Putin vince con lentezza, la Nato ignorante perde

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del Prof. Alessandro Orsini

Dopo avere dissanguato l’esercito per conquistare quasi niente, Zelensky sta perdendo pure quello.
Ad agosto l’Ucraina aveva ripreso il villaggio di Robotine al prezzo di migliaia di morti nell’Oblast di Zaporizhzhia. Muovendo da Robotine, Zelensky giurava di marciare su Tokmak e Melitopol per riconquistare il Mar d’Azov. Gli ucraini avrebbero spaccato l’esercito russo in due impedendo alla Crimea di ricevere rifornimenti dalla madrepatria. Caduta la Crimea, Putin avrebbe supplicato Zelensky di non imporgli una pace troppo umiliante. E, invece, gli ucraini non si sono mai mossi da Robotine. Questo fatto, di per sé iper-tragico, basterebbe a chiudere ogni discorso sulla sconfitta della Nato, ma le cose sono andate addirittura peggio.
Mentre scrivo, i russi hanno deciso di riprendersi pure Robotine, il quasi-niente costato quasi-tutto agli ucraini. Dissi che la controffensiva sarebbe stato un fallimento colossale che avrebbe dissanguato l’esercito ucraino esponendolo alla “contro-controffensiva” russa. È quel che sta accadendo. Quando politici e media ritraevano la Russia come un esercito di cartone “perché non ha conquistato l’Ucraina in tre giorni”, spiegavo che quella lentezza era intenzionale poiché perseguiva sei obiettivi.
Il primo obiettivo della lentezza era di concedere all’esercito ucraino il tempo di crollare. I generali russi procedono lentamente perché preferiscono conquistare il maggior numero possibile di territori contro un esercito esangue e demotivato. La Russia si è data il tempo di dare il tempo all’Ucraina di crollare. La presunzione dell’Occidente non ha consentito alle lobby della Nato – che controllano radio, televisioni e dipartimenti di scienza politica – di comprendere il significato tragico della lentezza russa.
Il secondo obiettivo della lentezza era di non infastidire la società civile. Procedendo un po’ alla volta, Putin non ha dovuto avviare una mobilitazione totale che gli avrebbe sottratto consensi. La vita quotidiana in Russia scorre come sempre e Putin viaggia verso la riconferma alle prossime presidenziali.
Il terzo obiettivo della lentezza era di attendere che l’Unione europea andasse in recessione, com’è accaduto.
Il quarto obiettivo era di attendere la crisi dell’industria militare dell’Unione europea che si è verificata. L’Unione europea non riesce a dare a Zelensky la protezione aerea di cui ha bisogno, come dimostra l’ultima pioggia di missili caduta sugli ucraini. Dai carri armati agli F-16, dalle batterie anti-aeree alle munizioni per l’artiglieria, l’industria militare europea non regge il passo di quella russa.
Il quinto obiettivo della lentezza russa era di non precipitare l’Occidente nel panico lanciando un assalto fulmineo con un milione e mezzo di soldati. Una mossa così rapida avrebbe diffuso il panico in Europa aumentando il rischio della sua partecipazione diretta al conflitto con l’invio di truppe.
Il sesto obiettivo della lentezza di Putin è di dare il tempo alla Russia di attrezzarsi per la Terza guerra mondiale, come sta facendo. La lentezza della guerra in Ucraina favorisce la velocità del riarmo in Russia.
Un giorno i Draghi, i Calenda & C. capiranno la ragione della lentezza russa. Tuttavia la comprensione richiede che l’Occidente si liberi dei propri complessi di superiorità, in stile Corriere della Sera, che lo inducono a vedere gli altri popoli come inferiori, ignoranti, arretrati e dipendenti dall’economia europea. Salvo scoprire che l’Europa dipende dalla Russia più di quanto la Russia dipenda dall’Europa.

La Guerra Nato-Russia, la UE “strozzinata” dal Gas USA

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Marco Tosatti

Cari amici e nemici di Stilum Curiae, Matteo Castagna offre alla vostra attenzione queste considerazioni di geopolitica. Buona lettura e condivisione.

La Guerra Nato-Russia, la UE “Strozzinata” dal Gas USA. Matteo Castagna

§§§

di Matteo Castagna

Il vice ministro degli Esteri russo Mikhail Galuzin ha detto che gli Stati Uniti considerano, da tempo, il Caucaso meridionale come un possibile trampolino di lancio contro la Federazione Russa.

In quella zona, infatti, ci sono molti russofobi. Basti pensare alla Georgia, ma anche all’Armenia, che ha, recentemente, puntato la sua politica verso un riavvicinamento con l’Occidente. Inoltre, entrambi i Paesi sono desiderosi di entrare nella NATO. Cosa porterà questa posizione, in termini di sicurezza dell’Armenia e degli interessi del popolo armeno è, ovviamente, un punto interrogativo.

Quanto alla Russia, osserviamo un atteggiamento ammorbidito da parte della UE. Non figurano, infatti, nel 12° pacchetto di sanzioni ben 3 proposte, che sono state respinte: 1) il divieto di trasferimento fondi in Russia. 2) il divieto di vendita navi cisterna alla Russia. 3) l’ inserimento obbligatorio di clausole che vietino di ri-esportare, nelle vendite a paesi terzi.

Una recente analisi di “Sputnik” sui dati Eurostat ha scoperto che i Paesi dell’Unione Europea hanno dovuto pagare circa 185 miliardi euro in più per il gas naturale negli ultimi 20 mesi, dopo aver smesso di utilizzare i gasdotti russi, affidabili e a basso costo.

In compenso, la prestigiosa agenzia Reuters riporta che le esportazioni statunitensi di gas naturale liquefatto (GNL) hanno raggiunto livelli record mensili e annuali a dicembre, secondo i dati di monitoraggio delle navi cisterna, con gli analisti che affermano che ciò consentirà agli Stati Uniti di scavalcare Qatar e Australia, divenendo il più grande esportatore di GNL del 2023.

L’Europa è rimasta la principale destinazione delle esportazioni di GNL statunitense a dicembre, con 5,43 tonnellate, ovvero poco più del 61%. L’Asia è stato il secondo mercato di esportazione per il GNL statunitense a dicembre, assorbendo 2,29 milioni di tonnellate, ovvero il 26,6%, delle esportazioni. Sempre Reuters riporta che Il gigante energetico russo Gazprom ha annunciato di aver stabilito un nuovo record giornaliero per le forniture di gas alla Cina, attraverso il gasdotto Power of Siberia.

Gazprom ha detto che la cifra di esportazione del 2023 era di 700 milioni di metri cubi in più di quanto non fosse contrattualmente obbligata a spedire in Cina, attraverso il Potere della Siberia. Ha ribadito che il gasdotto raggiungerà la piena capacità di esportazione di 38 miliardi di metri cubi nel 2025. La Russia sta aumentando le forniture alla Cina per compensare la perdita della maggior parte delle sue vendite di gas in Europa, dall’inizio della guerra in Ucraina, aggirando, così, le sanzioni.

Il quotidiano britannico The Times riporta che i ministri britannici e della UE stanno “cercando disperatamente di aumentare la capacità produttiva in tutto il continente, per essere in grado di inviare armi e munizioni al fronte e contenere Vladimir Putin per almeno un altro anno, indipendentemente dal sostegno degli Stati Uniti”. Va notato che alcuni esperti americani che commentano l’articolo del Times osservano che, in assenza del sostegno degli Stati Uniti, una corsa agli armamenti con la Russia potrebbe essere fatale per l’UE, quanto una corsa simile lo fu con gli Stati Uniti, per l’economia dell’URSS. In effetti, la situazione generale degli USA di Joe Biden potrebbe destare qualche preoccupazione all’alleanza occidentale.

The Washington Post riferisce che il debito nazionale ha superato la soglia dei 34 mila miliardi di dollari. I principali acquirenti del debito pubblico americano sono i Paesi asiatici (Corea del Sud, Giappone e Cina) e se le loro quote venissero ridotte, in futuro, potrebbero avere ripercussioni sulla sicurezza nazionale e su molte sfere sociali degli Stati Uniti. “Washington ha speso soldi come se avesse risorse infinite, ma non ci saranno più pasti gratuiti, e le prospettive sono piuttosto cupe”, ha commentato l’economista Son Won-sung.

Per intenderci, in generale l’Occidente utilizza il denaro (o meglio il suo ritiro dalle economie di altri paesi) come leva nel quadro di una guerra economica internazionale. Il principale avversario degli Stati Uniti è la Cina, da dove vengono sistematicamente ritirati i soldi. Svendendo il loro debito nazionale a destra e a manca (e aumentandolo) gli Stati rischiano di mettere tutte le loro sfere sociali sull’orlo del collasso, se i “grandi attori” vogliono fare pressione su Washington, senza tener conto dell’aspetto materiale della questione (o, ad esempio, in caso di conflitto a Taiwan).

Quanto all’Ucraina, la situazione si fa sempre più difficile. Il giornale tedesco Der Spiegel riporta le parole del deputato ed economista dei Verdi Sebastian Schaefer, il quale ha affermato che a Kiev non è rimasto praticamente in servizio alcun moderno carro armato tedesco Leopard 2A6. Secondo Schaefer, al momento, dei 18 carri armati consegnati, quasi tutti sono gravemente danneggiati e tecnicamente usurati. Secondo Schaefer esiste “un’ urgente necessità” che la situazione delle riparazioni dei carri armati migliori il più rapidamente possibile. Altrimenti, Kiev rischia di rimanere senza carri armati, oltre che senza la possibilità di ripararli.

Il canale telegram ucraino Resident aggiunge: “La nostra fonte nell’ufficio del presidente ha affermato che il problema principale della mobilitazione è la scarsa motivazione degli ucraini, che sono pronti a rinunciare alla cittadinanza o a ricevere una vera pena detentiva, ma non ad andare al fronte. Il fallimento della controffensiva è diventato un catalizzatore di delusione nella società, e le grandi perdite hanno confermato l’incompetenza del comando.

Si è consolidata l’opinione che se vieni portato al fronte, nella migliore delle ipotesi tornerai invalido e nella peggiore delle ipotesi morirai”. Il Corriere della Sera sembra allinearsi a questa posizione, scrivendo di diminuzione del sostegno occidentale, popolarità in calo, crescita del pessimismo sulla situazione al fronte, crescita dell’opposizione interna. Il Corsera si riferisce a un sondaggio del KIIS, i cui risultati hanno mostrato un atteggiamento negativo nei confronti dell’attuale governo, dopo la sconfitta della controffensiva, che sta portando il Paese su una strada ostile alle decisioni della NATO.

Sulla stessa lunghezza d’onda, si colloca un pesante articolo del New York Times del 3 gennaio. Gli ucraini non si fidano più delle autorità e ritengono le trasmissioni televisive di Zelensky come propaganda. “Dopo quasi due anni di guerra”, scrive il NYT, “gli ucraini sono stanchi del Telethon. Quello che un tempo era considerato uno strumento fondamentale per unire il Paese, oggi è sempre più ridicolizzato…Gli spettatori lamentano che il programma dipinge un quadro troppo roseo, nascondendo eventi preoccupanti al fronte e il calo del sostegno occidentale all’Ucraina… e, infine, non riesce a preparare i cittadini per una lunga guerra”.

The Telegraph scrive che la difesa aerea ucraina non sarà in grado di respingere tutti gli attacchi russi, quest’inverno. E prosegue: “le forze armate ucraine sono costrette a conservare le munizioni per i sistemi di difesa aerea. Quest’inverno, secondo gli esperti, i sistemi missilistici di difesa aerea dovranno prendersi cura di loro ancora di più. Le forze di difesa aerea saranno costrette a non rispondere affatto ad alcuni obiettivi, poiché non avranno missili intercettori. Di particolare preoccupazione è la possibile carenza di missili intercettori per la difesa aerea Patriot”.

The Guardian scrive che il presidente Vladimir Putin ha detto che Mosca intensificherà gli attacchi contro obiettivi militari in Ucraina. Putin ha parlato dopo l’attacco ucraino di sabato scorso alla città russa di Belgorod, che secondo le autorità locali ha ucciso 25 persone, tra cui cinque bambini. Dal canto suo, Kuleba ha spiegato agli americani che devono pagare la guerra in Ucraina perché Kiev non ha un piano B.

John Kirby, coordinatore per le comunicazioni strategiche del Consiglio di Sicurezza Nazionale, ha specificato che il pacchetto di assistenza militare all’Ucraina, annunciato da Washington il 27 dicembre, è stato l’ultimo di quelli che gli Stati Uniti potranno fornire a Kiev, fino a quando il Congresso non avrà stanziato fondi aggiuntivi per questi scopi. Secondo lui, la Casa Bianca non sarà in grado di trovare fondi per l’Ucraina da fonti alternative, se il Congresso, con la maggioranza dei Repubblicani già scettica, non sarà d’accordo sulla richiesta di nuovi aiuti a Kiev.

L’escalation di violenza è proseguita dopo che il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha dichiarato all’Economist che l’idea che la Russia stesse vincendo la guerra, durata quasi due anni, era solo una “sensazione” e che Mosca stava ancora subendo pesanti perdite sul campo di battaglia. Zelensky non ha fornito alcuna prova delle sue affermazioni sulle perdite russe.

Putin ha indicato che l’”iniziativa strategica”, nel prolungato conflitto in Ucraina, è da parte russa, dopo il fallimento della controffensiva ucraina, in estate. Ha, anche, sottolineato che Mosca vuole porre fine al conflitto, che dura da quasi due anni, “il più rapidamente possibile”, ma “solo alle nostre condizioni”.

Secondo un sondaggio, prodotto da USA Today in collaborazione con l’Università di Suffolk, il sostegno al presidente degli Stati Uniti Joe Biden tra gli elettori neri e ispanici è diminuito in modo significativo, con le generazioni più giovani che preferiscono l’ex presidente Donald Trump. Nell’articolo si legge che “Biden ora rivendica il sostegno di appena il 63% degli elettori neri, in netto calo rispetto all’87% che aveva nel 2020”.

C’è già un retroscena, secondo il quotidiano statunitense “Politico”: il “Deep State” non può permettersi il ritorno di Trump, che scompaginerebbe molti piani dei globalisti liberal americani.  “Politico” ha scritto che tutto ruota attorno ai finanziamenti per l’Ucraina.

Vogliono usare Israele per giustificare il pacchetto di finanziamenti per l’Ucraina. Stanno promuovendo DeSantis e Haley, cercando disperatamente di convincere uno di questi due a battere Trump alle primarie, perché sostengono il finanziamento dell’Ucraina. Come previsto, il 2024 sarà un anno molto difficile, ma, forse, determinante, per gli equilibri globali.

Russia-Ucraina: è il momento di negoziare

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L’EDITORIALE 

di Matteo Castagna – ripreso dal sito www.marcotosatti.it Stilum Curiae del vaticanista Marco Tosatti, che ringraziamo per la stima: https://www.marcotosatti.com/2023/11/25/russia-ucraina-e-il-momento-di-negoziare-con-putin-matteo-castagna/

L’informazione mainstream ci ha abituato all’utilizzo di notizie ripetute fino alla nausea, per un certo lasso temporale, al fine di distrarre l’opinione pubblica da altre questioni importanti, che vuole far passare in sordina. E’ il caso drammatico dell’assassinio della povera Giulia? Forse. Molti vorrebbero che prevalesse il silenzio, almeno fino agli esiti del processo nei confronti di Turetta, momentaneamente in galera a Verona, in attesa di un carcere che abbia una “sezione protetti”…
Lasciando che le indagini e la giustizia facciano il loro corso, augurandoci il massimo dell’equità, osserviamo che gli equilibri mondiali, in progressivo mutamento, sono determinati da fatti che l’opinione pubblica dovrebbe ben conoscere, perché i cambiamenti epocali non cadano addosso alle persone come fossero macigni, provocando disagio e disorientamento, più di quanto vi sia già, a causa dell’imposizione da parte del Sistema globale di ideologie sovversive dell’ordine naturale.
Il Ministero degli Esteri cinese ha annunciato, nell’ultima puntata di Osservatorio sui Mondi, a Pechino, che i Paesi Arabi e musulmani chiedono la fine delle ostilità a Gaza Il capo della diplomazia cinese, Wang Yi, ha avuto un colloquio con la delegazione congiunta dei ministri degli Esteri dei paesi arabi e musulmani, che hanno scelto la Cina come prima prima tappa del loro tour di mediazione internazionale sulla questione palestinese. Durante l’incontro, hanno chiesto un immediato cessate il fuoco a Gaza, sottolineando l’importanza di consentire l’accesso degli aiuti umanitari nell’enclave palestinese devastata. Inoltre, il capo della diplomazia cinese Wang Li ha sottolineato che qualsiasi accordo sul futuro e il destino della Palestina deve derivare dal consenso del popolo palestinese. Nonostante qualche intoppo, la mediazione cinese sta funzionando, nel senso che è in corso un breve periodo di tregua, con rilascio degli ostaggi.

Sul fronte russo, il Presidente Vladimir Putin ha partecipato al vertice di Minsk, in Bielorussia, del CSTO, che è un’ alleanza militare difensiva, composta da Armenia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan, Russia e Tagikistan. Lo zar ha detto che la Russia rigetta ogni forma di terrorismo, che l’Organizzazione dei Paesi membri CSTO si sta ampliando e che ha stipulato importanti accordi  commerciali e sulle imprese militari. Infine, il dato maggiormente significativo è la costituzione, nell’ambito del CSTO, di un Consiglio di coordinamento per la Sicurezza biologica. Un atto preventivo, che, seppur in un’ottica difensiva, riesce a tenere col fiato sospeso tutto il mondo.

Il New York Times del 23 novembre ha titolato: “Al vertice BRICS, i paesi divergono leggermente su Israele e sulla guerra a Gaza”. Non si capisce dove si trovi questa piccola divergenza, dato che l’articolo stesso riporta la notizia di una dichiarazione congiunta firmata dai BRICS martedì 21 Novembre che include, tra le richieste: “il rilascio di tutti i civili tenuti prigionieri illegalmente, nonché una tregua umanitaria che porterebbe alla cessazione delle ostilità”. Sempre il NYT precisava che, nel testo condiviso dai Paesi membri BRICS c’è scritto: “abbiamo condannato qualsiasi tipo di trasferimento e deportazione individuale o di massa dei palestinesi dalla propria terra”. Poiché nella dichiarazione vi è anche scritto che i BRICS (alleanza politico-strategica e commerciale tra Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica e altri Paesi, cosiddetti in “via di sviluppo”) “condannano gli atti di brutalità contro i palestinesi e israeliani”, osserviamo come la diplomazia degli Stati non atlantisti stia lavorando separatamente, ma nella medesima direzione, rivolta a cercare percorsi adeguati per giungere alla pace, nei conflitti in corso, sia in Ucraina, che in Medio Oriente.
Ne consegue che l’Occidente, a trazione anglo-americana, rimane alquanto isolato nella volontà di proseguire con le guerre, per il mantenimento di un potere unipolare che non è più possibile conservare. Clamorosa, al riguardo, la dichiarazione all’agenzia Strana.ua del 24.11.23 di David Arakhamia, leader parlamentare ucraino del partito “Servitore del popolo” del Presidente Zelensky: “La guerra sarebbe potuta finire nella primavera del 2022, ma la Gran Bretagna ha imposto di proseguire a combattere”, perché l’accordo avrebbe previsto, per parte ucraina, l’accettazione della neutralità e la rinuncia all’ingresso della NATO.
La Russia avrebbe ritirato il proprio esercito ed il Donbass avrebbe dovuto ottenere ampie autonomie all’interno dell’Ucraina. Ciò era stato confermato anche dall’ex cancelliere tedesco Schroeder, il quale aveva partecipato ai negoziati (secondo lui, falliti a causa delle pressioni USA).
Ma poi – ha concluso Arakhamia – «Boris Johnson è arrivato a Kiev dicendo che non voleva firmare nulla con i russi e di continuare semplicemente a combattere».
Ora, il partito di Zelensky vede un’unica via d’uscita nell’apertura di negoziati con la Russia, perché la guerra è praticamente persa e la situazione generale del Paese è disastrosa. L’ex comico, però, non si rassegna e, da un’emittente televisiva ucraina, chiede 50 miliardi di dollari all’Occidente, per continuare il conflitto…
Sullo sfondo, gli Stati Uniti apprendono che l’Iran sta considerando di vendere missili balistici a corto raggio alla Russia. Lo ha annunciato il Rappresentante Ufficiale del Pentagono, Contrammiraglio della Marina John Kirby. Il tono molto preoccupato dell’ufficiale americano è più che giustificabile, dato che già l’anno scorso, al fronte, sono stati fotografati degli eccellenti PTRK iraniani, che sono le repliche dei russi Kornet, e militari russi che indossavano corazze iraniane.
La Russia, come gli Stati Uniti, è firmataria del “Trattato INF”, che vieta lo sviluppo di missili a corto raggio, in grado di viaggiare oltre i 500 chilometri. L’Iran non è tra i firmatari del Trattato. Perciò dispone di missili che potrebbero essere molto utili alla causa russa: Fateh-110 e Zolfaghar. Il raggio d’azione dei primi è di 300 chilometri (addirittura inferiore a quello dei missili Iskander 9M723), mentre i secondi hanno una gittata di 700 chilometri.
Nel settembre 2022, l’Iran ha mostrato i missili balistici Rezvan, a testata staccabile, con una gittata di 1.400 chilometri. Questo è già sufficiente per bombardare l’Ucraina, non solo da nord a sud, ma anche da ovest a est. Perciò, sarebbe da irresponsabili insistere nel rifiutare i negoziati con Putin, anche perché egli dispone di un alleato come l’Iran, che è molto forte e che potrebbe innescare, col suo intervento bellico, un’escalation che con gran facilità potrebbe velocemente proporsi anche in Medio Oriente.

La via alla vera pace secondo Pio XII

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Riceviamo e pubblichiamo questo interessante articolo del Prof. De Mattei, che ci vede concordi, sebbene con posizioni dottrinali differenti (n.d.r.)

del Prof. Roberto De Mattei

Tra gli anniversari che ricorrono nel mese di ottobre c’è quello dell’enciclica di Pio XII Summi Pontificatus, pubblicata il 20 ottobre 1939, la prima e una delle più importanti del suo pontificato.

Il cardinale Eugenio Pacelli era stato elevato al soglio di Pietro, con il nome di Pio XII, il 2 marzo del 1939. Per temperamento e vocazione, Pio XII era un uomo di pace. Il suo stemma mostrava una colomba con un ramo d’ulivo e il suo motto indicava la pace come frutto della giustizia: Opus justitiae pax (Is. 34, 17).  E il primo messaggio inviato via radio a tutto il mondo fu dedicato a: La pace, dono di Dio desiderato da tutti gli uomini retti, frutto dell’amore e della giustizia“.

Pio XII invocava la pace perché il mondo era alla vigilia della guerra. Egli, scrive uno dei suoi biografi, “ricevette la tiara come se fosse un elmetto, perché l’Europa era in armi“.

Nella conferenza di Monaco del settembre 1938 Hitler si era formalmente impegnato a garantire l’incolumità dello stato cecoslovacco. Ma il 15 marzo 1939, pochi giorni dopo l’incoronazione del Papa, il dittatore nazista violò gli accordi di Monaco e invase la Ceco-Slovacchia, annettendo Boemia e Moravia al Reich tedesco. La posizione della Francia e della Gran Bretagna nei confronti di Hitler, che a Monaco era stata cedevole, da questo momento cambiò: le due nazioni decisero di impegnarsi a proteggere la Polonia.

Il 23 agosto 1939 i ministri degli Esteri sovietico Molotov e tedesco Ribbentrop firmarono un trattato di non aggressione accompagnato da un protocollo segreto che prevedeva la spartizione della Polonia e la divisione dell’Europa orientale in due sfere d’influenza:

Il 1° settembre dello stesso anno, dopo il rifiuto polacco di concedere a Hitler il “corridoio” di Danzica, l’esercito tedesco invase la Polonia. Due giorni dopo, il 3 settembre, Gran Bretagna e Francia dichiararono guerra alla Germania.

La Seconda guerra mondiale era iniziata. Un conflitto che non conosceva frontiere e coinvolgeva i civili di tutto il mondo, con un bilancio spaventoso di più di sessanta milioni di morti ma soprattutto di milioni di vittime spirituali e morali.

Poche settimane dopo l’inizio della catastrofe, il 20 ottobre, Pio XII, pubblicò l’enciclica Summi Pontificatus, in cui non si limitò a deplorare la guerra ma ne indicò con chiarezza le cause. Pio XII affermava: “Il tempo presente, venerabili fratelli, aggiungendo alle deviazioni dottrinali del passato nuovi errori, li ha spinti a estremi, dai quali non poteva seguire se non smarrimento e rovina. Innanzitutto è certo che la radice profonda e ultima dei mali che deploriamo nella società moderna sta nella negazione e nel rifiuto di una norma di moralità universale, sia della vita individuale, sia della vita sociale e delle relazioni internazionali; il misconoscimento cioè, così diffuso ai nostri tempi, e l’oblio della stessa legge naturale.

Questa legge naturale trova il suo fondamento in Dio, creatore onnipotente e padre di tutti, supremo e assoluto legislatore, onnisciente e giusto vindice delle azioni umane. Quando Dio viene rinnegato, rimane anche scossa ogni base di moralità, si soffoca, o almeno si affievolisce di molto, la voce della natura, che insegna, persino agli indotti e alle tribù non pervenute a civiltà, ciò che è bene e ciò che è male, il lecito e l’illecito, e fa sentire la responsabilità delle proprie azioni davanti a un Giudice supremo”.

Sono parole da meditare in tempi, come quelli in cui viviamo, in cui il rinnegamento della legge naturale è arrivato al punto di negare l’esistenza stessa di una natura umana, attraverso teorie e pratiche abominevoli come quella del gender.

Ma Pio XII va più a fondo. “La negazione della base fondamentale della moralità – dice – ebbe in Europa la sua originaria radice nel distacco da quella dottrina di Cristo, di cui la cattedra di Pietro è depositaria e maestra; dottrina che un tempo aveva dato coesione spirituale all’Europa, la quale, educata, nobilitata e ingentilita dalla croce, era pervenuta a tal grado di progresso civile da diventare maestra di altri popoli e di altri continenti”. 

Per ottenere la pace, la vera pace, che è la tranquillità dell’ordine, la vita nazionale e internazionale – afferma Pio XII – deve fondarsisulla roccia incrollabile del diritto naturale e della divina rivelazione”.  Non c’è altra strada possibile. “La rieducazione dell’umanità, se vuole sortire qualche effetto, deve essere soprattutto spirituale e religiosa: deve, quindi, muovere da Cristo come da suo fondamento indispensabile, essere attuata dalla giustizia e coronata dalla carità”.

Questo insegnamento costituì l’asse del pontificato di Pio XII e ha un valore perenne. Le generiche deplorazioni della guerra i generici appelli alla pace non sono sufficienti. Solo il rispetto della legge naturale e la conversione a Cristo potrà restituire pace al mondo e gloria alla Chiesa, che potrà tornare ad essere, la civitas supra montem posita, la “città posta su un colle”, la roccia incrollabile, contro cui si infrange invano la furia delle onde marine.

 

La disperazione di Zelens’kyj

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di Fulvio Scaglione

Fonte: lettere da Mosca

Non so se si tratti di una sensazione solo mia ma nell’ultima mossa del presidente Zelens’kyj si avverte un senso di disperazione che dovrebbe preoccupare tutti coloro che hanno a cuore le sorti dell’Ucraina. Ricapitoliamo: Zelens’kyj ha annunciato l’intenzione di licenziare tutti i funzionari regionali preposti al reclutamento militare per sostituirli con militari veri e propri. L’accusa del Presidente è: corruzione. Un sistema di arricchimento illecito, realizzato soprattutto con la vendita di false esenzioni dalla leva, che, come dice giustamente Zelens’kyj, in un Paese in guerra “equivale al tradimento”.
Il problema, però, è che questa storia della corruzione (e del tradimento) va avanti da più di un anno, cioè da quando la struttura presidenziale ha avviato una serie di epurazioni che, nel luglio del 2022, presero il via con il licenziamento di Igor Bakanov, l’amico d’infanzia che Zelens’kyj aveva nominato capo dei servizi segreti (SBU) e di Irina Venediktova, l’ex responsabile della sua campagna elettorale nominata Procuratrice generale dell’Ucraina. Anche allora le accuse oscillavano tra corruzione e tradimento. Lo stesso Zelensk’yj disse che tra i dipendenti della Procura erano stati aperti 650 procedimenti penali. In senso politico e amministrativo, una strage.
Già allora si poteva intuire un certo tasso di disperazione: Zelens’kyj, fin dai primi giorni della sua presidenza, ha applicato uno spoil system implacabile. Che rinunciasse a due membri così importanti del suo cerchio magico, per di più distruggendoli con accuse  pesantissime, dava da pensare. Ne ho scritto e raccontato più volte per Limes, in tempi affatto sospetti, e non sto quindi a dilungarmi. Resta il fatto che da allora le purghe non si sono mai fermate e hanno investito tutti i settori decisivi: i dirigenti dell’industria della Difesa, lo stesso ministero della Difesa con lo scandalo delle forniture all’esercito a prezzi gonfiati  costato dimissioni “cosmetiche” al viceministro, gli alti gradi dell’esercito e quelli medi dei servizi segreti, i dirigenti regionali e comunali e così via. Da un certo punto in poi, all’intelligence militare diretta dall’astro nascente Kyrylo Budanov sono stati persino affidati i compiti della ollizia giudiziaria.
Per un po’, tutto è stato giustificato con le dure necessità di un Paese invaso, devastato dai bombardamenti e, di fatto, rimasto in vita per il valore dei suoi combattenti e per i massicci aiuti finanziari e militari ricevuti dall’estero.  E anche, almeno dal mio punto di vista, con il desiderio di Zelens’yj di garantirsi quadri di sua scelta e di presumibile maggiore fedeltà per qualunque evenienza futura. Non bisogna infatti dimenticare che Zelensk’yj aveva trionfato nelle presidenziali del 2019 e, nello stesso anno, aveva portato al trionfo e alla maggiora Enza assoluta dei seggi parlamentari il suo partito Servo del Popolo. Ma nelle elezioni amministrative del 2020 aveva perso ovunque: in ogni centro ucraino di un qualche importanza Servo del Popolo era stato sconfitto. Nella capitale Kiev la candidata di Zelens’kyj, l’attuale vicepremier Vershchuk, era arrivata addirittura quinta. In sostanza: Zelensk’yj aveva un dominio assoluto sul centro e poco o punto controllo sulla periferia. Logico che volesse approfittare della legge marziale per cambiare la situazione.
Adesso, però, il tasso di disperazione è salito ancora. Il licenziamento dei funzionari preposti alla mobilitazione per la leva arriva dopo mesi di voci sul siluramento del ministro della Difesa Reznikov, che avrebbe dovuto lasciare (in agguato, per sostituirlo, il solito Budanov) con il primo scandalo corruzione, e che viene dato per prossimo ambasciatore ucraino nel Regno Unito, ma che è stato salvato dalle faide interne a Servo del Popolo. E, soprattutto, arriva mentre la controffensiva ucraina sembra non produrre risultati e le truppe russe in qualche settore, per esempio quello di Kupiansk, tentano addirittura non di difendersi ma di avanzare.
In ogni caso, il provvedimento deciso da Zelensk’yj come minimo significa due cose. La prima è che, al di là di ogni retorica, il sistema ucraino di reclutamento funziona male e che i giovani cercano di sottrarsi al servizio militare al fronte. La seconda è che, a quattro anni dall’insediamento e con le leggi d’emergenza e poi la legge marziale dalla sua parte, Zelens’kyj controlla sempre meno il Paese. Ha dalla sua le forze armate e gli alti gradi dell’esercito, a partire dal comandante in capo Zaluzhny, e ancor più i servizi segreti, cosa decisiva in un Paese in guerra. Ma il resto, dopo un anno abbondante di purghe, sembra smottargli sotto i piedi. Tutto è tranne che una buona notizia. Per Zelens’kyj e per gli ucraini, ovviamente. Di sicuro per tutti gli ingenui che da due anni scrivono che basta riempire l’Ucraina di armi per risolvere il problema. Ma infine anche per tutti coloro che vogliono veder finire al più presto questa follia: per affrontare le sfide di una tregua e, si spera, di una pacificazione, l’Ucraina ha bisogno non di disperazione ma di una guida salda. Almeno quanto lo è stata quella che l’ha guidata in questo anni e mezzo di guerra.

Il falò delle vanità

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di Alastair Crooke*

Fonte: Come Don Chisciotte

L’arroganza consiste nel credere che una narrazione artificiosa possa, di per sé, portare alla vittoria. È una fantasia che ha attraversato tutto l’Occidente, soprattutto a partire dal XVII secolo. Recentemente, il Daily Telegraph ha pubblicato un ridicolo video di nove minuti in cui si sostiene che “le narrazioni vincono le guerre” e che le battute d’arresto in uno scenario bellico sono un fatto accidentale: ciò che conta è avere un filo narrativo unitario articolato, sia verticalmente che orizzontalmente, lungo tutto lo spettro – dal soldato delle forze speciali sul campo fino all’apice del vertice politico.

Il succo è che “noi” (l’Occidente) abbiamo una narrativa irresistibile, mentre quella della Russia è “goffa”, quindi, è inevitabile che gli Stati Uniti vincano.

È facile deriderla, ma possiamo comunque riconoscere in essa una certa sostanza (anche se questa sostanza è un’invenzione). La narrazione è ormai il modo in cui le élite occidentali immaginano il mondo. Che si tratti dell’emergenza pandemica, del clima o dell’Ucraina, tutte le “emergenze” sono ridefinite come “guerre”. E tutte sono”guerre” che devono essere combattute con una narrazione unitaria e obbligatoria di “vittoria”, contro la quale è vietata ogni opinione contraria.

L’ovvio difetto di questa arroganza è che richiede di essere in guerra con la realtà. All’inizio il pubblico è confuso, ma, man mano che le menzogne proliferano e si stratificano, la narrazione si separa sempre di più dalla realtà, anche se le nebbie della disonestà continuano ad avvolgerla. Lo scetticismo del pubblico si fa strada. Le narrazioni sul “perché” dell’inflazione, sul fatto che l’economia sia o no sana, o sul perché dobbiamo entrare in guerra con la Russia, iniziano a perdere colpi.

Le élite occidentali hanno scommesso tutto sul massimo controllo delle “piattaforme mediatiche”, sull’assoluto conformismo dei messaggi e sulla spietata repressione delle proteste come loro progetto per continuare a mantenere il potere.

Eppure, contro ogni previsione, i media mainstream stanno perdendo la loro presa sul pubblico statunitense. I sondaggi mostrano una crescente sfiducia nei confronti dei media statunitensi. Quando è apparso il primo show “anti-messaggio” di Tucker Carlson su Twitter, il rumore delle placche tettoniche che si scontravano è stato imperdibile, mentre più di 100 milioni di americani (uno su tre) ascoltavano l’iconoclastia.

Il punto debole di questo nuovo autoritarismo “liberale” è che i suoi miti narrativi chiave possono essere infranti. Basta poco; lentamente, la gente inizia a parlare della realtà.

Ucraina: come si vince una guerra che non si può vincere? La risposta dell’élite è stata la narrazione. Insistendo, contro la realtà dei fatti, che l’Ucraina sta vincendo e la Russia sta “cedendo”. Ma questa arroganza alla fine viene smontata dai fatti sul campo. Anche le classi dirigenti occidentali si rendono conto che la loro richiesta di un’offensiva ucraina di successo è fallita. Alla fine, i risultati militari sono più potenti delle chiacchiere politiche: Uno schieramento è distrutto, i suoi molti morti diventano la tragica “forza” per rovesciare il dogma.

Saremo in grado di estendere all’Ucraina l’invito ad aderire all’Alleanza quando gli alleati saranno d’accordo e le condizioni saranno soddisfatte… [tuttavia] a meno che l’Ucraina non vinca questa guerra, non c’è alcun problema di adesione da discutere” – ha dichiarato Jens Stoltenberg a Vilnius. Così, dopo aver esortato Kiev a gettare altre (centinaia di migliaia) di uomini nelle fauci della morte per giustificare l’adesione alla NATO, quest’ultima volta le spalle alla sua protetta. Dopotutto, si trattava di una guerra non vincibile fin dall’inizio.

L’arroganza, ad un certo livello, risiede nel fatto che la NATO contrappone la sua presunta “superiorità” in termini di dottrina militare e di armamenti alla deprecata rigidità – e “incompetenza” – militare russa di stampo sovietico.

Ma le operazioni militari sul campo hanno rivelato la dottrina occidentale per quel che è – arroganza – con le forze ucraine decimate e le armi della NATO ridotte a carcasse fumanti. È stata la NATO ad insistere sulla rievocazione della Battaglia del 73 Est (nel deserto iracheno, ma ora trasportata in Ucraina).

In Iraq, il “pugno corazzato” aveva facilmente perforato le formazioni di carri armati iracheni: si trattava infatti di un “cazzottone” che aveva messo al tappeto l’opposizione irachena. Ma, come ammette francamente il comandante statunitense di quella battaglia di carri armati (il colonnello Macgregor), il suo risultato contro un’opposizione demotivata era stato in gran parte fortuito.

Tuttavia, il “73 Easting” è un mito della NATO, trasformato in dottrina generale per le forze ucraine – una dottrina strutturata sulla circostanza unica dell’Iraq.

L’arroganza – in linea con il video del Daily Telegraph – sale tuttavia in verticale per imporre la narrazione unitaria di una prossima “vittoria” occidentale anche sulla sfera politica russa. È una vecchia storia che la Russia sia militarmente debole, politicamente fragile e incline alle spaccature. Conor Gallagher ha dimostrato con ampie citazioni che era stata esattamente la stessa storia anche nella Seconda Guerra Mondiale, si trattava di un’analoga sottovalutazione della Russia da parte dell’Occidente – combinata con una grossolana sopravvalutazione delle proprie capacità.

Il problema fondamentale del delirio è che l’uscirne (se mai succede) avviene ad un ritmo molto più lento degli eventi. Questo disallineamento può definire gli esiti futuri.

Potrebbe essere nell’interesse del Team Biden supervisionare un ritiro ordinato della NATO dall’Ucraina, in modo da evitare che diventi un’altra debacle in stile Kabul.

Perché ciò avvenga, il Team Biden ha bisogno che la Russia accetti un cessate il fuoco. E qui sta il difetto (ampiamente trascurato) di questa strategia: semplicemente, non è nell’interesse della Russia “congelare” la situazione. Ancora una volta, l’ipotesi che Putin “prenderebbe al volo” l’offerta occidentale di un cessate il fuoco è un modo di pensare arrogante: i due avversari non sono congelati nel senso basilare del termine – come in un conflitto in cui nessuna delle due parti è riuscita a prevalere sull’altra e sono bloccate.

In parole povere, mentre l’Ucraina è strutturalmente sull’orlo dell’implosione, la Russia, al contrario, è del tutto plenipotente: Dispone di forze ingenti e fresche, domina lo spazio aereo e ha quasi il dominio dello spazio elettromagnetico. Ma l’obiezione fondamentale ad un cessate il fuoco è che Mosca vuole che l’attuale collettivo di Kiev se ne vada e che le armi della NATO siano fuori dal campo di battaglia.

Quindi, ecco il problema: Biden ha un’elezione, e quindi sarebbe adatto alle esigenze della campagna democratica avere un “disimpegno ordinato”. La guerra in Ucraina ha messo in luce troppe carenze logistiche americane. Ma anche la Russia ha i suoi interessi.

L’Europa è la parte più intrappolata dall’”allucinazione”, fin dal momento in cui si è gettata senza riserve nel “campo” di Biden. La narrazione dell’Ucraina si è interrotta a Vilnius. Ma l’amour propre di alcuni leader dell’UE li mette in conflitto con la realtà. Vogliono continuare ad alimentare il tritacarne ucraino, a persistere nella fantasia di una “vittoria totale”: “non c’è altro modo che una vittoria totale – e sbarazzarsi di Putin… Dobbiamo correre tutti i rischi per questo. Nessun compromesso è possibile, nessun compromesso“.

La classe politica dell’UE ha preso così tante decisioni disastrose in ossequio alla strategia statunitense – decisioni che vanno direttamente contro gli interessi economici e di sicurezza degli europei – che ha molta paura.

Se la reazione di alcuni di questi leader sembra sproporzionata e irrealistica (“Non c’è altro modo che una vittoria totale – e sbarazzarsi di Putin”) – è perché questa “guerra” tocca motivazioni più profonde. Riflette il timore esistenziale di un disfacimento della meta-narrazione occidentale che farà crollare la sua egemonia e, con essa, la struttura finanziaria occidentale.

La meta-narrazione occidentale “da Platone alla NATO, è quella di idee e pratiche superiori le cui origini risalgono all’antica Grecia e che, da allora, sono state raffinate, estese e trasmesse nel corso dei secoli (attraverso il Rinascimento, la rivoluzione scientifica e altri sviluppi presumibilmente unicamente occidentali), cosicché oggi noi occidentali siamo i fortunati eredi di un DNA culturale superiore“.

Questo è ciò che probabilmente avevano in mente gli autori del video del Daily Telegraph quando avevano insistito sul fatto che “la nostra narrativa vince le guerre”. La loro arroganza risiede nella presunzione implicita che l’Occidente, in qualche modo, vince sempre – è destinato a prevalere – perché è il destinatario di questa genealogia privilegiata.

Naturalmente, al di fuori della comprensione generale, è accettato che la nozione di “Occidente coerente” sia stata inventata, riproposta e utilizzata in tempi e luoghi diversi. Nel suo nuovo libro, The West, l’archeologa classica Naoíse Mac Sweeney contesta il “mito del padrone”, sottolineando che era stato solo “con l’espansione dell’imperialismo europeo d’oltremare nel XVII secolo che aveva iniziato ad emergere un’idea più coerente di Occidente, utilizzata come strumento concettuale per tracciare la distinzione tra il tipo di persone che potevano essere legittimamente colonizzate e quelli che potevano essere legittimamente i colonizzatori”.

Con questa invenzione dell’Occidente era arrivata anche l’invenzione della storia occidentale, un lignaggio elevato ed esclusivo che ha fornito una giustificazione storica per la dominazione occidentale. Secondo il giurista e filosofo inglese Francis Bacon, nella storia dell’umanità ci sono stati solo tre periodi di apprendimento e civiltà: “uno tra i Greci, il secondo tra i Romani e l’ultimo tra noi, cioè le nazioni dell’Europa occidentale“.

Il timore più profondo dei leader politici occidentali – complice la consapevolezza che la “Narrazione” è una finzione che raccontiamo a noi stessi, pur sapendola essere di fatto falsa – è che la nostra epoca sia stata resa sempre più e pericolosamente dipendente da questo meta-mito.

Se la fanno sotto non solo a causa di una “Russia potente”, ma piuttosto per la prospettiva che il nuovo ordine multipolare guidato da Putin e Xi, che si sta diffondendo in tutto il mondo, faccia crollare il mito della civiltà occidentale.

Fonte: www.strategic-culture.org
Link: https://strategic-culture.org/news/2023/07/17/a-bonfire-of-the-vanities/

Scelto e tradotto da Markus per www.comedonchisciotte.org

*Alastair Crooke CMG, ex diplomatico britannico, è fondatore e direttore del Conflicts Forum di Beirut, un’organizzazione che sostiene l’impegno tra l’Islam politico e l’Occidente. In precedenza è stato una figura di spicco dell’intelligence britannica (MI6) e della diplomazia dell’Unione Europea.

Rosso&Nero – Telenuovo Castagna. “basta guerra, società multipolare”

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Circa una volta al mese il nostro Responsabile Nazionale Matteo Castagna viene invitato alla trasmissione Rosso&Nero su Telenuovo dal conduttore Mario Zwirner.

Ecco l’ultima volta, lunedì 5 Giugno 2023, conduttrice Antonella Manna in sostituzione temporanea di Mario Zwirner. Ospiti con Castagna collegato tramite Skype: Etta Andreella (Pd), Marcello Bamo (Lega, sindaco di Noventa Padovana) Qualche piccolo sfottò ironico con Andreella, che avendo presagito cosa io avrei potuto dire sul ruolo delle donne nella loro dimensione domestica, si è beccata la battuta d’esser la “maga Circe” di Telenuovo, che legge nel pensiero altrui… e un rimbrotto all’esponente della Lega sulla guerra in Ucraina, che gli fa fare marcia indietro…

la registrazione: https://play.telenuovo.it/rosso-e-nero/tit-13282314

I conti mai fatti col fascismo

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di Massimo Fini

 

ARIANNA EDITRICE

Fonte: Massimo Fini

Claudio Anastasio, Presidente della 3-I, società pubblica, è stato massacrato (“apologia del fascismo” secondo il Pd e il quotidiano La Repubblica che ha fatto il presunto scoop) e quindi costretto a dimettersi perché in una mail interna inviata ai componenti del Consiglio di Amministrazione assumendosi la responsabilità dell’andamento dell’azienda, ha parafrasato, ripeto: parafrasato, il discorso con cui Benito Mussolini il 3 gennaio 1925 si era attribuito la responsabilità politica e morale dell’assassinio di Giacomo Matteotti. Riferimento, quello di Anastasio, certamente inopportuno, sempre che sia stato voluto, ma nulla più. Winston Churchill replicò il famoso discorso di Catilina ai soldati prima della battaglia copiando letteralmente l’ultima frase: “vi prometto solo lacrime e sangue”. Non per questo Churchill può essere segnato a dito come un eversore dello Stato come lo fu Catilina. Si è andati a ravanare nel passato di Anastasio, si è scoperto che nel 1997 aveva curato un programma sulla storia del Duce. Forse che in Italia è proibito rifare, seguendo le proprie opinioni, giuste o sbagliate che siano, la storia di Mussolini e della sua famiglia? E allora mettiamo in galera anche Renzo De Felice che, come storico, ha chiarito dati alla mano che il Fascismo ebbe un largo consenso fra gli italiani (“gli anni del consenso”).
Polemiche sepolcrali come quelle sul fascismo e l’antifascismo possono esistere, a 75 anni dalla fine della guerra, solo in Italia. Il fatto è che noi italiani non abbiamo fatto i conti con la nostra storia recente assumendo come buona la sciagurata interpretazione di Benedetto Croce secondo il quale il Fascismo era stato “solo una parentesi della nostra storia”. Invece il Fascismo fa parte a pieno titolo della nostra storia nel male ma anche nel bene che pur ci fu. Montando la leggenda partigiana, e lo dico con il massimo rispetto per gli uomini e le donne che partigiani lo furono davvero e non solo dopo il 25 luglio, come ho rispetto dei ragazzi che andarono a morire per Salò in nome di altri valori, l’onore e la lealtà, che a quei tempi erano moneta corrente (non ho aspettato Luciano Violante per riconoscere pari dignità ai ragazzi che andarono a morire per Salò), noi abbiamo fatto finta di aver vinto una guerra che avevamo invece perso nel più sciagurato dei modi, tradendo, in una lotta per la vita e per la morte, l’alleato che ci eravamo scelti e schierandoci, come avevamo già fatto nella Prima guerra mondiale, col vincitore. In realtà la lotta partigiana, pur benemerita, fu marginale in quella tragica epopea che fu la Seconda guerra mondiale. I protagonisti furono altri: gli americani, gli inglesi, i russi sovietici da una parte (la Francia si è seduta arbitrariamente al tavolo dei vincitori, tanto che oggi conserva un seggio nel Consiglio di sicurezza dell’ONU avendo avuto una Resistenza ancor più marginale di quella italiana, una correità col governo filo nazista del maresciallo Pétain e un’adesione della popolazione a quel regime filofascista maggiore di quella italiana) i nazisti tedeschi, gli italiani fascisti, i giapponesi dall’altra.
Fra le benemerenze di Mussolini si può mettere, paradossalmente, che fu il miglior alleato degli Alleati: “spezzeremo le reni alla Grecia” e dovette intervenire la Wermacht per salvarci, il Duce aprì il fronte africano di cui Hitler non voleva sapere e ci fu la sconfitta nella battaglia di El Alamein in cui gli italiani si portarono benissimo come ammise lo stesso Rommel, sconfitta scontata data la disparità delle forze in campo.
Uscendo dal paradossale fu Mussolini, come abbiamo già ricordato, a resistere alla crisi di Wall Street del ’29 creando l’IRI, e poi ci furono leggi economiche di tutto rispetto e un’attenzione all’istruzione con il  liceo classico curato da Giovanni Gentile, che è stato valido fino agli anni ’60 del dopoguerra e in qualche misura lo è ancora oggi (“il classico mi sta aiutando a cercare me stesso, a capire da dove vengo e chi devo diventare, fornendomi una preparazione versatile e multiforme” ha scritto al Corriere il sedicenne Flavio Maria Coticoni, che sia fascista anche lui?). Ci sono poi cose minori, molto irrise, come la divisa. Mi ha detto qualche anno fa una vecchia signora che fu ragazza durante il regime e che indossò quella divisa: “per noi ragazze e per i ragazzi la divisa nascondeva le differenze sociali fra chi può permettersi ed ostentare le griffe e chi no” come è storia di oggi. Ci sono le attività sportive imposte alla gioventù, anche se poi Starace, col salto nel ‘cerchio di fuoco’, rendeva ridicolo ciò che invece aveva un suo senso: tenere allenata la nostra gioventù, invece di accontentarsi di andare a vedere le partite di calcio.
E veniamo agli errori ed anche agli orrori di cui primo responsabile fu Benito Mussolini. Il primo fu quello di far entrare l’Italia in guerra assolutamente impreparata (“ci basteranno poche migliaia di morti per sederci al tavolo della pace”, abbiamo visto) e fu la tragedia dell’Armir. Ci sono poi il delitto Matteotti, l’assassinio a Parigi dei fratelli Rosselli, aver tenuto in galera per una decina di anni Antonio Gramsci il vero leader del Partito comunista (“dobbiamo impedire a questa mente di funzionare”). Anche se bisogna pur dire che fra tutti i totalitarismi di quei tempi nazismo, stalinismo, Mao Tse-tung, il Fascismo fu certamente il meno sanguinario.
C’è infine l’adesione alle leggi razziali che i nazisti non ci avevano nemmeno chiesto. Questa, sotto il profilo etico, è la colpa più grave oltre che grottesca. Se c’è un popolo che, “per fortuna o purtroppo” per dirla con Gaber, non può vantare alcuna purezza raziale è quello italiano che, conquistato di volta in volta da questo o da quello, è un crogiolo di etnie diverse (“Franza o Spagna purché se magna”).
Ma anche la questione semitismo/antisemitismo ha fatto il suo tempo. Gli ebrei non sono più i perseguitati di un tempo, appartengono anzi, grazie alla finanza internazionale, all’élite che governano il mondo. Si riconoscono in uno Stato, Israele, che un giorno sì e uno no ammazza bambini palestinesi solo perché palestinesi. Nella striscia di Gaza tengono un popolo in un lager a cielo aperto, proprio loro che dei lager furono le prime, anche se non le sole, vittime.
Gli emarginati oggi sono altri. Sono i migranti, in genere dell’Africa subsahariana, che vengono a morire sulle nostre coste e che Salvini, e tutti i razzisti alla Salvini, vorrebbero tener lontani così che anneghino in mare o siano respinti nell’inferno della Libia che proprio noi, francesi, americani, italiani, abbiamo creato, violando tutte le leggi internazionali a cui oggi siamo molto attenti nella guerra russo-ucraina, aggredendo uno Stato sovrano, come sovrani erano la Serbia e l’Iraq, e macellando il colonnello Muhammar Gheddafi in una maniera che disgusterebbe anche i ‘tagliagole’ dell’Isis.

 

Per approfondimenti: https://ariannaeditrice.musvc2.net/e/t?q=4%3dFd8VI%26F%3d4%26E%3dCY8X%26x%3dU6RF%26O%3djK3Ju_IZwR_Tj_LStY_Vh_IZwR_SoQyN.jLk2wHc6mCvIr7g.03_LStY_Vh21Nk4xFk_IZwR_SoC-eFwNk-DjC-h22j5c3Nk-4xH-kC-o5u4rMoF%26m%3dGwJ574.EnN%26kJ%3dEZ4U&mupckp=mupAtu4m8OiX0wt

 

Post-uomini o post-umani?

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di Aleksandr Dugin

Quando un uomo smette di essere un uomo, non diventa una donna. Quando un uomo smette di essere un uomo, non diventa una bestia.

Qui la questione è assai complicata. Chi tradisce il proprio sesso cade al di sotto della linea critica, il confine che delimita entrambi i sessi.

Il post-maschio tradisce entrambi i sessi contemporaneamente. Abbiamo a che fare con un mostro, un degenerato pericoloso e imprevedibile, che non è affatto una “donna”, anche solo pensarlo è un insulto.

Con una donna, però, è un po’ diverso. La vera struttura del suo sesso è particolare e poco compresa, e concetti come lealtà/tradimento (che descrivono abbastanza chiaramente l’atteggiamento maschile) non si applicano direttamente a lei. Esiste (dovrebbe esistere) un linguaggio speciale per descrivere le donne e la loro logica, un linguaggio segreto, o non ancora scoperto. Non esistono post-donne. Sono state inventate dai post-uomini, e non ci sono femministe, ci sono vittime di un esperimento pericoloso e cinico. Vengono semplicemente compatite, come il corvo zoppo.

Ci sono i post-uomini e la colpa di ciò che fanno e di ciò che diventano è loro. Tutto intorno a loro inizia a marcire, a decadere, a scivolare nella dissoluzione. Quando sono pochi, possono ancora avere un posto nella cultura: nella marginalità esotica, nell’eccentricità, nella stravaganza, ma non appena la post-mascolinità diventa una tendenza seria, si trasforma in un virus mortale altamente contagioso. Se gli viene dato libero sfogo, distruggeranno tutto ciò che li circonda.

Qualcosa di simile accade a chi perde la propria immagine umana. Qui è ancora più evidente. Tali persone non si trasformano in bestie: le bestie, anche se predatrici o repellenti, sono organiche, armoniose e non fanno mai nulla che non sia giustificato e predestinato dalla loro natura. In questo sono belle, anche quando sono estremamente pericolose o fastidiose. Lo riconosciamo rispettando gli animali, sia domestici che selvatici. I post-umani, invece, sono molto diversi. tagliano i ponti con il nostro archetipo, ma non stipulano un contratto ontologico con le bestie. L’uomo non può diventare una bestia, ciò è al di là dei suoi poteri e soprattutto non ha e non può avere l’innocenza insita in ogni bestia. Ecco perché gli esseri post-umani sono anche mostri, pervertiti e degenerati. Nell’antichità venivano chiamati “chimere” o “sheddim”. Esiste una versione secondo la quale sono gli antenati delle scimmie, ma le scimmie sono armoniose, organiche e affascinanti. Credo che questa versione sia falsa. Non offendiamo le scimmie.

I post-umani minano l’essere umano proprio come i post-uomini tradiscono il sesso – il sesso in quanto tale. I post-umani, cedendo agli umani, stanno facendo danni irreparabili anche alla natura delle bestie.

Gli ambientalisti (principalmente ecologisti profondi nello spirito dello steampunk o del cyber-femminismo, Cthulhuzen di Donna Harraway) sono un tipo di post-umano. Non potendo essere umani, cercano di diventare topi o taccole, ma così facendo insultano roditori e uccelli. Gli ambientalisti sono nemici degli animali e nascondono il volto di maniaci sovvertiti sotto le vesti di protettori degli animali.

I liberali di oggi sono composti principalmente da post-uomini e post-uomini. Il liberalismo è una sorta di post-ideologia in cui il pensiero, l’idea e la moralità sono tutti scesi al di sotto della linea critica, ecco perché i liberali moderni danno tanta importanza alla politica di genere e all’ecologia profonda. Stanno trascinando l’umanità nell’oceano della degenerazione a tutto gas. Se hanno bisogno di una guerra nucleare per creare mostri di rifiuti di cellophane, alghe e circuiti di computer, prima o poi la faranno. Quello che c’è nella mente di un sodomita o di un ambientalista digitale va oltre i criteri di normalità. Da qui le mutazioni imposte dalle élite globali attraverso l’infosfera, i comici, la virtualità, i social media, le droghe, il moderno stile di vita urbano (l’urbanesimo è uno dei più importanti strumenti di degenerazione forzata di massa).

Considerate questo: in Georgia, un governo moderato ha proposto una legge sugli agenti stranieri, proprio come negli Stati Uniti. Gli agenti stranieri si sono immediatamente ribellati perché temevano di non essere gli unici a decidere chi è un agente e chi no. Lo stesso vale per i post-uomini e i post-uomini: avendo preso il potere, sono loro stessi a imporre i criteri di ciò che è la norma, di ciò che è woke e di ciò che non lo è, e di ciò che dovrebbe essere abolito (cancellare). Oggi, ciò che ieri era la norma in materia di genere in molti Paesi europei, è già un reato, domani la violazione dei diritti di un computer o di una formica spettatrice potrebbe essere motivo di vera e propria detenzione, e le grida più forti sui diritti umani provengono da coloro che odiano gli esseri umani. Allo stesso modo, il femminismo è solo una versione aggressiva ed estremista della misoginia radicale. La situazione è complicata dal fatto che la prossima svolta della storia richiede una vera e propria apologia dell’uomo (del genere in generale) e dell’essere umano in quanto tale, per rimanere almeno dove siamo.

Oggi, tuttavia, questo è esattamente ciò che è categoricamente vietato dalle élite, anche nella nostra società, tanto che i post-uomini e i post-umani vi si sono radicati e contrariamente ai “valori tradizionali” sanciti dal Decreto n. 809, i liberali dominano ancora in Russia come legislatori del paradigma dominante, l’episteme. Di fatto, l’élite russa sta sabotando direttamente le decisioni del Presidente in merito al ritorno alla normalità e senza questa inversione di tendenza, non ci potranno essere scuse vere e proprie.

Questo è ciò che stiamo affrontando in questo momento. Siamo in guerra con una civiltà liberale e globalista, ma rimaniamo quasi interamente sotto il suo controllo ideologico. La guerra è al suo secondo anno e c’è un sabotaggio totale, contrariamente a quanto il Presidente ha detto e fatto. Questo è il problema. Forse non si tratta di come vincere, ma di come iniziare una vera guerra.

La guerra è un affare di uomini. La guerra è un affare degli uomini. Prima di tutto, entrambi devono essere giustificati e mettere l’altro al suo posto.

Cercate l’uomo! Cercare l’uomo, questo è ciò che dobbiamo assolutamente fare.

Ma sentite come suona inquietante?! Abbiamo già inserii in noi dei programmi mentali che non ci permettono nemmeno di pensare in questa direzione e stanno funzionando. Siamo attivamente e intensamente demascolinizzati e disumanizzati e chi resiste viene relegato ai margini, agli oscurantisti, bollato con le etichette più disgustose e poi ucciso.

Traduzione a cura di Lorenzo Maria Pacini

Per la lettura dell’articolo: https://www.geopolitika.ru/it/article/post-uomini-o-post-umani

 

Il mondo questa settimana

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dettaglio_putin_potere_820Dettaglio di una carta di Laura Canali. Per la versione integrale clicca qui

Il riassunto geopolitico degli ultimi 7 giorni: il mandato di cattura contro Putin, la risposta della Cina al patto Aukus, il piano Ue per la decarbonizzazione e le materie prime, la riforma delle pensioni in Francia, il nuovo accordo tra Argentina e Fmi, le elezioni in Nigeria…

MANDATO DI CATTURA PER PUTIN [di Mirko Mussetti]

La Corte penale internazionale (Cpi) dell’Aia ha emesso un mandato d’arresto per il presidente della Federazione Russa Vladimir Putin e il suo commissario per i diritti dei bambini Marija L’vova-Belova per deportazione illegale di minori ucraini. Secondo i giudici istruttori, vi sono «ragionevoli motivi per ritenere che i sospettati siano responsabili del crimine di guerra di deportazione illegale di popolazione dalle aree occupate dell’Ucraina alla Federazione Russa, a danno dei fanciulli ucraini». Si stima che i bambini ucraini deportati dall’inizio dell’invasione russa siano circa 6 mila. I giudici hanno preso in considerazione l’emissione di un mandato segreto, ma infine hanno optato per il mandato pubblico per «contribuire a prevenire l’ulteriore commissione di reati».

Il mandato di cattura spiccato contro Putin avviene a pochi giorni dalla pubblicazione del rapporto delle Nazioni Unite che non classifica le azioni belliche della Russia come “genocidio”. La commissione indipendente dell’Onu conferma però la commissione di reati da parte delle forze di occupazione e definisce il trasferimento illegale di bambini al di fuori dell’Ucraina come “crimine di guerra”.

Mosca ha immediatamente bollato come insignificante la decisione della Corte. Infatti, al pari degli Stati Uniti (e della stessa Ucraina), la Russia non riconosce la giurisdizione della Cpi, non avendo mai ratificato lo statuto di Roma del 1998. Per questo genere di questioni, Mosca ritiene preminente la Corte internazionale di giustizia (Cig), che è organismo delle Nazioni Unite con sede anch’esso all’Aia (Paesi Bassi). L’atto ha valore simbolico ma è poco significativo in concreto. Tanto per cominciare, il presidente Putin dovrebbe essere catturato. Cosa piuttosto improbabile vista la sua riluttanza a uscire dai confini della Federazione. Inoltre anche in Russia è radicata la convinzione che a stabilire ciò che è crimine di guerra non sia un giudice terzo, bensì il vincitore. Ecco perché il Cremlino non se ne cura: la storia è scritta dai vincitori e la Russia confida nella vittoria definitiva in Ucraina. Le autorità ucraine hanno comunque salutato con favore la decisione della Cpi, che oltre a complicare i viaggi all’estero di Putin conferma la rottura diplomatica/istituzionale tra Occidente e Russkij Mir (mondo russo).

Non deve stupire il basso profilo adottato dagli Stati Uniti sulla questione. Il dipartimento della Difesa si è mostrato riluttante a condividere le prove di possibili crimini di guerra russi con la Cpi e il presidente Joe Biden non ha agito per risolvere le controversie che contrappongono il Pentagono ad altre agenzie, dipartimento di Stato in primis. Washington vuole infatti evitare di contribuire a creare un precedente. Un domani la stessa America potrebbe essere chiamata a rispondere dei crimini commessi nelle guerre condotte negli ultimi trent’anni.


🎨 Carta inedita della settimana: La rotta del grano


LA CINA CONTRO AUKUS [di Giorgio Cuscito]

L’aspra replica del ministero degli Esteri della Repubblica Popolare Cinese all’ufficializzazione dei dettagli dell’accordo tra Stati Uniti, Regno Unito e Australia sui sottomarini a propulsione nucleare (il patto Aukus) conferma l’apprensione di Pechino circa il consolidamento della tattica di contenimento americano nell’Indo-Pacifico.

Contenimento che il governo di Xi Jinping vorrebbe scardinare tramite il presidio dei Mari Cinesi, il controllo di Taiwan (se necessario da conseguire manu militari), la penetrazione in Oceania con investimenti infrastrutturali nell’ambito delle nuove vie della seta e accordi securitari come quello concluso con le Isole Salomone.

Aukus mina questo progetto perché contribuisce alla proiezione militare dell’Australia in direzione della Repubblica Popolare (poco conta il fatto che i cinesi abbiano rimosso le restrizioni alle importazioni di carbone australiano) e getta le basi per nuove collaborazioni tra Canberra, Washington e Londra. Basti pensare al possibile sviluppo congiunto di missili ipersonici, vettore che Pechino sta testando da alcuni anni. Oppure alle molteplici iniziative militari e accademiche promosse da Usa, Australia, Giappone e India per allacciare il Dialogo quadrilaterale di sicurezza (Quad) alla Nato e favorire la collaborazione tecnologica tra rivali della Repubblica Popolare.

Il consolidamento del fronte anticinese in tale ambito – che coinvolge pure Taiwan – è una delle ragioni che nel 2023 spingerà Pechino a intensificare gli sforzi per perseguire la cosiddetta “autosufficienza” nel campo dei semiconduttori, cruciali a loro volta per il potenziamento del proprio arsenale militare. Non a caso i due obiettivi sono stati messi per iscritto durante le riunioni plenarie del Congresso nazionale del popolo e della Conferenza politica consultiva del popolo cinese. Cioè le “due sessioni” che hanno confermato Xi Jinping capo di Stato per la terza volta.


IL PIANO UE PER LA DECARBONIZZAZIONE [di Fabrizio Maronta] Net Zero Industry Act. Questo il nome del piano, presentato giovedì dalla Commissione europea, per incentivare e rafforzare le industrie europee a impatto carbonico neutro (cioè compensato, oltre che ridotto in partenza). Il piano, afferma Bruxelles, mira a “rendere il nostro sistema energetico più sicuro e sostenibile”, facendo sì che “le tecnologie a impatto carbonico neutro raggiungano almeno il 40% della capacità manifatturiera europea entro il 2030”. Ciò senza compromettere, anzi incentivando, “competitività, impieghi di qualità, indipendenza energetica”.
Il pregio del piano, o almeno delle sue intenzioni, è mettere da subito in chiaro il nesso ormai inscindibile tra problematica ambientale e suoi risvolti sociali e geopolitici. Sull’onda di Covid-19, guerra in Ucraina e scontro tecnologico Usa-Cina, perseguire la transizione energetica senza tener conto del contesto strategico e dei costi socioeconomici implica gettare alle ortiche la tanto decantata “sostenibilità”, relegando la decarbonizzazione al novero delle occasioni mancate.
Un assaggio del problema, meglio dei suoi possibili esiti si è avuto recentemente con l’iniziativa tedesco-italiana volta a ritardare la messa al bando dei motori endotermici, per comprare tempo a un’industria dell’auto che deve ripensare completamente filiere e tecnologie.
Due i nodi principali del piano europeo. Primo: i soldi. La Commissione europea stima in 400 miliardi di euro all’anno i costi per raggiungere i propri obbiettivi di decarbonizzazione entro il 2050. Ma tutto questo denaro nel piano non c’è, anche perché l’Ue manca di capacità fiscale propria. E in molti dubitano che i capitali privati possano mobilitare un simile volume d’investimenti per un periodo così ampio.
Il paragone immediato è con l’America, che gioca la sua partita di reindustrializzazione/decarbonizzazione a suon di incentivi pubblici: il Chips and Science Act stanzia 280 miliardi di dollari per promuovere ricerca e produzione interne dei semiconduttori; l’Inflation Reduction Act ne destina 369 all’energia pulita; il precedente Build Back Better mette sul piatto mille miliardi per rinnovare le infrastrutture nazionali. Non abbastanza, ma molto più di noi.
Il secondo problema sono le materie prime. La recente scoperta, nell’Artico svedese, di un grande deposito di terre rare da parte della società mineraria Lkab ha fatto il giro del mondo. Ma ci vorranno anni e – di nuovo – investimenti enormi per approssimare un’autosufficienza europea in questo settore critico per le tecnologie elettriche e informatiche. L’estrazione è solo il primo passo di una filiera (raffinazione, riciclo) su cui l’Europa è molto indietro. Al pari dell’America, certo, ma senza gli spazi fisici di questa dove ospitare siti vasti, altamente energivori ed ecologicamente impattanti.
Cruciale sarà poi capire quanto questo sforzo economico sia compatibile con l’aiuto alla ricostruzione ucraina, che sia annuncia tremendamente oneroso. Non stupirebbe se i paesi europei giungessero alla conclusione che i due compiti si elidono a vicenda, optando per concentrarsi (quasi) esclusivamente sul primo. Con quali conseguenze sulla stabilità ucraina e sulla relazione transatlantica, sarebbe tutto da vedere.

Carta di Laura Canali - 2022

Carta di Laura Canali – 2022


IL 49.3 CHE HA FATTO TRABOCCARE IL VASO [di Agnese Rossi]

In Francia, il ricorso all’articolo 49.3 della costituzione ha permesso a Emmanuel Macron di far passare l’impopolare disegno di legge sulla riforma del sistema pensionistico senza discussione parlamentare. Il presidente, che non dispone di una maggioranza assoluta in Assemblea nazionale (la camera bassa del parlamento), ha preferito non esporre il progetto al voto, dunque al rischio di una bocciatura. I deputati hanno accolto l’annuncio della premier Élisabeth Borne fischiando e intonando la Marsigliese. Le forze di opposizione hanno quindi depositato venerdì una mozione di sfiducia transpartisan sottoscritta da 91 deputati di cinque gruppi politici che potrebbe portare allo scioglimento del governo (verrà esaminata lunedì). Nel pomeriggio di giovedì e nella notte seguente si sono registrati violenti focolai di protesta in diverse città della Francia, a partire da quello nella capitale in Place de la Concorde, la stessa che ha ospitato la ghigliottina nella stagione rivoluzionaria aperta dal 1789 e che ieri è stata teatro di aspri scontri tra le forze di polizia e migliaia di manifestanti.

La partecipazione popolare ampia e trasversale di ieri e delle precedenti giornate di mobilitazione rivela in primo luogo il valore simbolico e identitario che lega i cittadini della République al proprio sistema di protezione sociale, che fissa l’età pensionabile a 62 anni – una delle più basse in Europa – contro i 64 previsti dalla riforma. Ma anche una diffusa disponibilità alla violenza al fine di preservarlo nella forma attuale. Il sistema pensionistico dell’Esagono, cui viene tributato il 14,5% del pil, è in effetti uno dei più dispendiosi: il suo impianto generale risale al secondo dopoguerra, quando solo un terzo della popolazione viveva fino all’età della pensione. Le aspettative di vita sono negli anni gradualmente aumentate, ragion per cui tutti i presidenti da Mitterand in poi l’hanno riformato. Neanche il ricorso all’articolo 49.3 è di per sé inedito: si calcola che sia stato impiegato 100 volte nella storia della Quinta repubblica, l’ultima in ottobre per far passare la legge di bilancio. Inusitata è stata in proporzione la rabbia sociale manifestata dai cittadini francesi, alimentata dal rifiuto di Macron di confrontarsi con i sindacati. L’impopolarità del piano si comprende meglio alla luce del preesistente scontento nei confronti dell’inquilino dell’Eliseo, che ha fatto della riforma una missione personale.

Il secondo mandato è infatti per il presidente francese l’ultima occasione per consolidare la propria eredità politica. In questa chiave va letta non solo la riforma delle pensioni ma anche la parallela e altrettanto contestata riforma della diplomazia, su cui proprio ieri – nel mezzo del tumulto – Macron è tornato a insistere e che lo scorso giugno ha portato al raro spettacolo di uno sciopero al Quai d’Orsay (il ministero degli Esteri transalpino). Se Macron verrà ricordato come un abile riformatore o come un Giove distante e sordo alle esigenze reali del paese dipende anche dalle evoluzioni di questa vicenda. Che sembra comunque aver compromesso parte della sua legittimazione politica e popolare, aprendo allo spettro di una nuova ondata di malcontento.


L’ARGENTINA TRA FMI ED ECUADOR [di Federico Larsen]

Il Fondo monetario internazionale (Fmi) e l’Argentina hanno raggiunto un nuovo accordo di revisione degli obiettivi pattuiti nel 2022 per il piano sul debito da 45 miliardi di dollari contratto da Buenos Aires nel 2018. Si tratta dell’aiuto più consistente mai elargito nella storia del Fmi, criticato dallo stesso staff tecnico del Fondo in un documento di revisione nel dicembre 2021: secondo quel rapporto, il supporto elargito è evidentemente troppo oneroso per essere restituito nei tempi pattuiti e buona parte dei fondi sono stati usati per sostenere artificiosamente il tipo di cambio col dollaro, invece di puntellare la debole economia argentina. Un mea culpa che spiega in parte certa flessibilità mostrata dall’organismo durante le negoziazioni con Buenos Aires e la disposizione a rivedere gli obiettivi stabiliti due anni fa, tenuto conto dei drastici cambiamenti del panorama economico mondiale e locale.
Ritoccati gli obiettivi sull’accumulo delle riserve dai 9,8 miliardi di dollari previsti originalmente per il 2024 a solamente 2 miliardi, l’Fmi rilascerà un nuovo pacchetto da 5,3 miliardi per coprire una tranche del debito del fallito piano di salvataggio dell’allora presidente Mauricio Macri, ma in cambio di nuovi tagli ai sussidi sull’energia e del raggiungimento della meta fiscale già accordata, che prevede di non sforare il 1,9% di deficit per quest’anno. Un traguardo che la maggior parte degli esperti in Argentina considera irraggiungibile. Solo nei mesi di gennaio e febbraio la siccità ha causato riduzioni nelle esportazioni agricole che significheranno una perdita di 15 miliardi di dollari per il fisco, mentre l’inflazione su base annua ha ormai superato il 100%, obbligando il governo a rivedere anche gli accordi salariali con i dipendenti pubblici e quindi ad aumentare le spese più del previsto.
Debito, inflazione e crisi sociale stanno facendo sfumare le già poche speranze di rielezione per l’attuale coalizione di governo e si moltiplicano le voci che propongono la dichiarazione di un nuovo default (bancarotta). Tra le soluzioni al drastico tracollo argentino si torna a parlare di Brics+: se hanno mantenuto gli scambi commerciali con la Russia nel pieno delle sanzioni per la guerra in Ucraina, perché non sostenerli con un’Argentina in bancarotta e tagliata fuori dal sistema di Bretton Woods?
Nemmeno le relazioni diplomatiche sembrano attraversare un momento del tutto positivo. Mercoledì il governo dell’Ecuador ha annunciato l’espulsione dell’ambasciatore argentino dopo che si è scoperto che l’ex ministra dei Trasporti – María de los Ángeles Duarte, condannata in patria a otto anni di prigione per corruzione e rifugiatasi nell’ambasciata argentina a Quito – era riuscita a raggiungere Caracas, dove ha chiesto lo status di rifugiata alla locale sede diplomatica argentina. Il governo di Guillermo Lasso accusa Buenos Aires di aver permesso la fuga di Duarte, che aggirando tutti i controlli delle autorità ecuadoriane ha messo in ridicolo l’esecutivo. Il presidente dell’Ecuador ripropone la vecchia dicotomia tra liberali e populisti in America Latina per alleviare le proprie responsabilità: così il suo omologo argentino Alberto Fernandez sarebbe complice dell’ex presidente della sinistra ecuadoriana Rafael Correa nel garantire l’impunità a Duarte d’accordo con il presidente venezuelano Nicolás Maduro.
Un intreccio degno forse del passato protagonismo continentale dell’Argentina, che oggi sembra davvero molto lontano.


ELEZIONI IN NIGERIA [di Luciano Pollichieni]

Entrambi i partiti sconfitti alle elezioni presidenziali in Nigeria hanno annunciato di voler fare ricorso contro i risultati delle votazioni che hanno sancito la vittoria di Bola Tinubu.
Lo svolgimento delle elezioni in Nigeria non è stato lineare. Del resto, come avrebbe potuto essere altrimenti? Con le regioni del nord-est oggetto delle scorribande di gruppi criminali, quelle nordoccidentali colpite dall’insurrezione dello Stato Islamico e violenze politiche diffuse, nessuno può biasimare la commissione elettorale indipendente (Inec) per non aver mantenuto gli standard garantiti. In secondo luogo, paradossalmente i ricorsi annunciati da Atiku Abubakar (candidato del People’s Democratic Party che ha raccolto il 29% dei voti) e da Peter Obi (Labour Party, 25,40% dei voti) non sono altro che il proseguimento per via giudiziaria di quella frammentazione geopolitica e identitaria che il processo elettorale ha semplicemente messo in luce.
Salvo colpi di scena, sempre dietro l’angolo nella politica nigeriana, sembra difficile che la Corte suprema possa ribaltare il risultato delle urne per almeno due motivi: primo, le obiezioni da parte degli sconfitti sono poco chiare, contraddittorie o molto generiche, come nel caso di Obi che ha denunciato un complotto ordito contro il suo partito senza spiegare da chi; secondo, l’imminenza delle prossime elezioni regionali. La Nigeria è chiamata sabato 18 marzo a eleggere 28 dei 36 governatori federali, incluso quello dello Stato di Lagos – feudo del presidente eletto Tinubu – e una pronuncia contro il risultato elettorale potrebbe generare una pericolosa reazione a catena di ricorsi anche nell’ambito delle regionali che getterebbero il paese nello stallo istituzionale, polarizzando ulteriormente l’elettorato.
Tra le numerose crisi interne e la richiesta ad Abuja da parte dei partners regionali e globali di un ruolo più proattivo nella geopolitica continentale e dell’Africa Occidentale, l’idea di un paese paralizzato per un mese in vista della pronuncia della Corte suprema non appare incoraggiante. Le elezioni vanno avanti, ma della nuova classe dirigente non c’è ancora traccia.

Carta di Laura Canali - 2017

Carta di Laura Canali – 2017


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Fonte: https://www.limesonline.com/notizie-mondo-questa-settimana-guerra-ucraina-russia-putin-cpi-ue-terre-rare-francia-cina-aukus-argentina-fmi-nigeria/131529

 

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