un po’ più in alto: perché si reinterpretino le condizioni della Corte Costituzionale perché, anche IN ASSENZA DI DIPENDENZA DA TALI SOSTEGNI VITALI, si possa aspirare al suicidio assistito. Cappato fa parte di quel partito che, molto giustamente, Gianluca Marletta definisce il più iniquo fra tutti i partiti italiano: il Partito Radicale.
Andiamo in Canada. Abbiamo qui a disposizione il rapporto annuale che riguarda l’applicazione della legge sulla morte medicalmente assistita. I dati sono inquietanti. Nel 2021 si sono registrati 10.064 decessi assistiti. Di questi 1.740 riguardano persone che hanno chiesto e ottenuto l’eutanasia o il suicidio assistito solo perché soffrivano di solitudine e isolamento. Faccio presente che il Canada l’anno scorso (2021) ha approvato la nuova legge con un emendamento per aprirla anche a depressi e malati mentali. “Uccidiamoli così non dovranno suicidarsi”. I malati di mente già possono accedere alla morte assistita.
In questo nostro mondo, nel quale avanza la disgregazione delle forme associate, nel quale la famiglia, cellula primaria della comunità umana, è letteralmente aggredita perché non consona alle transumane leggi del capitalismo della sorveglianza, l’individuo deve sballarsi e divertirsi finché fa mercato, finché è prestante, poi deve semplicemente togliersi dai coglioni; e se si sente solo, depresso o escluso sappia che può tranquillamente levare il disturbo: ci pensa lo Stato-Cappato.

La mia vita appartiene a me?

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Segnalazione Corrispondenza Romana

di Tommaso Scandroglio

Come molti sapranno la Corte costituzionale ha recentemente bocciato il referendum sull’abrogazione pressoché totale dell’art. 580 cp che vieta l’omicidio del consenziente. L’associazione Luca Coscioni, promotrice tra gli altri di questo referendum, ha coniato uno slogan, fra i molti, per sostenere la raccolta firme: “La mia vita appartiene a me”.

Il significato di questo slogan, di uso comune da tempo, non è condivisibile almeno per due motivi. Il verbo “appartenere” significa “essere di legittima proprietà di qualcuno” oppure far parte di una famiglia, di un gruppo sociale o essere incluso in un luogo oppure, infine, “spettare, essere di competenza, riguardare”. Appare evidente che i radicali hanno scelto come accezione la prima: la vita è di mia proprietà, io ho la legittima proprietà sulla mia vita. Ma non esiste un legame di proprietà tra la persona e la vita semplicemente perché non esiste la persona e un qualcosa chiamato “vita” sui cui esercito un diritto di proprietà, bensì esiste solo la persona vivente. Sul piano naturale non si dà persona se non vivente: l’aggettivo, che è anche participio presente di vivere, è coessenziale alla persona, è condicio sine qua non dell’esistenza del concetto di persona. Non si può predicare l’una senza l’altra, sul piano naturale. C’è piena coincidenza dei due termini.

Un’obiezione a quanto sin qui detto potrebbe essere la seguente: la prospettiva promossa dai radicali sottintende un Io che ha la proprietà sul corpo vivente. Ma anche in questo caso il corpo non è di proprietà della persona. La persona è sinolo di materia e forma, ossia dell’unione-fusione strettissima del principio immateriale chiamato “anima” che informa la materia, cioè il corpo. I due principi sono distinti intellettivamente, ma, finché la persona è viva, sono una realtà unica, inscindibile. Da ciò deriva che io sono la mia anima e il mio corpo. Io sono anche il mio corpo e non ho il mio corpo.

La visione radicale invece risente di alcuni influssi platonici dove il corpo è visto come una tomba, un carcere dell’anima da cui si deve liberare. La liberazione, per Marco Cappato & Co., deve avvenire quando il corpo da luogo ameno e funzionale diventa un carcere a seguito della malattia, della sofferenza, della disabilità, etc. L’eutanasia è quindi liberazione da un corpo percepito come una catena che ci lega ad una vita segnata solo dalla sofferenza. Una visione che poi è influenzata anche da prospettive culturali fortemente antimetafisiche e dunque empiriste ed utilitariste: il corpo viene reificato, cosificato e quindi si può predicare su di esso un diritto di proprietà. Uno sguardo svilente sulla persona perché la sua corporeità, parte integrante della sua persona, viene ridotta a pura materia la quale, guastandosi, è bene rifiutarla, scartarla, cestinarla, separarsene a forza con l’eutanasia. Quindi il corpo è solo una cosa che quando si danneggia e non val più la pena ripararla si può anche buttare proprio perché il vero Io, entità solo spirituale, vanta su di esso pieno dominio, pieno possesso. In breve l’Io abita il corpo che è la casa di sua proprietà, ma quando questa casa va in rovina si può anche decidere di abbandonarla. Anche il nostro ordinamento giuridico ripudia l’idea che si possa predicare un diritto di proprietà sul corpo dato che, ad esempio, è vietata la compravendita di organi.

Ma vi è almeno un secondo motivo per cui è errato affermare “La mia vita appartiene a me” e questo motivo riguarda Dio. Scrive Tommaso d’Aquino: «soltanto Dio è essere per essenza, mentre tutte le altre cose sono esseri per partecipazione» (Summa contra Gentiles, III, c. 66). Dunque l’unico modo per avere l’essere è partecipare all’essere, che non può che derivare da Dio. Questa derivazione avviene tramite la creazione, cioè la chiamata dal nulla. Per la persona umana ciò significa che Dio crea ciascuna anima che, sempre per Sua volontà, informa la materia umana, già data, al momento del concepimento. Dunque la relazione tra Dio e l’uomo è la relazione tra Creatore e creatura. Potremmo quindi dire che noi siamo proprietà di Dio? In senso stretto, nemmeno in questo caso. Sia perché la proprietà, come già accennato, è predicabile solo in riferimento alle cose e la persona umana non è una res. Sia perché la relazione tra Creatore e creatura è molto più salda e profonda di quella esistente tra proprietario e bene oggetto di proprietà. Il Creatore chiama dal nulla e dona l’essere. In questo senso e tornando al verbo usato nello slogan dei radicali, noi apparteniamo a Dio, nel senso che partecipiamo all’essere ricevuto da Lui, abbiamo parte dell’essere da Lui donato. In questa prospettiva la nostra vita – per usare un termine adoperato nello slogan – appartiene a Lui e non solo a motivo della creazione, ma anche per il fatto che Dio costantemente ci mantiene nell’esistenza. È solo grazie alla Sua volontà che noi persistiamo nell’esistenza, altrimenti scompariremmo nel nulla. Anche in questo senso dobbiamo dire che la nostra vita appartiene a Lui perché dipende, per continuare ad esistere, da Lui.

Chiaramente queste riflessioni sono assolutamente incomprensibili dalla maggioranza delle persone e quindi non condivisibili. Lo slogan dei radicali ha molta più presa delle presenti argomentazioni perché sintetizza in modo efficace un percepito comune che vede l’uomo come signore assoluto della propria vita, come titolare di un diritto di libertà che si espande all’infinito fino al dominio completo sulla propria esistenza, tanto completo che può decretarne anche la fine.

Fonte: https://www.corrispondenzaromana.it/la-mia-vita-appartiene-a-me/

EUTANASIA APPROVATA ALLA CAMERA IL 10 MARZO: TESTO PEGGIORATO RISPETTO A QUELLO DELLE COMMISSIONI RIUNITE

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Segnalazione del Centro Studi Livatino

Il testo unificato in materia di ‘morte medicalmente assistita’, approvato dalla Camera il 10 marzo 2022 agevola la procedura di suicidio assistito, accentua la sua identità eutanasica; non prescrive più al medico e al Comitato per la valutazione clinica di tenere conto delle ragioni familiari e sociali che motivano la richiesta di morte; consente al Comitato di accertare la volontà di morire del paziente anche in modalità telematica; restringe l’obiezione di coscienza. Esso non contiene alcun impegno di spesa per attuare la disciplina, e quindi per favorire l’accesso alle cure palliative e per aiutare le famiglie. Emblematica del valore conferito alla vita, alla dignità e all’autonomia del malato, è la disciplina provvisoria che consentirebbe l’accesso al suicidio assistito per un tempo di 270 giorni dall’eventuale approvazione definitiva, in assenza delle garanzie procedurali minime previste dallo stesso t.u.

di Carmelo Domenico Leotta

1. Il testo unificato in contrasto con le indicazioni della Corte costituzionale. La proposta di legge approvata il 10 marzo scorso alla Camera, assegnata al Senato il successivo 16 marzo (Atto S.2553) recante Disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita, presenta modifiche rispetto al testo unificato licenziato dalle Commissioni riunite Giustizia e Affari sociali il 9 dicembre 2021 (Atto C.3101). Per comodità di lettura, verrà indicata come t.u.

Di tali modifiche si può prendere visione tramite la tabella di confronto tra i due testi, che pubblichiamo a seguire; in taluni casi si tratta di semplici mutamenti lessicali, come la sostituzione della parola “malato” con la parola “persona” all’art. 2 co. 3 lett. a); in altri casi le modifiche, se colte nel loro contesto, radicalizzano la scelta di fondo del t.u., sostanzialmente ispirata ad un favor mortis del malato. Tale impostazione disattende gravemente le indicazioni della Corte costituzionale che, pochi giorni prima dell’approvazione della p.d.l. da parte della Camera, con la sentenza n. 50 depositata il 2 marzo (ud. 15 febbraio), ha dichiarato l’inammissibilità della proposta referendaria sull’omicidio del consenziente (art. 579 cod. pen.). Con tale decisione, la Consulta ha ribadito, richiamando la propria costante giurisprudenza, che “il diritto alla vita, riconosciuto implicitamente dall’art. 2 Cost., è “da iscriversi tra i diritti inviolabili, e cioè tra quei diritti che occupano nell’ordinamento una posizione, per dir così, privilegiata, in quanto appartengono – per usare l’espressione della sentenza n. 1146 del 1988 – all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana” (sentenza n. 35 del 1997). Esso “concorre a costituire la matrice prima di ogni altro diritto, costituzionalmente protetto, della persona” (sentenza n. 238 del 1996)” (cf. https://www.centrostudilivatino.it/omicidio-del-consenziente-e-droga-le-motivazioni-della-corte-costituzionale/#more-10292).

2. Elementi di divergenza rispetto alle sentenze della Consulta. La sentenza n. 50/2022, che pur si è espressa per la non ammissibilità della proposta referendaria avente a oggetto l’omicidio del consenziente, non ha mancato di richiamare l’ordinanza n. 207/2018 e la sentenza n. 242/2019 della medesima Consulta in materia di aiuto al suicidio (art. 580 cod. pen.), nelle quali si è detto a chiare lettere che il godimento del diritto alla vita, “primo dei diritti inviolabili dell’uomo” (sentenza n. 223/1996) comporta “il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo: non quello – diametralmente opposto – di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire”.

Ancorché l’impostazione fatta propria dalla Corte costituzionale con l’ordinanza n. 207/2018 e con la sentenza n. 242/2019 non sia condivisibile nel suo contenuto decisorio – perché ammette una deroga, seppur in casi limitati, al principio di indisponibilità della vita e fa un’equiparazione, tutt’altro che pacifica, tra rifiuto della cura e suicidio assistito (sui problemi posti dall’ordinanza cf. il volume (a cura) di Mauro Ronco, Il ‘diritto’ di essere uccisi: verso la morte del diritto?, Giappichelli 2019 https://www.centrostudilivatino.it/il-diritto-di-essere-uccisi-verso-la-morte-del-diritto/; sulla sentenza, ex multis, (a cura) di Alfredo Mantovano, Eutanasia le ragioni del no. Il referendum, la legge, le sentenze, Cantagalli 2021 https://www.edizionicantagalli.com/shop/eutanasia-le-ragioni-del-no/)– essa ha avuto il pregio di escludere che la richiesta di morte assurga a diritto soggettivo del malato e si è limitata a prevedere una causa di non punibilità a vantaggio di chi, liberamente accogliendo la richiesta dell’interessato, ne abbia cagionato il decesso.

L’impostazione del t.u. che, già nella versione dello scorso dicembre, allargava rispetto alla sentenza n. 242 del 2019 l’accesso al suicidio assistito (sui cambiamenti apportati dalle Commissioni riunite rispetto al testo originario sottoposto al loro esame cf. https://www.centrostudilivatino.it/eutanasia-le-ragioni-del-no-il-referendum-le-legge-le-sentenze-aggiornamento-con-gli-emendamenti-approvati-in-commissione/), è ora peggiorata stanti, in particolare:

  • l’ulteriore agevolazione nella procedura;
  • l’affievolimento degli strumenti di controllo sulla libertà di scelta del malato;
  • la restrizione dell’obiezione di coscienza;
  • la previsione di una disciplina provvisoria.

Che, d’altronde, la tutela del diritto alla vita non sia tema di particolare interesse per il t.u. è dato inequivocabile, posto che all’art. 2 co. 3 nell’elenco dei princìpi fondamentali che il Servizio sanitario nazionale deve rispettare in materia di suicidio assistito, si menzionano la dignità e l’autonomia del malato; la qualità della vita e il sostegno al malato, ma (nella versione del 9 dicembre così come in quella approvata il 10 marzo) del diritto alla vita… nessuna traccia! Ciò premesso, si segnala nel dettaglio quanto segue.

3. Art. 5 co. 2: soppressa la considerazione delle condizioni familiari e sociali del suicidio assistito. Il medico che riceve la richiesta di morte medicalmente assistita da parte del paziente, nella versione del t.u. approvata il 10 marzo, redige “un rapporto dettagliato e documentato sulle condizioni cliniche e psicologiche del richiedente e sulle motivazioni che l’hanno determinata”.

La precedente versione prevedeva che oggetto del rapporto fossero anche le condizioni familiari e sociali del malato. Tale espunzione è grave e foriera di conseguenze negative per la tutela del malato; il rapporto è infatti oggetto di vaglio da parte del Comitato di valutazione clinica (art. 5 co. 5 ss.) e si conclude con il parere dello stesso Comitato, favorevole o contrario alla richiesta di morte medicalmente assistita. L’esclusione, prima per il medico che riceve la richiesta poi per il Comitato, dell’esame delle condizioni sociali e familiari del paziente rende impossibile, soprattutto da parte del Comitato, una valutazione complessiva che tenga conto, per es., di quanto possano avere inciso sulla scelta di morire opinioni o pressioni familiari ed eventuali ristrettezze economiche. Tale modifica è segno evidente e inequivocabile del fatto che, nell’impianto del t.u., il suicidio assistito, anziché essere la risposta estrema a mali ritenuti non altrimenti affrontabili – soluzione che comunque non è eticamente e giuridicamente ammissibile perché comporta la partecipazione a un atto causativo della morte di una persona –, si presta a divenire una sempre più larga “via di uscita” dall’esistenza, di fronte a situazioni di grave problematicità sociale e familiare generate dalla malattia.

L’espunzione delle condizioni familiari e sociali dal campo di indagine del medico e del Comitato non solo snellisce e agevola l’accesso al suicidio assistito ma è anche indice del reale valore che il t.u. assegna all’autonomia del paziente; a fronte dei proclami altisonanti sull’autonomia, sull’autodeterminazione e sulla dignità personale, la soluzione normativa che la Camera ha adottato è di non prevedere che il medico che riceve la richiesta e il Comitato che la valuta debbano tenere in conto proprio quei fattori ambientali che maggiormente interferiscono con la formazione della volontà del malato .

4. Art. 5 co. 5: volontà di morire accertabile per il Comitato anche ‘da remoto’. Non sono bastati due anni di vita sulle piattaforme online per rendere evidente a chiunque che l’interazione telematica tra le persone non è efficace come quella “in presenza”: ne parlano docenti, psicologici, esperti della comunicazione, sociologi, ma non ne tiene conto la Camera; essa rettifica l’art. 5 co. 5, prevedendo che l’audizione personale del malato finalizzata – si badi – ad “accertare che la richiesta di morte medicalmente assistita sia stata informata, consapevole e libera” possa avvenire anche telematicamente. La precedente versione del testo, pur senza qualificare tale procedura come obbligatoria, quanto meno prevedeva che, ove il Comitato intendesse sentire il malato, si dovesse recare, anche tramite un delegato, al domicilio del paziente.

La modifica è chiaramente pur essa volta, come la precedente, a snellire la procedura di accertamento delle condizioni che consentono la richiesta di morte medicalmente assistita, in vista di un suo più rapido espletamento. Anche in questo caso è evidente quanto poco stia a cuore il reale controllo della libertà di scelta del malato, da sentire tranquillamente in modalità smart. In fondo il malato che ha deciso di morire potrebbe già aver assorbito tante risorse di denaro e di tempo: un’ultima call basta per mettere “agli atti” che davvero la morte era ciò che voleva, precludendo quel contatto diretto che permetterebbe di coglierne fino in fondo le reali motivazioni e i disagi sottostanti!

5. L’obiezione di coscienza. Nessuna obiezione (art. 6 t.u.) per il pubblico ufficiale che, nel testo approvato il 10 marzo, interviene nella procedura di morte medicalmente assistita, ai sensi dell’art. 4 co. 2, attestando l’autenticità, la data e il luogo di espressione della volontà dell’interessato. Eppure, l’intervento del pubblico ufficiale – non contemplato nel t.u. del 9 dicembre – ha un’efficacia causale indispensabile e diretta nell’espletamento della procedura, e quindi realizza quel contrasto fra il precetto normativo, la deontologia e i dettami intimi della coscienza, tale da meritare tutela.

Circa l’operatore sanitario, la precedente formulazione dell’art. 6 t.u. prevedeva che l’obiezione di coscienza spettasse al “personale sanitario ed esercente le attività sanitarie ausiliarie”: il testo del 10 marzo riferisce invece il diritto all’obiezione solo all’esercente la professione sanitaria in senso stretto, escludendo quanti esercitano attività ausiliarie, senza essere al contempo esercenti professioni sanitarie.

6. La clausola di invarianza finanziaria. L’art. 9 t.u. fissa la clausola di invarianza finanziaria, in virtù della quale, dall’attuazione della legge “non devono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica. Le amministrazioni competenti provvedono agli adempimenti ivi previsti con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente”.

La previsione è neutra solo in apparenza, e costituisce il contrario di quel segnale virtuoso che parrebbe costituire per la finanza pubblica, rassicurante per chi è contrario al suicidio assistito e all’eutanasia. Se davvero il suicidio assistito, come si fa credere all’opinione pubblica, fosse inteso, nell’impianto del t.u., come il rimedio estremo dinnanzi al fallimento di tutte le altre vie proposte al malato, come è possibile, nel momento in cui se ne consente la pratica, non investire contestualmente sulle cure palliative e sul sostegno agli informal caregiver, vale a dire a quei soggetti, appartenenti alla rete familiare e amicale del malato, che gli prestano assistenza?

La scelta del t.u. che da un lato esige, per l’accesso al suicidio assistito, il previo coinvolgimento del malato (salvo il suo rifiuto) in un percorso di cure palliative, dall’altro non impiega nessuna risorsa per rendere concrete tali cure, mostra come in realtà il suicidio assistito sia, nel testo approvato dalla Camera, non tanto la soluzione di extrema ratio per chi non sopporta più le proprie sofferenze, quanto la via più semplice, immediata ed economica offerta a chi deve affrontare un grave dolore.

7. L’entrata in vigore e la disciplina transitoria. Il t.u. approvato dall’Aula si conclude con un nuovo art. 11, che stabilisce l’entrata in vigore della legge 90 giorni dopo la pubblicazione in Gazzetta.

L’art. 11 co. 2 prevede tuttavia che, nelle “more dell’entrata in vigore della presente legge, si provvede all’aggiornamento delle prestazioni a carico del Servizio sanitario nazionale, ai sensi dell’articolo 1, commi 554 e 559, della legge 28 dicembre 2015, n. 208, conformemente alle prestazioni previste dalle disposizioni della presente legge e nei limiti delle risorse finanziarie destinate al medesimo Servizio sanitario nazionale dalla legislazione vigente”: è un comma avente efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione.

Occorre chiedersi, tuttavia, se le pratiche di suicidio assistito possano effettivamente essere inserite, stando al diritto vigente, nelle prestazioni a carico del Servizio sanitario nazionale, in via provvisoria prima dell’entrata in vigore di una (eventuale) disciplina organica qual è quella dettata dagli art. 1-10, dai regolamenti istitutivi dei Comitati per la valutazione clinica (art. 7) e dal decreto del Ministro della salute (art. 10). Per verificare tale ipotesi occorre richiamare alcune norme in materia.

Anzitutto, l’art. 1 co. 554 L. n. 208/2015 (legge di stabilità 2016) – cui l’art. 11 co. 2 t.u. rinvia – stabilisce che i livelli essenziali di assistenza (c.d. LEA) di cui all’art. 1 co. 7 D.Lgs. 502/1992 siano definiti con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri su proposta del Ministro della salute, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, d’intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano e previo parere delle competenti Commissioni parlamentari. L’art. 1 co. 7 D.Lgs. n. 502/1992 prevede, a sua volta, che sono “posti a carico del Servizio sanitario le tipologie di assistenza, i servizi e le prestazioni sanitarie che presentano, per specifiche condizioni cliniche o di rischio, evidenze scientifiche di un significativo beneficio in termini di salute, a livello individuale o collettivo, a fronte delle risorse impiegate”.

Ai sensi dello stesso art. 1 co. 7 cit., sono esclusi dai livelli di assistenza erogati a carico del Servizio sanitario nazionale, tipologie di assistenza, servizi e prestazioni sanitarie che (tra gli altri casi di esclusione) non rispondono a necessità assistenziali tutelate in base ai principi ispiratori del Servizio sanitario nazionale, di cui all’art. 1 co. 2 dello stesso D.Lgs. Il co. 2 da ultimo richiamato sancisce espressamente che i livelli essenziali di assistenza garantiti dal Servizio sanitario nazionale, attraverso le risorse finanziarie pubbliche, siano in coerenza con i princìpi e gli obiettivi indicati dagli art. 1 e 2 L. n. 833/1978, istitutiva del servizio sanitario nazionale. L’art. 1 L. n. 833 al co. 3 stabilisce che finalità del servizio sanitario nazionale siano la promozione, il mantenimento e il recupero della salute fisica e psichica (e non, ad es., il dare la morte al paziente). L’art. 2 della stessa L. n. 833, sempre elencando i princìpi ispiratori del S.S.N., prevede al comma 2, lett. f) «la tutela della salute degli anziani, anche al fine di prevenire e di rimuovere le condizioni che possono concorrere alla loro emarginazione».

In breve, le prestazioni di suicidio assistito, a fortiori prima dell’entrata in vigore di una disciplina organica, non tollerano l’inserimento nei LEA, perché incompatibili con i principi ispiratori di erogazione delle prestazioni rese dal S.S.N. in base alla L. n. 833/ 1978 e al D.Lgs. n. 502/1992.

Vi è poi da chiedersi come sia possibile prevedere una disciplina provvisoria prima della istituzione, di cui all’art. 7 t.u., dei Comitati di valutazione clinica, i quali hanno la funzione precipua di garantire la tutela della dignità del malato. I Comitati potranno essere istituiti in un termine di 180 giorni dall’entrata in vigore della legge, la quale a sua volta entrerebbe in vigore dopo 90 giorni dalla pubblicazione in Gazzetta. La disciplina provvisoria dell’art. 11 co. 2 invece entrerebbe in vigore il giorno successivo alla pubblicazione della legge in Gazzetta, come previsto dallo stesso art. 11 co. 3. Discorso analogo riguarda l’emanazione del decreto del Ministro della salute, considerato dall’art. 10 t.u., in cui dovrebbero essere previste norme di prim’ordine, relative ai requisiti delle strutture del Servizio sanitario nazionale idonee ad accogliere le persone che fanno richiesta di morte (lett. a); ai protocolli e alle modalità per la prescrizione, la preparazione, il coordinamento e la sorveglianza della procedura di morte (lett. b); alle procedure di sostegno psicologico alla persona malata e ai suoi familiari (lett. c); alle modalità di un’informazione capillare sulle possibilità offerte dalla legge 22 dicembre 2017, n.219 (lett. e); alle modalità di monitoraggio e di potenziamento delle cure palliative (lett. f).

La norma provvisoria prevista dall’art. 11 co. 2 t.u. è pertanto inattuabile: ancora una volta, segnala l’inadeguatezza tecnica del testo approvato dall’Aula della Camera. L’inserimento della disposizione provvisoria dice molto sul piano politico: che un ramo del Parlamento approvi un testo che permette l’accesso al suicidio assistito in totale assenza di una tutela minima per il malato per un tempo di 270 giorni dalla pubblicazione della legge in Gazzetta – 180 giorni necessari per l’istituzione dei Comitati e per l’emanazione del decreto ministeriale dall’entrata in vigore della legge, cui aggiungere 90 giorni per la stessa entrata in vigore della legge, che decorrono dalla sua pubblicazione – è il segnale più chiaro e incontrovertibile di quanto poco valga, per l’odierna rappresentanza della Nazione, la vita della persona malata.


Testi a confronto: in rosso le novità apportate dall’Aula della Camera rispetto al testo delle Commissioni riunite (a cura di Carmelo Domenico Leotta e di Aldo Rocco Vitale)

A.C. 2-1418-1586-1655-1875-1888-2982-3101-A Testo unificato (versione 9 dicembre 2021) A.S.2553 Disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita approvato dalla Camera il 10 marzo 2022 e trasmesso al Senato l’11 marzo 2022
Art. 1. (Finalità) 1. La presente legge disciplina la facoltà della persona affetta da una patologia irreversibile e con prognosi infausta o da una condizione clinica irreversibile di richiedere assistenza medica, al fine di porre fine volontariamente e autonomamente alla propria vita, alle condizioni, nei limiti e con i presupposti previsti dalla presente legge e nel rispetto dei princìpi della Costituzione, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Art. 1. (Finalità)  1. La presente legge disciplina la facoltà della persona affetta da una patologia irreversibile e con prognosi infausta o da una condizione clinica irreversibile di richiedere assistenza medica, al fine di porre fine volontariamente e autonomamente alla propria vita, alle condizioni, nei limiti e con i presupposti previsti dalla presente legge e nel rispetto dei princìpi della Costituzione, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Art. 2. (Definizione) 1. Si intende per morte volontaria medicalmente assistita il decesso cagionato da un atto autonomo con il quale, in esito al percorso disciplinato dalle norme della presente legge, si pone fine alla propria vita in modo volontario, dignitoso e consapevole, con il supporto e sotto il controllo del Servizio sanitario nazionale, secondo le modalità previste dagli articoli 4 e 5.   2. Tale atto deve essere il risultato di una volontà attuale, libera e consapevole di un soggetto pienamente capace di intendere e di volere.   3. Le strutture del Servizio sanitario nazionale operano nel rispetto dei seguenti princìpi fondamentali:   a) tutela della dignità e dell’autonomia del malato;   b) tutela della qualità della vita fino al suo termine;   c) adeguato sostegno sanitario, psicologico e socio-assistenziale alla persona malata e alla famiglia. Art. 2. (Definizione)   1. Si intende per morte volontaria medicalmente assistita il decesso cagionato da un atto autonomo con il quale, in esito al percorso disciplinato dalle norme della presente legge, si pone fine alla propria vita in modo volontario, dignitoso e consapevole, con il supporto e sotto il controllo del Servizio sanitario nazionale, secondo le modalità previste dagli articoli 4 e 5.   2. Tale atto deve essere il risultato di una volontà attuale, libera e consapevole di un soggetto pienamente capace di intendere e di volere.   3. Le strutture del Servizio sanitario nazionale operano nel rispetto dei seguenti princìpi fondamentali:   a) tutela della dignità e dell’autonomia della persona;  b) tutela della qualità della vita fino al suo termine;  c) adeguato sostegno sanitario, psicologico e socio-assistenziale alla persona malata e alla famiglia.
 Art. 3. (Presupposti e condizioni) 1. Può fare richiesta di morte volontaria medicalmente assistita la persona che, al momento della richiesta, abbia raggiunto la maggiore età, sia capace di intendere e di volere e di prendere decisioni libere, attuali e consapevoli, adeguatamente informata, e che sia stata previamente coinvolta in un percorso di cure palliative al fine di alleviare il suo stato di sofferenza e le abbia esplicitamente rifiutate.     2. Tale persona deve altresì trovarsi nelle seguenti concomitanti condizioni:   a) essere affetta da una patologia attestata dal medico curante e dal medico specialista che la ha in cura come irreversibile e con prognosi infausta, oppure essere portatrice di una condizione clinica irreversibile, che cagionino sofferenze fisiche e psicologiche che la persona stessa trova assolutamente intollerabili;   b) essere tenuta in vita da trattamenti sanitari di sostegno vitale, la cui interruzione provocherebbe il decesso del paziente. Art. 3. (Presupposti e condizioni)  1. Può fare richiesta di morte volontaria medicalmente assistita la persona che, al momento della richiesta, abbia raggiunto la maggiore età, sia capace di intendere e di volere e di prendere decisioni libere, attuali e consapevoli, adeguatamente informata, e che sia stata previamente coinvolta in un percorso di cure palliative al fine di alleviare il suo stato di sofferenza e le abbia esplicitamente rifiutate o le abbia volontariamente interrotte.   2. Tale persona deve altresì trovarsi nelle seguenti concomitanti condizioni:  a) essere affetta da una patologia attestata dal medico curante o dal medico specialista che la ha in cura come irreversibile e con prognosi infausta, oppure essere portatrice di una condizione clinica irreversibile, che cagionino sofferenze fisiche e psicologiche che la persona stessa trova assolutamente intollerabili; b) essere tenuta in vita da trattamenti sanitari di sostegno vitale, la cui interruzione provocherebbe il decesso del paziente.
Art. 4. (Requisiti e forma della richiesta) 1. La richiesta di morte volontaria medicalmente assistita deve essere attuale, informata, consapevole, libera ed esplicita. La richiesta deve essere manifestata per iscritto e nelle forme dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata. La richiesta può essere revocata in qualsiasi momento senza requisiti di forma e con ogni mezzo idoneo a palesarne la volontà.   2. Nel caso in cui le condizioni della persona non lo consentano, la richiesta può essere espressa e documentata con videoregistrazione o qualunque altro dispositivo idoneo che le consenta di comunicare e manifestare inequivocabilmente la propria volontà, alla presenza di due testimoni.       3. La richiesta di morte volontaria medicalmente assistita deve essere indirizzata al medico di medicina generale o al medico che ha in cura il paziente, nel rispetto della relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico.   4. Ricevuta la richiesta, il medico prospetta al paziente, e se questi acconsente anche ai suoi familiari, le conseguenze di quanto richiesto e le possibili alternative, e promuove ogni azione di sostegno al paziente medesimo anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica. Art. 4. (Requisiti e forma della richiesta)  1. La richiesta di morte volontaria medicalmente assistita deve essere attuale, informata, consapevole, libera ed esplicita. La richiesta deve essere manifestata per iscritto e nelle forme dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata. La richiesta può essere revocata in qualsiasi momento senza requisiti di forma e con ogni mezzo idoneo a palesare la volontà.   2. Nel caso in cui le condizioni della persona non lo consentano, la richiesta può essere espressa e documentata con videoregistrazione o qualunque altro dispositivo idoneo che le consenta di comunicare e manifestare inequivocabilmente la propria volontà, alla presenza di due testimoni e di un pubblico ufficiale che attesti l’autenticità, la data e il luogo di espressione della volontà dell’interessato.   3. La richiesta di morte volontaria medicalmente assistita deve essere indirizzata al medico di medicina generale o al medico che ha in cura il paziente, nel rispetto della relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico.   4. Ricevuta la richiesta, il medico prospetta al paziente e, se questi acconsente, anche ai suoi familiari le conseguenze di quanto richiesto e le possibili alternative, e promuove ogni azione di sostegno al paziente medesimo, anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica.
Art. 5. (Modalità) 1. La morte volontaria medicalmente assistita deve avvenire nel rispetto della dignità della persona malata e in modo da non provocare ulteriori sofferenze ed evitare abusi. La persona malata ha la facoltà di indicare chi deve essere informato nell’ambito della sua rete familiare o amicale e chi può essere presente all’atto del decesso.   2. Il medico che ha ricevuto dal paziente la richiesta di morte volontaria medicalmente assistita formulata nelle forme di cui all’articolo 4 redige un rapporto dettagliato e documentato sulle condizioni cliniche, psicologiche, sociali e familiari del richiedente e sulle motivazioni che l’hanno determinata e lo inoltra al Comitato di valutazione clinica di cui all’articolo 7 territorialmente competente. Il rapporto è corredato da copia della richiesta e della documentazione medica e clinica ad essa pertinente.   3. Il rapporto deve precisare se la persona è stata adeguatamente informata della propria condizione clinica e della prognosi, se è stata adeguatamente informata dei trattamenti sanitari ancora attuabili e di tutte le possibili alternative terapeutiche. Il rapporto deve indicare inoltre se la persona è a conoscenza del diritto di accedere alle cure palliative e specificare se è già in carico a tale rete di assistenza o se ha esplicitamente rifiutato tale percorso assistenziale. Nel rapporto il medico è tenuto a indicare qualsiasi informazione da cui possa emergere che la richiesta di morte medicalmente assistita non sia libera, consapevole e informata.   4. Per la stesura del rapporto e la valutazione clinica il medico può avvalersi della collaborazione di medici specialisti. Qualora ritenga che manchino palesemente i presupposti e le condizioni di cui all’articolo 3 il medico non trasmette la richiesta al Comitato per la valutazione clinica, motivando la sua decisione.     5. Il Comitato per la valutazione clinica, entro trenta giorni, esprime un parere motivato sulla esistenza dei presupposti e dei requisiti stabiliti dalla presente legge a supporto della richiesta di morte volontaria medicalmente assistita e lo trasmette al medico richiedente e alla persona interessata. Ai fini dell’espressione del parere, il Comitato per la valutazione clinica può convocare il medico di riferimento o l’equipe sanitaria per una audizione e può altresì recarsi, anche a mezzo di un suo delegato, al domicilio del paziente per accertare che la richiesta di morte medicalmente assistita sia stata informata, consapevole e libera.   6. Nel corso del periodo che intercorre tra l’invio della richiesta al Comitato per la valutazione clinica e la ricezione del parere di quest’ultimo da parte del medico richiedente, al paziente è assicurato un supporto medico e psicologico adeguato.   7. Ove il parere sia favorevole, il medico richiedente lo trasmette tempestivamente, insieme a tutta la documentazione in suo possesso, alla direzione sanitaria dell’azienda sanitaria locale o alla direzione sanitaria dell’azienda ospedaliera di riferimento, che deve attivare le verifiche necessarie a garantire che il decesso avvenga, nel rispetto delle modalità di cui al comma 1, presso il domicilio del paziente o, laddove ciò non sia possibile, presso una struttura ospedaliera e sia consentito anche alle persone prive di autonomia fisica.             8. Nel caso in cui il medico non ritenga di trasmettere la richiesta al Comitato per la valutazione clinica o in caso di parere contrario dello stesso Comitato, resta ferma comunque la possibilità per la persona che abbia richiesto la morte volontaria medicalmente assistita di ricorrere al giudice territorialmente competente, entro il termine di sessanta giorni dalla data di ricezione del parere.     9. La richiesta, la documentazione e il parere di cui ai precedenti commi fanno parte integrante della cartella clinica o del fascicolo sanitario elettronico ove già attivato.   10. Il medico presente all’atto del decesso è in ogni caso tenuto previamente ad accertare, eventualmente avvalendosi della collaborazione di uno psicologo, che persista la volontà di morte volontaria medicalmente assistita e che permangano tutte le condizioni di cui all’articolo 3.   11. Il decesso a seguito di morte volontaria medicalmente assistita è equiparato al decesso per cause naturali a tutti gli effetti di legge. Art. 5. (Modalità)   1. La morte volontaria medicalmente assistita deve avvenire nel rispetto della dignità della persona malata e in modo da non provocare ulteriori sofferenze ed evitare abusi. La persona malata ha la facoltà di indicare chi deve essere informato nell’ambito della sua rete familiare o amicale e chi può essere presente all’atto del decesso.   2. Il medico che ha ricevuto dal paziente la richiesta di morte volontaria medicalmente assistita, espressa nelle forme di cui all’articolo 4, redige un rapporto dettagliato e documentato sulle condizioni cliniche e psicologiche del richiedente e sulle motivazioni che l’hanno determinata e lo trasmette senza ritardo al Comitato per la valutazione clinica di cui all’articolo 7 territorialmente competente e all’interessato. Il rapporto è corredato di copia della richiesta e della documentazione medica e clinica ad essa pertinente.   3. Il rapporto deve precisare se la persona è stata adeguatamente informata della propria condizione clinica e della prognosi, se è stata adeguatamente informata dei trattamenti sanitari ancora attuabili e di tutte le possibili alternative terapeutiche. Il rapporto deve indicare inoltre se la persona è a conoscenza del diritto di accedere alle cure palliative e specificare se è già in carico a tale rete di assistenza o se ha esplicitamente rifiutato tale percorso assistenziale. Nel rapporto il medico è tenuto a indicare qualsiasi informazione da cui possa emergere che la richiesta di morte medicalmente assistita non sia libera, consapevole e informata.   4. Per laredazione del rapporto e la valutazione clinica il medico può avvalersi della collaborazione di medici specialisti. Qualora ritenga che manchino palesemente i presupposti e le condizioni di cui all’articolo 3, il medico non trasmette la richiesta al Comitato per la valutazione clinica, motivando per iscritto la sua decisione al richiedente.   5. Il Comitato per la valutazione clinica, entro trenta giorni, esprime un parere motivato sull’esistenza dei presupposti e dei requisiti stabiliti dalla presente legge a supporto della richiesta di morte volontaria medicalmente assistita e lo trasmette al medico richiedente e alla persona interessata. Ai fini dell’espressione del parere, il Comitato per la valutazione clinica può convocare il medico di riferimento o l’équipe sanitaria per un’audizione ed è tenuto a sentire il paziente, anche telematicamente o a mezzo di un proprio delegato, per accertare che la richiesta di morte medicalmente assistita sia stata informata, consapevole e libera.   6. Nel corso del periodo che intercorre tra l’invio della richiesta al Comitato per la valutazione clinica e la ricezione del parere di quest’ultimo da parte del medico richiedente, al paziente è assicurato un supporto medico e psicologico adeguato.   7. Ove il parere sia favorevole, il medico richiedente lo trasmette tempestivamente, insieme con tutta la documentazione in suo possesso, alla direzione sanitaria dell’azienda sanitaria locale o alla direzione sanitaria dell’azienda ospedaliera di riferimento, che deve attivare le verifiche necessarie a garantire che il decesso avvenga, nel rispetto delle modalità di cui al comma 1, presso il domicilio del paziente o, laddove ciò non sia possibile, presso una struttura ospedaliera e che esso sia consentito alle persone prive di autonomia fisica mediante l’adozione, nell’ambito delle risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente, di strumenti, anche tecnologici, che consentano il compimento dell’atto autonomo secondo le disposizioni della presente legge.   8. Nel caso in cui il medico non ritenga di trasmettere la richiesta al Comitato per la valutazione clinica o in caso di parere contrario dello stesso Comitato, resta ferma comunqueper la persona che abbia richiesto la morte volontaria medicalmente assistitala possibilità di ricorrere al giudice territorialmente competente, entro il termine di sessanta giorni dalla data di ricezionedella decisione motivata del medico di cui al comma 4 o del parerecontrario del Comitato.  9. La richiesta, la documentazione e il parere di cui ai precedenti commi fanno parte integrante della cartella clinica o del fascicolo sanitario elettronico ove già attivato.   10. Il medico presente all’atto del decesso è in ogni caso tenuto previamente ad accertare, eventualmente avvalendosi della collaborazione di uno psicologo, che persista la volontà di morte volontaria medicalmente assistita e che permangano tutte le condizioni di cui all’articolo 3.   11. Il decesso a seguito di morte volontaria medicalmente assistita è equiparato al decesso per cause naturali a tutti gli effetti di legge.
Art. 6. (Obiezione di coscienza) 1. Il personale sanitario ed esercente le attività sanitarie ausiliarie non è tenuto a prendere parte alle procedure per l’assistenza alla morte volontaria medicalmente assistita disciplinate dalla presente legge quando sollevi obiezione di coscienza con preventiva dichiarazione. La dichiarazione dell’obiettore deve essere comunicata entro tre mesi dalla data di adozione del regolamento di cui all’articolo 7 al direttore dell’azienda sanitaria locale o dell’azienda ospedaliera, nel caso di personale dipendente.   2. L’obiezione di coscienza può sempre essere revocata o essere proposta anche fuori del termine di cui al comma 1, ma in tale caso la dichiarazione produce effetto dopo un mese dalla sua presentazione ai soggetti di cui al comma 1.   3. L’obiezione di coscienza esonera il personale sanitario ed esercente le attività sanitarie ausiliarie dal compimento delle procedure e delle attività specificamente dirette al suicidio e non dall’assistenza antecedente l’intervento.   4. Gli enti ospedalieri pubblici autorizzati sono tenuti in ogni caso ad assicurare l’espletamento delle procedure previste dalla presente legge. La regione ne controlla e garantisce l’attuazione. Art. 6. (Obiezione di coscienza)  1. L’esercente la professione sanitaria non è tenuto a prendere parte alle procedure per l’assistenza alla morte volontaria medicalmente assistita disciplinate dalla presente legge quando sollevi obiezione di coscienza con preventiva dichiarazione. La dichiarazione dell’obiettore deve essere comunicata entro tre mesi dalla data di adozione del regolamento di cui all’articolo 7 al direttore dell’azienda sanitaria locale o dell’azienda ospedaliera, nel caso di personale dipendente.     2. L’obiezione di coscienza può sempre essere revocata o essere proposta anche fuori del termine di cui al comma 1, ma in tale caso la dichiarazione produce effetto dopo un mese dalla sua presentazione ai soggetti di cui al comma 1.   3. L’obiezione di coscienza esonera l’esercente la professione sanitaria dal compimento delle procedure e delle attività specificamente dirette al suicidio e non dall’assistenza antecedente l’intervento.       4. Gli enti ospedalieri pubblici autorizzati sono tenuti in ogni caso ad assicurare l’espletamento delle procedure previste dalla presente legge adottando tutte le misure, anche di natura organizzativa, che si rendano necessarie. La regione ne controlla e garantisce l’attuazione.
Art. 7. (Comitati per la valutazione clinica) 1. Al fine di garantire la dignità delle persone malate e di sostenere gli esercenti le professioni sanitarie nelle scelte etiche a cui sono chiamati, con regolamento del Ministro della salute, da adottare entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, sono istituiti e disciplinati i Comitati per la valutazione clinica presso le aziende sanitarie locali.         2. Tali organismi devono essere multidisciplinari, autonomi e indipendenti, costituiti da medici specialisti, ivi compresi palliativisti, e da professionisti con competenze cliniche, psicologiche, giuridiche, sociali e bioetiche idonee a garantire il corretto ed efficace assolvimento dei compiti ad essi demandati. Art. 7. (Comitati per la valutazione clinica)  1. Al fine di garantire la dignità delle persone malate e di sostenere gli esercenti le professioni sanitarie nelle scelte etiche a cui sono chiamati, con regolamentoadottato con decreto del Ministro della salute, entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, previo parere della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, sono istituiti e disciplinati i Comitati per la valutazione clinica presso le aziende sanitarie locali.   2. I Comitati di cui al comma 1 devono essere multidisciplinari, autonomi e indipendenti, costituiti da medici specialisti, ivi compresi palliativisti, e da professionisti con competenze cliniche, psicologiche, giuridiche, sociali e bioetiche idonee a garantire il corretto ed efficace assolvimento dei compiti ad essi demandati.   3. Ai componenti dei Comitati di cui al comma 1 non spettano compensi, gettoni di presenza, rimborsi di spese o altri emolumenti comunque denominati.
Art. 8. (Esclusione di punibilità) 1. Le disposizioni contenute negli articoli 580 e 593 del codice penale non si applicano al medico e al personale sanitario e amministrativo che abbiano dato corso alla procedura di morte volontaria medicalmente assistita nonché a tutti coloro che abbiano agevolato in qualsiasi modo la persona malata ad attivare, istruire e portare a termine la predetta procedura, qualora essa sia eseguita nel rispetto delle disposizioni della presente legge.   2. Non è punibile chiunque sia stato condannato, anche con sentenza passata in giudicato, per aver agevolato in qualsiasi modo la morte volontaria medicalmente assistita di una persona prima della data di entrata in vigore della presente legge, qualora al momento del fatto ricorressero i presupposti e le condizioni di cui all’articolo 3 della medesima legge e la volontà libera, informata e consapevole della persona richiedente fosse stata inequivocabilmente accertata. Art. 8. (Esclusione della punibilità)  1. Le disposizioni contenute negli articoli 580 e 593 del codice penale non si applicano al medico e al personale sanitario e amministrativo che abbiano dato corso alla procedura di morte volontaria medicalmente assistita nonché a tutti coloro che abbiano agevolato in qualsiasi modo la persona malata ad attivare, istruire e portare a termine la predetta procedura, qualora essa sia eseguita nel rispetto delle disposizioni della presente legge.   2. Non è punibile chiunque sia stato condannato, anche con sentenza passata in giudicato, per aver agevolato in qualsiasi modo la morte volontaria medicalmente assistita di una persona prima della data di entrata in vigore della presente legge, qualora al momento del fatto ricorressero i presupposti e le condizioni di cui all’articolo 3 della medesima legge e la volontà attuale, libera, informata e consapevole della persona richiedente fosse stata inequivocabilmente accertata.
Art. 9. (Clausola di invarianza finanziaria) 1. Dall’attuazione della presente legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica. Le amministrazioni competenti provvedono agli adempimenti ivi previsti con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente.
Art. 9. (Disposizioni finali) 1. Entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, il Ministro della salute, previa intesa in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, con proprio decreto:   a) individua i requisiti delle strutture del Servizio sanitario nazionale idonee ad accogliere le persone che fanno richiesta di morte volontaria medicalmente assistita;   b) definisce i protocolli e le modalità per la prescrizione, la preparazione, il coordinamento e la sorveglianza della procedura di morte volontaria medicalmente assistita;   c) definisce le procedure necessarie ad assicurare il sostegno psicologico alla persona malata e ai suoi familiari;   d) determina le modalità di custodia e di archiviazione delle richieste di morte volontaria medicalmente assistita e di tutta la documentazione ad essa relativa in modo digitale;   e) definisce le modalità di una informazione capillare sulle possibilità offerte dalla legge 22 dicembre 2017, n. 219;   f) definisce le modalità di monitoraggio e di implementazione della rete di cure palliative che garantisca la copertura efficace e omogenea di tutto il territorio nazionale.   2. Il Ministro della salute presenta annualmente alle Camere una relazione sullo stato di attuazione delle disposizioni della presente legge. Art. 10. (Disposizioni finali)  1. Entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, il Ministro della salute, previa intesa in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, con proprio decreto:  a) individua i requisiti delle strutture del Servizio sanitario nazionale idonee ad accogliere le persone che fanno richiesta di morte volontaria medicalmente assistita;  b) definisce i protocolli e le modalità per la prescrizione, la preparazione, il coordinamento e la sorveglianza della procedura di morte volontaria medicalmente assistita;  c) definisce le procedure necessarie ad assicurare il sostegno psicologico alla persona malata e ai suoi familiari; d) determina le modalità di custodia e di archiviazione delle richieste di morte volontaria medicalmente assistita e di tutta la documentazione ad essa relativa in forma digitale;  e) definisce le modalità di un’informazione capillare sulle possibilità offerte dalla legge 22 dicembre 2017, n.219;  f) definisce le modalità di monitoraggio e di potenziamento della rete di cure palliative che garantisca la copertura efficace e omogenea di tutto il territorio nazionale.   2. Il Ministro della salute presenta annualmente alle Camere una relazione sullo stato di attuazione delle disposizioni della presente legge.
Art. 11. (Entrata in vigore)  1. Salvo quanto previsto dal comma 3, la presente legge entra in vigore il novantesimo giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale.  2. Nelle more dell’entrata in vigore della presente legge, si provvede all’aggiornamento delle prestazioni a carico del Servizio sanitario nazionale, ai sensi dell’articolo 1, commi 554 e 559, della legge 28 dicembre 2015, n. 208, conformemente alle prestazioni previste dalle disposizioni della presente legge e nei limiti delle risorse finanziarie destinate al medesimo Servizio sanitario nazionale dalla legislazione vigente.  3. Il comma 2 entra in vigore il giorno successivo alla data di pubblicazione della presente legge nella Gazzetta Ufficiale.

 

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Fonte: https://centrostudilivatino.us18.list-manage.com/track/click?u=36e8ea8c047712ff9e9784adb&id=82f289da37&e=d50c1e7a20

Le contraddizioni della Corte costituzionale in materia di eutanasia

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Segnalazione Corrispondenza Romana

di Tommaso Scandroglio

Come molti ben sapranno, la Corte costituzionale di recente ha bocciato il quesito referendario dei Radicali sull’abrogazione quasi totale dell’art. 579 cp che sanziona l’omicidio del consenziente. L’avvocato Filomena Gallo, storica leader dell’associazione radicale Luca Coscioni, subito dopo la sentenza ha messo in luce una contraddizione evidente che potremmo così esprimere: se noi abbiamo una Corte costituzionale che nel 2019 ha chiesto al Parlamento di legittimare il suicidio assistito, non si vede perché quella stessa Corte oggi ha buttato nel cestino le legittimazione dell’omicidio del consenziente. È su questa contraddizione che i Radicali puntano per far passare in futuro una norma che consenta l’eutanasia anche attraverso la modalità dell’omicidio del consenziente. E, purtroppo, hanno ragione a credere che una simile legge prima o poi passerà.

Infatti già oggi esistono le premesse per varare in futuro una normativa di tal specie. Da anni la giurisprudenza, tramite un’errata interpretazione di una parte dell’art. 32 della Costituzione (“Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”), ha già sdoganato il suicidio tramite il rifiuto di trattamenti salvavita. Questo orientamento prevalente è stato fatto proprio dalla legge 219/17 che permette non solo il rifiuto di trattamenti salvavita da iniziare, ma anche di quelli già in essere tra cui quelli che, per essere interrotti, necessitano dell’intervento del medico (si configura quindi un primo caso legittimato di omicidio del consenziente). Inoltre la legge 219 permette di abusare delle terapie antalgiche per fini eutanasici. Terza premessa che ci porterà all’abrogazione parziale del reato di omicidio del consenziente: come accennato la Consulta a più riprese chiese al Parlamento di varare una norma che legittimasse il suicidio assistito, cosa che sta avvenendo con il disegno di legge Bazoli-Provenza.

Dunque se già abbiamo e stiamo già avendo normative eutanasiche non si vede il motivo per cui dovremmo scampare alla legittimazione dell’omicidio del consenziente. Accettato il principio dell’assassinio o del suicidio per motivi pietistici (non per motivi pietosi, perché la pietà è altra cosa dal pietismo), si devono accettare tutte le modalità di attuazione di questo stesso principio. Permettere solo alcune modalità – suicidio solo tramite il rifiuto di trattamenti salvavita o tramite preparato letale, assassinio solo per mezzo dell’interruzione di presidi vitali o per mezzo di oppiacei – apparirebbe irragionevole, contraddittorio.

È ciò che è accaduto puntualmente ad esempio con la legge sull’aborto, sulla fecondazione artificiale e sul divorzio. Accettare il principio che si può uccidere il bambino nel ventre della madre ha portato non solo all’accettazione dell’aborto chirurgico, ma anche a quello chimico, semplicemente perché l’aborto in pillole configura una diversa applicazione dello stesso principio. Accettare il principio che si può produrre un bambino in provetta ha portato all’accettazione non solo delle tecniche di fecondazione extracorporea omologa, ma anche a quelle eterologhe, all’abbattimento del limite di tre embrioni per ogni ciclo, all’accesso a queste tecniche anche di coppie fertili (e in futuro alla legittimazione dell’utero in affitto), perché tutte modalità di applicazione del medesimo principio. Accettare il principio che si può sciogliere il vincolo matrimoniale (questo l’intento, perché poi nella realtà i matrimoni validi rimangono indissolubili) ha portato a restringere il tempo per chiedere separazione e divorzio perché mera e differente declinazione di quello stesso principio. Dunque l’accettazione di un certo principio porta all’espansione di quello stesso principio tramite modalità sempre più numerose e differenti.

Proviamo a tradurre queste riflessioni in termini propri della filosofia del diritto ed in altri attinenti alla storia del diritto. La ratio di una legge chiede di perfezionarsi, perché la natura di qualsiasi ens, legge compresa, tende al suo perfezionamento. Se infatti la natura è fine, la natura di una legge tenderà ad essere sempre più se stessa, ad attualizzarsi sempre più conformemente alla propria forma giuridica. Questo comporterà che la sua ratio esigerà di trovare sempre nuovi modi per incarnarsi, esigerà una sua progressiva espansione. Ecco perché – e così transitiamo alla seconda riflessione ora di carattere storico-giuridico – i paletti che molti parlamentari hanno tentato di inserire nell’articolato di una legge ingiusta al fine di limitarne l’iniquità sono saltati tutti, proprio perché erano in contraddizione con la ratio medesima della legge la quale nel suo intrinseco dinamismo ha portato all’eliminazione di qualsiasi barriera contenitiva. È come mettere in una gabbia fatta di balsa un feroce leone: la natura del leone porterà a distruggere queste fragili sbarre (ci eravamo occupati di questo argomento su queste stesse colonne circa un anno e mezzo fa).

E dunque la ratio eutanasica presente in alcune decisioni giurisprudenziali, nella legge 219 e nel ddl Bazoli-Provenza chiede di attuarsi, di concretarsi anche tramite l’omicidio del consenziente. Poiché, date le premesse non si possono che accettare le conseguenze, è necessario capovolgere i presupposti etici e giuridici che ispirano la Corte Costituzionale per avviare una reale difesa dell’ordine naturale violato o debolmente e incoerentemente difeso.

Referendum su cannabis ed eutanasia bocciati dalla Consulta: ecco i quesiti approvati

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Le motivazioni del presidente Amato: “Si faceva riferimento alle droghe pesanti”. Via libera a 5 consultazioni sulla giustizia. Eutanasia, perché il no della Corte 

Roma, 16 febbraio 2022 – La Corte Costituzionale ha bocciato oggi il referendum sulla cannabis, dichiarando inammissibile il quesito che aveva come obiettivo cancellare il reato di coltivazione di questa sostanza, sopprimendo le pene detentive, da due a sei anni. Lo ha comunicato oggi il presidente Giuliano Amato. Respinto anche il quesito sulla responsabilità diretta dei magistrati. Due bocciature che si uniscono a quella di ieri sul tema dell’eutanasia.

PER APPROFONDIRE:

Referendum giustizia, le toghe si sentono assediate. “A rischio la nostra indipendenza”

La Consulta ha promosso invece gli altri 5 quesiti in esame, tutti relativi alla giustizia. Quesiti che gli italiani saranno chiamati a votare tra aprile e giugno, forse con le amministrative: riguardano l’abrogazione delle disposizioni in materia di incandidabilità, la limitazione delle misure cautelari, la separazione delle funzioni dei magistrati, l’eliminazione delle liste di presentatori per l’elezione dei togati del Csm, il voto degli avvocati nei Consigli giudiziari in caso di deliberazioni sulla valutazione professionale dei magistrati.

Cannabis, dove e come è legale in Italia, Europa e nel mondo

Sommario:

No al quesito sulla cannabis

Giuliano Amato in conferenza stampa ha spiegato così la bocciatura del referendum sulla coltivazione domestica della canapa. “Il referendum non era sulla cannabis, ma sulle sostanze stupefacenti. Si faceva riferimento a sostanze che includono papaverococa, le cosiddette droghe pesanti. E questo era sufficiente a farci violare obblighi internazionali”. Giustizia, cosa ha approvato la Corte

In merito ai referendum sulla giustizia, promossi da Lega, radicali e nove consigli regionali, la Corte costituzionale ha ritenuto ammissibili i quesiti referendari sull’abrogazione delle disposizioni in materia di valutazione dei magistratiincandidabilità, limitazione delle misure cautelari, sulla separazione delle funzioni dei magistrati, sull’eliminazione delle liste di presentatori per l’elezione dei togati del Csm e sulla valutazione dei magistrati. I suddetti quesiti sono stati ritenuti ammissibili perché le rispettive richieste non rientrano in alcuna delle ipotesi per le quali l’ordinamento costituzionale esclude il ricorso all’istituto referendario.

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Gravi errori della Civiltà cattolica sulla proposta di legge in tema di “suicidio assistito”

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PREMESSA: l’articolo è interessante e le critiche sono condivisibili. Il problema di fondo è che la rivista La Civiltà Cattolica e i gesuiti sono conciliari, quindi appartengono alla religione nata col Conciliabolo Vaticano II, che non fu un Concilio della Chiesa ma, appunto, un conciliabolo della Contro-Chiesa, che occupa i Sacri Palazzi. (n.d.r.)

Segnalazione Corrispondenza Romana

di Tommaso Scandroglio

Ha fatto molto parlare di sé l’articolo dal titolo La discussione parlamentare sul ‘suicidio assistito’ a firma di padre Carlo Casalone apparso sull’ultimo numero della rivista dei Gesuiti La Civiltà Cattolica (Quaderno 4114, a. 2022, vol. I, pp. 143-156). L’articolo è problematico per più motivi, che in questa sede non possiamo analizzare in modo esaustivo, ma in primis perché appoggia il varo della proposta di legge dal titolo Disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita. Ma procediamo con ordine esaminando gli aspetti più critici di questo articolo.

Casalone innanzitutto giudica positivamente la legge 219/2017: «Pur non mancando elementi problematici e ambigui, essa è frutto di un laborioso percorso, che ha consentito di raccordare una pluralità di posizioni divergenti». Dopo aver elencato le condotte legittimate dalla legge, Casalone conclude: «Il combinato disposto di questi elementi convalida la differenza, etica e giuridica, tra “lasciar morire” e “far morire”: il quadro delineato permette di operare rimanendo al di qua della soglia che distingue il primo dal secondo». Dunque secondo il gesuita la legge 219 non permetterebbe l’eutanasia. Ma le cose non stanno così. La legge permette la pratica dell’eutanasia omissiva e commissiva. In merito a quest’ultima tipologia la legge consente l’interruzione di terapie salvavita e di mezzi di sostentamento vitale quali l’idratazione e l’alimentazione assistite (tralasciamo qui per motivi di spazio la quaestio se tali mezzi possano configurare terapie, perché nulla muterebbe sul piano morale). Dunque consente l’uccisione di una persona innocente.

Passiamo ad un altro passo problematico dell’articolo: «Come la sentenza n. 242/2019, il testo riconosce non un diritto al suicidio, ma la facoltà di chiedere aiuto per compierlo, a certe condizioni». La sentenza a cui fa cenno Casalone è quella pronunciata dalla Corte costituzionale che ha legittimato l’aiuto al suicidio in presenza di alcune condizioni. L’attuale progetto di legge (Pdl) ricalca da vicino la struttura di questa sentenza. Ora c’è da dire che sia la sentenza che il Pdl attribuiscono un diritto all’aiuto al suicidio, non una mera facoltà. Sia la sentenza che la legge prevedono la necessaria e quindi doverosa realizzazione di alcune condotte in capo ai medici al verificarsi di alcune condizioni. Però nella sentenza, a differenza del Pdl, i medici possono astenersi dall’assumere queste condotte eccependo l’obiezione di coscienza: «Quanto, infine – si legge nella sentenza – al tema dell’obiezione di coscienza del personale sanitario, vale osservare che la presente declaratoria di illegittimità costituzionale si limita a escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici. Resta affidato, pertanto, alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato» (un altro errore dell’articolo è ritenere che nella sentenza non vi fosse presente l’obiezione di coscienza). Dunque se è presente l’obiezione di coscienza vuol dire che esiste, parallelamente, un obbligo verso cui eccepire questo istituto, altrimenti non avrebbe senso obiettare se, a monte, non ci fosse un dovere. E se c’è un dovere di eseguire X, vuol dire che in capo al paziente esiste un corrispettivo diritto di esigere X, diritto che se non verrà soddisfatto dal medico obiettore dovrà comunque essere soddisfatto da qualche altro medico. Dunque, come già accennato, sia nella sentenza che nel Pdl esiste il dovere di attuare la richiesta di assistenza al suicidio da parte del paziente, ma nella sentenza il medico può ricorrere all’obiezione di coscienza, nella legge non è presente questa possibilità. Ma anche laddove verrà inserita, l’aiuto al suicidio rimarrà comunque un diritto da riconoscersi in capo al paziente e la struttura ospedaliera dovrà trovare un medico non obiettore per soddisfare l’esercizio di questo diritto.

Veniamo ora ad un altro passo, forse il più significativo, che merita di essere censurato (tralasciandone altri, tra cui una sezione in cui pare fondarsi l’illeceità morale del suicidio in primis sul concetto di relazione, come se la persona originasse la sua dignità dalla relazione con gli altri). L’articolo così continua: «Non c’è dubbio che la legge in discussione, pur non trattando di eutanasia, diverga dalle posizioni sulla illiceità dell’assistenza al suicidio che il Magistero della Chiesa ha ribadito anche in recenti documenti. La valutazione di una legge dello Stato esige di considerare un insieme complesso di elementi in ordine al bene comune, come ricorda papa Francesco: “In seno alle società democratiche, argomenti delicati come questi vanno affrontati con pacatezza: in modo serio e riflessivo, e ben disposti a trovare soluzioni – anche normative – il più possibile condivise. Da una parte, infatti, occorre tenere conto della diversità delle visioni del mondo, delle convinzioni etiche e delle appartenenze religiose, in un clima di reciproco ascolto e accoglienza. D’altra parte, lo Stato non può rinunciare a tutelare tutti i soggetti coinvolti, difendendo la fondamentale uguaglianza per cui ciascuno è riconosciuto dal diritto come essere umano che vive insieme agli altri in società”». Dunque da una parte Casalone precisa che la ratio della legge è incompatibile con la dottrina cattolica, ma su altro fronte pare qualificarla come male minore frutto di un compromesso tra visioni differenti in senso alla società: un doveroso punto di equilibrio dato che viviamo in una società pluralista.

Perché male minore? Quali mali maggiori eviteremmo votando questa legge? Casalone ne indica più di uno. Il primo riguarderebbe un appoggio al referendum radicale sull’omicidio del consenziente: «La domanda che si pone è, in estrema sintesi, se di questo PdL occorra dare una valutazione complessivamente negativa, con il rischio di favorire la liberalizzazione referendaria dell’omicidio del consenziente, oppure si possa cercare di renderla meno problematica modificandone i termini più dannosi. […] L’omissione di un intervento rischia fortemente di facilitare un esito più negativo». Il ragionamento (erroneo) è il seguente: affossiamo questa legge e verrà approvato il referendum radicale sull’omicidio del consenziente. Se invece l’appoggiamo, nel nostro ordinamento chi vorrà morire userà del suicidio assistito e non sentirà il bisogno di avere anche una legge sull’omicidio del consenziente. Le cose non stanno così. Innanzitutto si danno casi in cui la persona non può fisicamente darsi la morte (v. i tetraplegici) e quindi, per morire, chiederebbe che qualcuno la uccida (omicidio del consenziente). In secondo luogo e in modo più pregnante, appoggiare una legge sul suicidio assistito significa appoggiare anche una futura legge di matrice referendaria sull’omicidio del consenziente, perché la ratio è la medesima. Dire sì all’aiuto al suicidio significa dire sì alla possibilità di uccidere l’innocente, così come avviene nell’omicidio del consenziente. In altri termini, varare una legge sul suicidio assistito significa accettare il principio di disponibilità della vita. Accettato questo principio non si vede il motivo di rifiutare una legge sull’omicidio del consenziente che configurerebbe solo una diversa modalità di applicazione di questo stesso principio. In estrema sintesi: se sei a favore dell’aiuto al suicidio favorisci l’omicidio del consenziente.

Una breve riflessione su questa frase appena citata: “si possa cercare di renderla [la legge] meno problematica modificandone i termini più dannosi”. Una norma che legittima l’aiuto al suicidio sarebbe una norma intrinsecamente malvagia e mai potrebbe essere votata, perché legge ingiusta. Non è lecito votare una legge ingiusta – anche nel caso fosse “meno problematica [rispetto ad una versione precedente] modificandone i termini più dannosi” – perché votare a favore significa approvare e mai si può approvare l’ingiustizia, mai si può approvare il male, seppur minore, perché è comunque un male (sul punto mi permetto di rimandare a T. ScandroglioLegge ingiusta e male minore. Il voto ad una legge ingiusta al fine di limitare i danni, Phronesis, Palermo, 2020, testo in cui si analizza anche il n. 73 dell’Evangelium vitae, numero che erroneamente si chiama in causa in casi come questi per legittimare il voto ad una legge ingiusta).

Casalone poi così prosegue: “Tale tolleranza sarebbe motivata dalla funzione di argine di fronte a un eventuale danno più grave”. Tradotto: votare una legge meno ingiusta di un’altra, ossia votare una legge sul suicidio assistito meno iniqua rispetto a quella attualmente in esame in Parlamento, è atto di tolleranza. Errato: la tolleranza significa non volere direttamente un certo effetto – anche provocato da terzi – quindi sopportarlo, subirlo. Votare a favore di una legge ingiusta all’opposto significa volere direttamente questa legge ingiusta. Io posso lecitamente tollerare il male compiuto da un altro per un bene maggiore – ad esempio per evitare danni più gravi – ma quando sono io a compiere il male, seppur minore, è errato usare il verbo tollerare. Se uccido un innocente per salvarne 100, io non tollero l’assassinio di quella persona, io voglio l’assassinio di quella persona.

L’articolo di La Civiltà cattolica poi aggiunge: “Il principio tradizionale cui si potrebbe ricorrere è quello delle «leggi imperfette», impiegato dal Magistero anche a proposito dell’aborto procurato”. Non comprendiamo esattamente a cosa l’autore dell’articolo si riferisca quando collega l’espressione “leggi imperfette” all’aborto procurato, ma, nonostante ciò, possiamo dire che la locuzione “leggi imperfette” è spendibile solo per le leggi giuste che possono essere più giuste, ossia per le leggi perfettibili. La gradualità della perfezione è predicabile solo nell’ambito del bene, non del male. Una legge meno ingiusta di un’altra non è una legge migliore di un’altra, ma meno peggiore, non è una legge con un maggior grado di perfezione, non è una legge imperfetta.

Casalone così prosegue: «Per chi si trova in Parlamento, poi, occorre tener conto che, per un verso, sostenere questa legge corrisponde non a operare il male regolamentato dalla norma giuridica, ma purtroppo a lasciare ai cittadini la possibilità di compierlo». L’illeceità del votare a favore questa legge prima di risiedere nella collaborazione formale all’aiuto al suicidio – la legge diviene strumento per compiere questa azione intrinsecamente malvagia – risiede nel voto stesso: votare a favore significa approvare e mai è lecito approvare l’ingiustizia.

L’articolo così continua: «Per altro verso, le condizioni culturali a livello internazionale spingono con forza nella direzione di scenari eticamente più problematici da presidiare con sapiente tenacia». Quindi un altro motivo per approvare questa legge sarebbe quello di giocare d’anticipo: in giro per il mondo alcuni Paesi hanno approvato o stanno approvando leggi sul suicidio gravemente ingiuste, noi facciamoci furbi e, votando una legge meno ingiusta, anticipiamo chi, qui in Italia, vorrebbe imitarli. In parole povere, compiamo noi oggi il male minore per evitare che altri compiano domani un male maggiore. Ma anche in questo caso vale un principio di base della morale naturale già ricordato: non si può compiere il male minore per evitare un male maggiore, perché pur sempre di male si tratta. Non si può compiere il male a fin di bene. Paolo VI nell’Humanae vitae scriveva: «non è lecito, neppure per ragioni gravissime, fare il male, affinché ne venga il bene, cioè fare oggetto di un atto positivo di volontà ciò che è intrinsecamente disordine e quindi indegno della persona umana, anche se nell’intento di salvaguardare o promuovere beni individuali, familiari o sociali» (14). Agire diversamente significherebbe scadere nell’utilitarismo, nel proporzionalismo.

Infine così il padre gesuita chiude l’articolo: «La latitanza del legislatore o il naufragio della PdL assesterebbero un ulteriore colpo alla credibilità delle istituzioni, in un momento già critico. Pur nella concomitanza di valori difficili da conciliare, ci pare che non sia auspicabile sfuggire al peso della decisione affossando la legge». Un ulteriore danno che l’approvazione della legge permetterebbe di schivare sarebbe quello del vulnus alla credibilità delle istituzioni. In questo caso, addirittura il principio di proporzione proprio dell’utilitarismo non sarebbe rispettato: metteremmo sul piatto della bilancia le vite delle persone uccise con l’aiuto al suicidio e sull’altro piatto della bilancia la credibilità delle istituzioni. Persino il vero utilitarista non potrebbe che riconoscere che le vite umane valgono più della credibilità delle istituzioni.

In conclusione, l’articolo de La Civiltà Cattolica risulta gravemente erroneo sul piano dei principi della morale naturale e cattolica apparendo antitetico all’insegnamento del Magistero in tema di eutanasia e manifesta una ignoranza o perlomeno una pessima interpretazione delle sentenze e delle leggi richiamate nel medesimo articolo.

Gravi errori della Civiltà cattolica sulla proposta di legge in tema
di “suicidio assistito”

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