IL CONSERVATORISMO COME IDEOLOGIA NAZIONALE DELLA RUSSIA DI OGGI

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QUINTA COLONNA

di Lorenzo Berti

Accusata di essere ‘fascista’ dalla sinistra e ‘comunista’ dalla destra. Al di là di ogni fuorviante banalizzazione andiamo ad analizzare il retroterra ideologico e culturale della Russia di oggi.

Archiviato traumaticamente il periodo comunista sovietico, la Russia degli anni ’90 è stata velocemente catapultata nel mondo del liberal-capitalismo. Il ‘sogno’ della democrazia si è però ben presto tramutato in incubo fatto di povertà, disuguaglianze sociali, banditismo e degrado morale. A porre un freno alla decadenza della neonata Federazione Russa arrivò Vladimir Putin, l’Uomo della Provvidenza.

Funzionario del Kgb in epoca sovietica ma anche fervente ortodosso, comincia a fare politica a San Pietroburgo con l’élite liberale grazie alla quale giunge al potere nel 1999. La sua caratteristica principale fin dall’inizio è quella di essere un uomo d’ordine. “La Russia ha esaurito la sua quota di rivoluzioni” e “il benessere di un popolo dipende primariamente dalla stabilità”, afferma. Tutti gli sforzi di Putin nei suoi primi anni al Cremlino sono concentrati verso la necessità di restaurare un ordine interno. Ci riesce pacificando la Cecenia, ristabilendo l’autorità statale e mettendo fine al saccheggio delle ricchezze pubbliche da parte dei gangster assurti al ruolo di oligarchi. Una volta fatto ciò occorreva costruire una nuova ideologia sulla quale posare le fondamenta dello Stato.

Quasi sempre i cambiamenti nella società russa sono avvenuti in modo repentino e violento: la modernizzazione in senso europeista voluta da Pietro il Grande, la rivoluzione bolscevica, il crollo dell’Unione Sovietica. Si avverte quindi un naturale bisogno di trovare stabilità e unità. In quest’ottica Putin definisce il patriottismo come “l’unica ideologia possibile nella società moderna”. Secondo l’ex-diplomatico Luca Gori, autore dell’ottimo volume La Russia eterna[1], “l’obiettivo strategico consisteva nel dotarsi di un’articolata piattaforma di valori coerenti con la tradizione storica della Russia in cui tutti i cittadini potessero riconoscersi”. In un certo senso possiamo dire che

L. Gori, “La Russia eterna”, Luiss.

Putin ha innalzato ad ideologia la Russia stessa, rappresentata come civiltà unica, indipendente e immutabile, unita da un filo identitario che partendo dalla Rus’ di Kiev e passando per Impero zarista e Unione Sovietica arriva fino all’odierna Federazione Russa. Il tutto costellato da una serie di imprese eroiche da celebrare, come le battaglie di Aleksandr Nevskjj, la resistenza all’invasione napoleonica, l’assedio di Sebastopoli, la vittoria nella Grande Guerra Patriottica e oggi la difesa del Donbass. Indicativa dal punto di vista simbolico è la scelta di Putin di tornare all’inno sovietico cambiandone però le parole. Non stupisce pertanto ascoltare il Presidente russo tessere le lodi degli Zar conservatori Nicola I e Alessandro III ma anche del leader comunista Josef Stalin, al quale viene riconosciuto il merito di aver tutelato l’ordine e l’integrità dello Stato conducendo il popolo alla vittoria nella Seconda Grande Guerra Patriottica. Nessuna rivalutazione invece della figura di Lenin, colpevole con il suo estremismo di aver portato alla dissoluzione dell’Impero zarista.

L’ideologia nazionale che si sta formando in Russia è antitetica rispetto al liberalismo dominante in Occidente. “L’idea liberale è diventata obsoleta. È entrata in contrasto con gli interessi della stragrande maggioranza della popolazione. I valori tradizionali sono più stabili e più importanti per milioni di persone dell’idea liberale”, spiega in modo chiaro e perentorio Vladimir Putin in un’intervista al Financial Times nel 2019. La questione dell’incompatibilità tra Russia e democrazia è da tempo oggetto di discussione per i politologi. Le ragioni a sostegno di questa tesi sono molteplici: l’eredita storica bizantino-mongola, la forte influenza della religione Ortodossa, l’isolamento geografico e l’enorme estensione territoriale, il carattere multietnico e multireligioso della popolazione, il costante senso di accerchiamento e di minaccia dovuto alla mancanza di confini geografici naturali e alle numerose invasioni subite, l’isolamento nelle relazioni internazionali (“Gli unici alleati della Russia sono il suo esercito e la sua flotta” secondo lo Zar Alessandro III). Ma ci sono anche importanti motivazioni di carattere culturale.

Non esiste nessun ‘culto della libertà’ in Russia simile a quanto invece vi è in Occidente. Lo scrittore Nikolaj Berdjaev sostiene che “non c’è nulla di più tormentoso per

Nikolaj Aleksandrovič Berdjaev (1774-1948)

l’uomo della libertà”. L’individualismo è elemento completamente estraneo alla mentalità ortodossa che invece attribuisce un valore positivo alla sofferenza e al sacrificio. “Il piccolo borghese è incompatibile con il carattere russo e ringraziamo Dio per questo” scrive il filosofo Georgij Fedotov. Anche l’iniziativa economica privata e la cultura imprenditoriale non sono mai state molto incoraggiate. Per tutti questi motivi i liberali in Russia non sono mai riusciti a coinvolgere le masse, dalle quali vengono percepiti come un élite esterofila quando invece il prerequisito necessario per aspirare ad una carriera politica è essere un patriota. Anche nello scenario politico odierno i liberali filo-occidentali alla Navalny hanno un peso politico del tutto irrilevante e la principale opposizione al partito di governo ‘Russia Unita’ è rappresentata dal Partito Comunista (KPRF).

La Russia è una delle poche nazioni sviluppate nel mondo di oggi dove l’egemonia culturale è saldamente in mano ai conservatori. A conferma di ciò l’approvazione plebiscitaria della riforma costituzionale in senso sovranista e conservatore voluta dal Putin nel 2020. Nella nuova costituzione viene introdotto il riferimento alla fede spirituale in Dio come fondamento della nazione, si definisce esplicitamente il matrimonio come unione tra un uomo e una donna (chiudendo quindi a qualsiasi possibile rivendicazione Lgbt), si afferma la preminenza del diritto nazionale rispetto a quello internazionale e si fa divieto di ricoprire cariche politiche a chi possiede la doppia cittadinanza (ovvero quasi tutti gli oligarchi filo-occidentali).

La Russia secondo i conservatori non deve ricalcare modelli di sviluppo provenienti dall’esterno ma svilupparsi in base ai suoi specifici valori. Per farlo occorre sapersi difendere da attacchi e ingerenze esterne, sia dal punto di vista militare che spirituale. “La fede tradizionale e lo scudo nucleare sono due cose che rafforzano lo Stato russo e creano le condizioni necessarie per garantire la sicurezza dentro e fuori il paese”, parole di Vladimir Putin. La convinzione dell’unicità e della predestinazione del popolo russo trae ispirazione tra le altre cose anche dal mito della ‘Terza Roma’. Ivan IV durante la sua incoronazione proclamò: “Due Rome sono cadute ma non Mosca. E non vi sarà una quarta Roma”. La Russia come erede degli imperi romano e bizantino, ultimo baluardo contro la sovversione anticristiana.

La base ideologica di partenza del conservatorismo russo è la famosa triade di Uvarov “Ortodossia, Autocrazia, Nazionalità”, ma facendo un analisi più approfondita si possono distinguere correnti di pensiero differenti al suo interno. C’è un conservatorismo liberale, più moderato, che contempla la possibilità un giorno di costruire un sistema democratico anche in Russia. Il conservatorismo sociale focalizza la sua attenzione verso il rafforzamento dell’assistenza paternalistica da parte dello Stato ai suoi ‘figli’ più deboli e bisognosi di aiuto. Gli etnonazionalisti sostengono la centralità dei russi etnici rispetto agli altri popoli che compongono la Federazione Russia, contestano l’accoglienza di immigrati provenienti dalle repubbliche asiatiche ex-sovietiche e talvolta sposano l’idea del politologo Vadim Cymburskij di una ‘Isola Russia’ che limiti il

Aleksandr Gelʹevič Dugin, 61 anni.

suo raggio d’azione alla tradizionale sfera di influenza regionale senza sfidare apertamente l’egemonia mondiale americana. C’è poi un conservatorismo ortodosso, per cui Stato e Chiesa devono formare una perfetta ‘sinfonia’, contraddistinto dall’attenzione verso le politiche a favore della famiglia e di contrasto ad aborto e diritti Lgbt. Anche i conservatori ortodossi nutrono una forte ostilità verso il modello globalista statunitense. Secondo il politico Egor Kholmogorov “l’America si è trasformata in un aggressivo califfato Lgbt, fondamentalmente in nulla diverso dal califfato islamico”. Infine ci sono i conservatori eurasisti secondo cui “la Russia non è né Europa né Asia ma uno specifico mondo geografico chiamato Eurasia”. Uno dei più noti esponenti di questa corrente è il filosofo Aleksandr Dugin, teorico della ‘Quarta Teoria Politica’ che parte dal superamento delle tre più diffuse ideologie politiche (liberalismo, comunismo e nazionalismo) per elaborare una nuova sintesi. Alla democrazia liberale Dugin contrappone la ‘democrazia organica’ in cui non risulta importante tanto l’architettura istituzionale quanto invece la capacità del Capo di essere in sintonia con il popolo. Analogamente a livello geopolitico contrappone l’Eterna Roma, ovvero la Russia erede degli imperi che poggiavano la loro forza sullo Stato e la spiritualità, all’Eterna Cartagine, rappresentata dagli Stati Uniti con la loro essenza individualistica e materialistica. Uno scontro eterno e metafisico che non può essere eluso.

Lorenzo Berti

[1] L. Gori, La Russia eterna. Origini e costruzione dell’ideologia postsovietica, Luiss University Press, Milano 2021.

Fonte: https://domus-europa.eu/2023/01/20/il-conservatorismo-come-ideologia-nazionale-della-russia-di-oggi-di-lorenzo-berti/

Ecco come difendersi dal politicamente corretto: i limiti dell’ideologia che ci schiaccia in nome del bene

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di Stenio Solinas

Fonte: Il Giornale

Per capire che cosa sia il politicamente corretto, oggetto di questo agile pamphlet di Paola Mastrocola & Luca Ricolfi (Manifesto del libero pensiero, La nave di Teseo, 127 pagine, 10 euro), bisogna fare un passo indietro, sino all’Italia anni Sessanta, quando, ci dicono i due autori, la censura stava a destra e la libertà di espressione era di sinistra. È una dicotomia molto, forse troppo schematica, ma rende l’idea, nel senso che c’era una cultura dominante conservatrice, bigotta per molti versi, autoritaria nelle famiglie come nella società. Erano i retaggi del culturame caro da un lato all’onorevole Mario Scelba, Dc, delle intemerate del Pci contro l’arte d’avanguardia e la corrotta classe borghese dall’altro. In sostanza, c’erano due chiese intellettuali che si contendevano l’egemonia ideologico-politica del Paese, ma che celebravano la stessa messa puritana e insieme ipocrita. Ciò che rimaneva fuori da un simile connubio, erano un po’ di spiriti liberi, liberali e libertini, un po’ di borghesia controcorrente e bastian contraria, qualche scrittore, pittore o regista eterodosso e, insomma, un insieme di singole voci che facevano da controcanto al coro conformista egemone sulla scena.
Il ’68 e dintorni, ovvero la contestazione, aprirono una crepa in questa costruzione, apparentemente massiccia, e di fatto la fecero franare. Non era un fenomeno italiano, ma internazionale, segnava l’ingresso nella storia della prima generazione interamente postbellica, nonché il compimento di una società industriale e di massa all’insegna della tecnica e del consumo. Il suo affermarsi esigeva il rifiuto delle regole e delle autorità prima esistenti, il vietato vietare, insomma, con cui ogni libertà, in ogni campo, doveva essere garantita. Da una mentalità dominante conservatrice si passò a una mentalità dominante progressista e/o liberatrice.
È allora che, quasi insensibilmente, scrivono Mastrocola & Ricolfi, comincia l’uso del politicamente corretto, ovvero una sorta di legislazione del linguaggio, un’ansia e una bulimia di ribattezzare e in qualche modo santificare il nuovo corso delle cose e insieme fare tabula rasa del passato. Il suo assunto di base è che siano le parole a generare i comportamenti, un assunto paradossale se si pensa che nasce all’interno di una corrente di pensiero per la quale erano sempre state le condizioni sociali, ovvero materiali, a generare tanto le idee quanto le azioni. Il passo successivo è che il linguaggio si fa etico, non nomina più le cose, ma le connota moralmente: Lo spazzino o il netturbino diventano operatori ecologici, così come i bidelli operatori scolastici e i becchini operatori cimiteriali. Ciò che sino al giorno prima era neutro, viene caricato di un valore spregiativo/regressivo e corretto appunto in modo ritenuto giusto e quindi positivo. Poco importa, naturalmente, se le condizioni di lavoro rimangono le stesse
Nel tempo la colonizzazione del politicamente corretto si estende a tutti i gangli della società. Lo fa ipocritamente, perché affetta un rispetto verbale che, per esempio, nobilita i vecchi trasformandoli in anziani o nella ribattezzata terza età, continuando però a trattarli sempre nello stesso modo, espellendoli cioè brutalmente dalla società. Lo fa anche spregiativamente, perché contrappone al linguaggio comune, trasformato in reazionario e retrogrado, il linguaggio ufficiale dell’élite, un codice linguistico di cui viene sorvegliato, se non addirittura imposto, il rispetto. Il risultato finale è che il linguaggio ufficiale, cadaverico , stando alla bella definizione di Natalia Ginzburg ancora alla fine degli anni Ottanta, si fa censorio nel suo imporre un conformismo linguistico che è anche un conformismo ideologico, chiudendo così il cerchio.
Nel loro pamphlet, Mastrocola & Ricolfi esaminano anche il politicamente corretto applicato persino alle convenzioni del linguaggio, alle regole dell’ortografia e della grammatica, dalla stigmatizzazione dell’uso neutro del pronome maschile, all’utilizzo del cosiddetto schwa, sino alla comica finale di chi vuol ribattezzare history con herstory, come se quell’ his iniziale sia un pronome possessivo maschile anglosassone e non una derivazione greca istoria, o latina historia Nessuno sembra accorgersi, dicono, che un conto è una lingua che cambia nel tempo, come è sempre stato, un processo di evoluzione spontanea che avviene dal basso, e un conto è «la deriva della lingua» imposta dall’alto: «Solo i regimi totalitari hanno questa pretesa, in spregio al comune sentire delle persone».
Come ogni settarismo, il politicamente corretto non ha il senso del ridicolo. Non si spiega altrimenti come un’associazione animalista e ambientalista sia potuta insorgere contro una canzoncina di Cochi & Renato, La gallina, ormai vecchia di mezzo secolo, considerandola «un insulto verso i polli e le galline». «Allora il rispetto degli animali non esisteva» hanno concesso i censori, ma adesso è ora di ridare ai pennuti la considerazione che meritano.
Applicato in campo artistico, il politicamente corretto altro non è che un bavaglio etico. Se si va a guardare il contenuto medio, in letteratura come al cinema, della nostra arte contemporanea, si vedrà che è cronachistico e angusto allo stesso tempo: ci sono i migranti e c’è l’orgoglio femminile, le minoranze etniche e i bambini in guerra, vari tipi di diversità, avvocati e giornalisti eroici contro la mafia, avvocati e giornalisti corrotti dalla mafia. È una sorta di nuovo realismo socialista, dove non ci sono più personaggi, ma esemplari, non più individui, ma rappresentanti. Scompare la complessità del reale, non c’è più spazio per l’ambivalenza e la dialettica del bene e del male. Come notano Mastrocola & Ricolfi, siamo di fronte a un’arte «che compiace. Liscia il pelo. Non va controvento. Non è più alterità». È insomma «un’arte pedagogica, che dà voce alle idee dominanti per convincere tutti della bontà di quelle idee. Asservita, allineata, ammaestrata. Mai veramente spiazzante,m ai capace di stupire, interrogare, indicare altri orizzonti».
C’è di più. In quanto arte neo-impegnata nel nome del bene, automaticamente è solo lei l’arte giusta, quella che promuove i valori buoni. Chi non la pensa allo stesso modo, non si limita a pensarla diversamente: più semplicemente è il villain, il cattivo, il male. Nessun dialogo è possibile, nessun confronto auspicabile. Il finale di partita è il bullismo etico.

Lgbt: scontro tra ideologia, propaganda e leggi

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Segnalazione Corrispondenza Romana

di Mauro Faverzani

È una lettera aperta, ma non firmata quella con cui diversi dipendenti della Disney hanno accusato l’azienda d’aver assunto e fatto propria una politica «progressista», che avrebbe di fatto imposto all’interno un «ambiente di paura» per quanti non vi si adeguino. La singolare denuncia, ripresa dall’agenzia InfoCatólica, non nasconde le difficoltà e l’inquietudine serpeggianti tra il personale: «La Walt Disney Company è diventata un posto di lavoro sempre più scomodo per quelli di noi le cui opinioni politiche e religiose non siano esplicitamente progressiste – si legge –. Guardiamo in silenzio, mentre le nostre convinzioni vengono attaccate dal nostro stesso datore di lavoro e spesso vediamo coloro che condividono le nostre opinioni bollati come cattivi dal nostro management».

Recentemente l’azienda, assieme ai suoi principali marchi quali Espn National Geographic, aveva espresso solidarietà al mondo Lgbtqia+ dopo il varo della legge statale, che vieta agli insegnanti di affrontare in classe questioni quali l’orientamento sessuale e l’identità di genere prima della terza elementare. Secondo i dirigenti della Disney, tale legge violerebbe «i diritti umani fondamentali» e l’azienda, secondo loro, avrebbe dovuto fare di più per evitarlo.

La lettera aperta dei dipendenti invece specifica come quelli tra loro «che vogliono che la Walt Disney Company faccia dichiarazioni politiche di sinistra vengono incoraggiati, mentre quelli che vogliono che l’azienda rimanga neutrale possono dirlo solo sottovoce per paura di rappresaglie professionali. Questa politicizzazione della nostra cultura aziendale sta danneggiando il morale e fa percepire a molti di noi che i nostri giorni nella Walt Disney Company potrebbero essere contati». Un clima molto pesante, quello instaurato internamente, in base a quanto par di capire dalle parole degli autori di questa missiva, che hanno peraltro chiesto agli altri dipendenti, agli azionisti ed ai clienti della Disney di dar loro solidarietà, supportando la loro richiesta di neutralità, probabilmente gradita anche alla stragrande maggioranza del pubblico, che ad un’azienda come questa chiede di curare l’intrattenimento, non di far politica.

Intanto, l’Arizona e l’Oklahoma hanno approvato leggi, denominate «Save Women’s Sports Act», che impediscono a quanti si proclamino transgender di iscriversi alle gare sportive per donne, adeguandosi a quanto già legiferato in merito in Texas, Alabama, Iowa e Mississippi. In particolare, l’Arizona ha approvato anche altre due normative, una che vieta per i minori la chirurgia mirata ad un riorientamento di genere, l’altra che vieta in tutto lo Stato gli aborti dopo la quindicesima settimana di gestazione con multe per i trasgressori fino a 10 mila dollari, nonché con la revoca o almeno con la sospensione della loro licenza.Dall’altra parte del mondo, intanto, in Senegal, ai primi di gennaio l’Assemblea Nazionale ha respinto un progetto di legge, finalizzato a modificare il paragrafo 3 dell’art. 319 del codice penale, per incrementare i provvedimenti già previsti contro qualsiasi atto definibile «contro natura», dall’omosessualità alla transessualità, dalla necrofilia alla zooerastia, tutti posti sullo stesso piano. La proposta era quella di portare da 5 a 10 anni di reclusione il massimo della pena, nonché di aumentare la relativa sanzione da 2.287 a circa 7.600 euro. Secondo Aymérou Gningue, presidente della maggioranza parlamentare «Benno Bokk Yakaar», si tratterebbe di un «falso dibattito» dal sapore elettoralistico, secondo invece gli 11 deputati firmatari della proposta, per la maggior parte dell’opposizione, guidati da Mamadou Lamine Diallo, l’appello avrebbe fatto eco «alle legittime preoccupazioni della stragrande maggioranza» dei cittadini «di questo Paese, nonché di molte autorità religiose». Si prevede che la decisione dell’Assemblea Nazionale non blocchi i promotori dell’iniziativa, pronti a ripresentare la proposta – od un’altra analoga – in aula, all’attenzione di tutti i deputati.

 

La sinistra Maneskin

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QUINTA COLONNA

di Ugo Boghetta 

Fonte: Ugo Boghetta

Sinistrati contro sinistrati (seconda parte)

Nella prima parte sono stati riassunti gli interventi ed il senso del dibattito rilanciato in Italia dopo l’articolo apparso sull’Economist contro la cosiddetta sinistra illiberale.
Si potrebbe pensare che sia un argomento futile o solo incipiente. Ma le cose non stanno così. Sono temi forti e che fanno già parte della nostra quotidianità sociale, politica e culturale.
Prima di proseguire, tuttavia, va premesso che il testo originario, e quasi tutti gli interventi, partono dall’assunto che il liberalismo classico sia buono, coerente e vero. Ma così non è. Che il mercato non funzioni come miglior allocatore di risorse  è un fatto. Così è per la libera iniziativa e la concorrenza che dovrebbero creare ricchezza per tutti. A fronte di una potenza tecnologica mai raggiunta invece assistiamo da decenni ad aumenti esponenziali di povertà e differenze. Inoltre, Il rapporto fra democrazia e liberalismo è  stato sempre problematico: oggi è di opposizione. Che il liberalismo poi non sia violento è una totale falsità. Il liberalismo è stato  violento nel nazionalismo quanto nella globalizzazione. Anche all’interno dei singoli stati il liberalismo è sempre stato violento, ma al coperto delle istituzioni. Gli ossimori sono dunque  tanti. L’ultimo è lo statalismo antistatale. Ora è buon il deficit ma si va verso altre privatizzazioni ed esternalizzazioni. I buchi della Pubblica Amministrazione vengono coperti con precari per attuare il piano della Next Generation (!?): poi tutti a casa. Alla fine avremo uno Stato ulteriormente spolpato: una carcassa. Ma come diceva Walter Benjamin, il capitalismo è una religione … e le religioni non sono confutabili. Serve altro. A chi comunque volesse approfondire l’argomento consiglio il libro di Andrea Zock: “Critica della ragione liberale”.
Il dibattito invece ha due scopi molto chiari: unire i liberali, ripulire e propagandare il nuovo capitalismo: buono, digitale, verde, inclusivo.
Ritornando alla questione, va detto che molti fatti dimostrano che il rapporto fra impianto liberale e la cosiddetta sinistra illiberale non è chiaro, spesso si confonde, a volte sono la stessa cosa. Come evidenzia Carlo Galli.
Prendiamo l’immigrazione. I sinistrati pensano  che l’immigrazione  non debba essere regolamentata e i confini controllati. Ciò avviene a causa di un approccio moralistico cui non è secondario il senso di colpa del passato colonialismo e di un certo pauperismo terzomondista. Mentre non c’è quasi nessuna attenzione al colonialismo odierno fatto di globalizzazione e finanza con le loro guerre e rapine a bassa e alta intensità. Le terribili ed anche tragiche vite dei migranti andrebbero riferite a queste cause proponendo cambiamenti politici strutturali. Altrimenti, ad esempio, l’immigrazione peggiora le condizioni dei paesi da cui si fugge. Invece, si sostiene che al diritto (giusto) ad emigrare corrisponda un ugual diritto ad entrare in un  qualsiasi paese senza permesso. Chi pensa invece che l’immigrazione debba essere controllata e compatibile con la situazione sociale, politica e culturale di un paese,  è definito fascista. Eppure questo approccio è molto più coerente con le posizioni della sinistra quando questa era tale.
Sostenere la stessa idea di patria, fonte della Costituzione e per cui i partigiani combatterono, è fascismo. Sostenere un’idea diversa dall’Unione Europa e della moneta unica che tenga conto delle differenze fra nazioni e popoli, è fascismo.
Ormai il termine fascista è una condanna onnipresente.
Anche chi non vuole vaccinarsi è un fascista!? Con questo approccio, tutti gli errori commessi nella gestione del Covid, sono coperti. Coloro che sollevano problemi e criticità ragionevoli sono sono bollati. Così diventa impossibile discutere criticamente di una situazione che non è una dittatura, ma colpevole improvvisazione sanitaria. Cui non è secondaria una strumentalizzazione politica atta a tener incollata una maggioranza che senza l’emergenza non starebbe insieme un minuto. La comunicazione propagandistica di stampo bellico, dunque, è già un esempio di quel conformismo soffocante denunciato come pericolo solo potenziale da Alessandro De Nicola. C’è da dire che anche la parte opposta no vax e no mask ha lo stesso atteggiamento.  Anche questi  ritengono che il green pass sia fascismo. Del resto, anche questo movimento ha un’impronta ideologica non certamente opposta  al liberalismo.
Il ddl Zan è l’ultimo esempio del mazzo.  Se la proposta infatti non è passata, è perché al fondo c’è una impostazione radicale e settaria tipica delle nuove filosofie transgenders la cui purezza non può essere messa in discussione: o con loro .. o fascisti. Ma la colpa di quanto avvenuto non è di qualche sinistra illiberale ma proprio del PD: partito fulcro del liberalismo.
Tutti fascisti dunque. Le sinistre, l’una impotente stante la stasi della lotta di classe su vasta scala, l’altra votata ai nuovi orizzonti liberali, cercano conferma di appartenenza e verginità perdute nei tempi che furono:  fascismo/antifascismo. È una follia. Così non si alimenta altro che una visione paranoica. I fascisti sono quattro gatti anche se, come sempre, buoi per tutti gli usi. Ed il capitalismo non ha bisogno di fascismo. Non ha nemici esterni. Il nemico è esso stesso. Il  capitalismo ha solo bisogno di girare senza sosta. Se si ferma è perduto. Ha bisogno di nuove occasioni di profitto, nuove culture, consumi selettivi, diversificazione dei bisogni e personalizzazione delle merci. Lo spettro del controllo non è politico ma è intrinseco al mercato ed alla digitalizzazione.
In effetti, il pensiero liberale è in crisi dal 2008. Ora la soluzione sarebbe il Grande Reset. E così si cercano sponde un po’ ovunque: il virus, i transgenders, i giovani contro il riscaldamento globale. Ma differenza di Galli, penso che non siamo all’estremismo infantile ma a quello senile.
Tuttavia, tante questioni sollevate siano questioni reali e discriminazioni in atto. Discriminazioni che trovano anche riscontro nella lingua e nei simboli. Che il conflitto avvenga e debba avvenire anche su linguaggi e simboli non ci piove. Ma sono i contenuti, le impostazioni, le proposte  ad essere sbagliate, a volte assurde o anche ridicole. Pensare di migliorare il mondo creando discriminazioni alla rovescia secondo faglie di genere o etnie è da condannare e da combattere.  Le discriminazioni e le contraddizioni continuerebbero ad agire a prescindere. Tutto porta alla solito gattopardismo: che tutto cambi perché nulla cambi. L’operatore ecologico cui è stato cambiato nome, ora è più precario di quanto si chiamava spazzino. Parimenti non è condivisibile la visione del mondo attinente la questione di genere. Visione che, peraltro, vede opinioni diverse anche all’interno dello stesso campo femminista. Si può infatti essere per il concetto binario maschio/femmina senza avvallare  discriminazioni. Assolutizzare poi l’atomo-individuo porta ad una società parossistica è sempre più inevitabilmente nichilista. E l’ambiente non si salverà certo solo con più tecnologia poiché il problema è il rapporto fra specie umana e natura.
Il fatto è che l’assenza sostanziale di un proposta alternativa post-capitalista lascia tutto il campo ad un ideologia unica liberal-liberista pur piena di sfumature. Ma, appunto, si tratta di sfumature, parzialità, frammenti, frattaglie.

Tendenze totalitarie odierne: la gender theory

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di Gennaro Scala

Fonte: Gennaro Scala

È soprattutto oggi il mondo cattolico ad accusare di totalitarismo la gender theory. Riteniamo che la consapevolezza dei pericoli che essa comporta debba essere patrimonio anche dei non cattolici. Pur non condividendo per nulla i principi su cui si basa l’educazione infantile cattolica, tuttavia essa non è definibile come totalitaria, perché non mira quella radicale ridefinizione dell’essere umano come invece vorrebbe la gender theory. Detto senza mezzi termini: voler cancellare l’identità maschile/femminile è un’aspirazione totalitaria. Ma vediamo quali sono le radici di tali tendenze.

Quanti hanno affrontato la questione del totalitarismo, in primo luogo Hannah Arendt, hanno effettuato un’omissione, non hanno indagato a fondo le radici del totalitarismo, che sono da ricercare nello stato liberale classico, trasformando il concetto di totalitarismo, nonostante gli elementi di verità, in uno strumento propagandistico del liberalismo. Il regime totalitario non è un nuovo regime (come vuole Arendt), ma è il funzionamento dello stato moderno in condizioni di crisi: in una fase di mobilitazione totale per la guerra totale, come nella Germania nazista; in una fase di modernizzazione accelerata come fu l’Unione Sovietica staliniana. La rivoluzione sovietica, vista con il senno di poi, non fu una rivoluzione “proletaria”, ma, per la classica eterogenesi dei fini, l’estensione dello stato moderno al di fuori dell’occidente, in seguito diventato egemone a livello globale come principale forma di organizzazione delle società. All’obiezione prevedibile secondo cui la rivoluzione sovietica nominalmente comunista intendeva proprio eliminare lo spazio dell’iniziativa privata, rispondiamo che vista nel ciclo lungo, ha portato, dopo la fase staliniana della costruzione dello stato russo moderno, al ripristino dello spazio privato dopo il crollo del comunismo. Non è questo il luogo per approfondire tali questioni, spero però sia sufficiente a mettere in discussione il modello propagandistico dei “due totalitarismi”, fascismo e comunismo, a cui si contrappone il regno della libertà liberale, perché tale modello ci rende ciechi rispetto alle tendenze totalitarie odierne che nascono dal seno del neo-libealismo.

Il totalitarismo ha come presupposto l’enorme concentrazione del potere coercitivo che caratterizza lo stato moderno, rappresentato dallo stato liberale classico. Abbiamo una polarizzazione tra concentrazione del potere coercitivo dello stato e individualismo: perché si affermi una sfera della libertà privata in cui l’individuo possa svolgere “liberamente” la sua attività è necessario che lo stato concentri il potere relativo alla sfera pubblica. È questa principalmente la ragione del successo dello stato moderno: dando vita ad una sfera della “libertà privata” ha dato grande impulso all’iniziativa economica privata, la quale si traduce in ricchezza, sviluppo economico, tecnico e scientifico e quindi in potenza dello stato.

Tale concentrazione del potere coercitivo che caratterizza lo sviluppo dello stato moderno dal ‘500 ad oggi (vedi in merito i fondamentali studi di Charles Tilly), comporta la progressiva distruzione delle “comunità intermedie”, quella “furia del dileguare” che Hegel attribuiva alla sola rivoluzione francese, ma che è in realtà una caratteristica propria dello stato moderno in quanto tale. La libertà nello stato moderno è essenzialmente libertà di perseguire il proprio interesse, a differenza della libertà nel mondo antico greco-romano che era la libertà di partecipare alla sfera pubblica, secondo l’intramontabile definizione di Benjamin Constant.

Il sistema parlamentare è interno alla concentrazione del potere dello stato, come osservò Tocqueville la rivoluzione francese conservò ed estese la concentrazione dei poteri ereditata dall’assolutismo. Come ebbe a scrivere Kant in un passo illuminante: “Che cos’è un monarca assoluto? È quello che, se dice: “Guerra sia”, è subito guerra. – Che cos’è viceversa un monarca limitato? Colui che prima deve chiedere al popolo se ci debba essere o no la guerra; e se il popolo dice “Non ci dev’essere guerra”, allora non viene fatta. – La guerra, infatti, è una condizione in cui tutte le forze dello stato devono stare agli ordini del suo capo supremo. Ora, le guerre che ha condotto il monarca britannico senza chiedere alcun consenso su ciò sono davvero molte. Perciò tale re è un monarca assoluto, cosa che in base alla costituzione egli non dovrebbe essere; la quale, invece, si può sempre aggirare, proprio perché attraverso quei poteri dello stato può assicurarsi il consenso dei rappresentanti del popolo, dato cioè che egli ha il potere di affidare tutti gli uffici e gli onori. Per avere successo, un tale meccanismo di corruzione non ha certo bisogno della pubblicità. Perciò rimane sotto il velo, molto evidente, del segreto.” A noi moderni sembra addirittura inconcepibile che la guerra possa davvero essere decisa democraticamente, ma così avveniva nella antica Roma repubblicana.

Pur restando formalmente democratica, con la democrazia parlamentare moderna, si afferma una relativa democratizzazione, che tempera le tendenze distruttive del sistema, dettata soprattutto dalla necessità di includere la popolazione a cui si richiede il servizio di leva, democratizzazione che riguarda soprattutto forme di garanzie sociale più che di effettiva partecipazione politica. Sono proprio queste forme di garanzie che mira a distruggere il neo-liberismo che si accompagna ad un evento che segna un cambiamento strutturale: l’abbandono della leva di massa.

La distruzione delle comunità intermedie è solo tendenziale, in quanto una vita a-comunitaria, cioè a-sociale non è vivibile, per cui da un lato abbiamo il sistema delle pseudo-comunità (come notava Costanzo Preve), altre forme comunitarie invece sussistono seppure in forme menomata e abnorme qual’è la famiglia “mononucleare” odierna. Ma se non contrastata da altre forze, la tendenza dello stato moderno, in quanto animato da un’illimitata volontà di potenza, è quella di distruggere ogni forma di comunità, e questo si verifica sia all’interno dello stato, che nei rapporti inter-nazionali dove l’imperialismo occidentale a guida statunitense mira virtualmente a distruggere ogni forma di aggregazione statuale.

Grande merito di Louis Dumont è l’aver mostrato (Saggi sull’individualismo) come la stessa ideologia razziale hitleriana vada vista come una delle multiformi manifestazioni dell’individualismo moderno (il quale, v ripetuto, è inseparabile dalla concentrazione del potere dello stato): al venir meno delle forme tradizionali di identità culturale e religiosa, l’ideologia razziale supplisce con una forma di identità meccanica, pseudo-scientifica, sulla base di creazione di “razze” pseudo-biologiche. Secondo Dumont, quindi, la teoria razziale è un modo per creare una pseudo-identità in un mondo in cui l’individualismo ha distrutto le identità religiose e culturali.

La polarizzazione tra concentrazione del potere coercitivo da parte dello stato e creazione di una sfera privata in cui l’individuo è libero di perseguire il suo interesse è il funzionamento normale del sistema. L’intrusione in questa sfera da parte dello stato è l’anomalia costituita dal totalitarismo, il quale è essenzialmente la rottura del patto che costituisce la sfera della libertà privata. Ma è proprio questa polarizzazione che crea la possibilità di questa intrusione, perché l’individuo è di fatto solo di fronte lo stato, e sta solo a quest’ultimo “rispettare il patto”. Dal momento che l’individuo ha consegnato (secondo il modello hobbesiano) ogni potere allo stato, di fronte a esso è di fatti senza difese.

Con l’egemonia del capitalismo manageriale statunitense abbiamo una trasformazione: oltre alla concentrazione del potere coercitivo abbiamo la concentrazione del potere spirituale o ideologico. Essa, secondo gli studiosi della Scuola di Francoforte e affini, come Bruno Bettelheim, comportava strutturalmente un intervento nella vita individuale che minava la sfera della libertà individuale, cioè una tendenza totalitaria insita nel sistema stesso.
Questa precisazione riguardo alle trasformazioni dello stato sul modello egemone statunitense è importante perché è nell’ambito dei mass media che le lobby gay hanno un deciso radicamento, mentre dal mondo accademico viene la definizione teorica del concetto di gender. Complessivamente si tratta di una teoria elaborata e diffusa dal ceto medio semicolto (su tale blocco sociale vedi il mio Origini del ceto medio semicolto). Dai media viene il martellamento per quanto riguarda il politicamente corretto, chi non è d’accordo in merito a determinate politiche viene additato come omofobo o femminicida, a seconda dei casi, per quanto riguarda la famiglia, o come razzista per quanto riguarda l’immigrazione.

Per evitare ogni equivoco “complottista”, chiariamo che non c’è nessun ufficio segreto che pianifica occultamente la distruzione della famiglia, si tratta di dinamiche che insorgono all’interno del sistema di rapporti sociali. Dal momento non vi è più una normale riproduzione del sistema, siccome la famiglia normale con prole richiede un livello di integrazione sociale che l’attuale sistema di rapporti occidentale non fornisce più, vengono propagandate le “famiglie alternative” (di conseguenza acquisiscono peso le lobby gay radicate nei vari media) e così al posto dei diritti sociali (garanzie sulla continuità del lavoro, sistema pensionistico, sanità, istruzione) abbiamo i diritti individuali, cioè un’espansione della sfera della libertà individuale, in special modo la sfera sessuale, nell’ambito della quale virtualmente l’individuo è libero di fare tutto. Una libertà a costo zero per lo stato che si espande a scapito della socialità dell’essere umano.
È in questa crisi di sistema che si manifestano le tendenze totalitarie che caratterizzano le teorie gender. Se il paragone tra il totalitarismo nazista e le tendenze totalitarie odierne può sembrare azzardato, invitiamo a considerare questo passo da Il cuore vigile di Bruno Bettelheim:

«Quando il controllo esterno, in una forma o nell’altra, raggiunge finalmente l’intimità dei rapporti sessuali, come avviene nello Stato di massa di Hitler, all’individuo non viene lasciato quasi nulla di personale, di diverso, di unico. Quando la vita sessuale dell’uomo è regolata da controlli esterni, come il suo lavoro o il suo modo di divertirsi, egli ha definitivamente e completamente perduto ogni autonomia personale; il poco di identità che gli rimane può solo risiedere nell’atteggiamento interiore verso una tale evirazione»

Bettelheim in questo passo paragona le tendenze totalitarie della “società di massa” statunitense alla Germania nazista. La gender theory segna un ulteriore passo rispetto al bombardamento propagandistico dei media che mira ad un pesante condizionamento individuale, la gender theory ha una dimensione non solo ideologica, ma fattiva, le pratiche ad essa ispirata mirano ad una esplicita trasformazione della psicologia dei bambini attraverso l’adozione di precisi programmi all’interno del sistema scolastico, i quali mirano al superamento degli “stereotipi di genere”, operando apertamente una manipolazione della personalità del bambino. Esse costituiscono un’inaudita intrusione nella vita del bambino, una manipolazione della sua psiche sulla base del presupposto che non esiste un’identità di genere che affondi le sue radici nella natura, ma che l’identità di genere è solo un costrutto culturale e in quanto tale modificabile a piacimento. Ma è solo uno degli orrori della gender theory: il bambino non avrebbe bisogno della figura di un padre e di una madre, dei ruoli differenziati di madre e padre presenti in tutte la storia delle società umane oggi non ci sarebbe più bisogno, e l’assenza di una figura materna o paterna non provocherebbe nessuna sofferenza al bambino.

Mentre la teoria della razza era una negazione della realtà su base biologista (riducendo l’essere umano al suo dato biologico si negava il fatto culturale, specifico dell’essere umano), l’ideologia gender è una negazione della realtà su base culturalista, essa nega il lato biologico dell’essere umano, astraendo il solo dato culturale che in tal modo diventa uno strumento per la manipolazione delle identità. L’ideologia gender nei suoi esponenti più estremisti arriva addirittura a negare la figura della madre, la maternità non sarebbe un fatto naturale ma solo culturale al fine di legittimare una pratica abominevole come il cosiddetto utero in affitto.
Quel sentimento naturale che farebbe sentire in colpa qualsiasi essere umano normale a strappare i cuccioli alla gatta o alla cagna che allatta non vale più per i cuccioli dell’essere umano. Il neonato non avrebbe nessun danno dall’essere privato del seno della madre, per cui la pratica dell’utero in affitto è lecita. Sergio Lo Giudice, senatore Pd, in un intervista televisiva ha dichiarato di aver effettuato la pratica dell’utero in affitto all’estero dove questa è consentita. Lo stesso riferisce che, al posto dell’allattamento, si faceva consegnare il latte dalla madre per darlo al bambino, perché doveva rompere il più precocemente possibile il legame con la madre. E queste pratiche infami, degne di durissima sanzione penale, perché violenza esercitata su un essere del tutto indifeso passano per comportamenti normali, accettabili. In un dibattito televisivo Dario de Gregorio, in un altro video che ha fatto il giro dei social media, per giustificare la sua pratica di utero in affitto, ha definito la madre un “concetto antropologico”, volendo dire che non esiste una dimensione naturale nell’essere madre, ma solo culturale. In questo modo la madre del bambino di cui egli si è appropriato è stata cancellata. Ecco i mostri, i nuovi Mengele che produce la gender theory.

Il totalitarismo odierno è diverso da quello del secolo scorso (ricordiamo che tendenze totalitarie si presentano in tutti gli stati impegnati nella guerra: vedi ad es. imprigionamento dei cittadini statunitensi sulla base della sola origine tedesca o giapponese durante la seconda guerra mondiale). La fine della leva di massa (e sarebbe tutto da approfondire il legame tra fine della leva di massa e precarizzazione) segna un cambiamento decisivo nello stato moderno (vedi in merito il mio articolo Ripensare la rivoluzione francese). Oggi lo stato, poiché ritiene di avere un enorme potere tecnologico, e date le trasformazioni dell’esercito che necessita dell’apporto di professionisti, non ricerca più l’inquadramento di massa come durante le guerre mondiali fecero le “democrazie liberali”, la Germania nazista, e la Russia sovietica, piuttosto intende governare tramite l’esclusione, e per questo persegue il caos, sia all’interno dello stato che nei rapporti inter-nazionali. Ma questo caos prevede un mondo da incubo. Chi saprà e vorrà opporsi non è ancora dato vedere. Considerata la situazione, il movimento cattolico contro la devastazione della famiglia sarebbe da sostenere, nonostante tutti i limiti del movimento italiano, molto meglio però il movimento francese che vuole essere “pour tous”.

Perché mezza Italia e forse più non è antifascista

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di Marcello Veneziani

Fonte: Marcello Veneziani

Ma finitela con questa caccia al fascista, al saluto romano, al busto del duce, al cimelio dell’epoca, alla mezza frase nostalgica e al gesto cameratesco. Si capisce lontano un miglio la malafede della caccia al fascismo ripresa con le ultime inchieste: serve a colpire e inguaiare la Meloni e il suo partito. E ancora più subdoli e cretini sono i finti consigli alla suddetta: diventa antifascista, fai come Fini. Che infatti finì nel nulla, bocciato dagli elettori, scomparso senza gloria. Un’esortazione al suicidio per ottenere post mortem la patente democratica e la riabilitazione in memoria.

Ponetevi piuttosto un problema molto più serio e molto più attuale: perché mezza Italia e forse più non si riconosce nell’antifascismo, non si definisce antifascista, anzi nutre riserve e rigetto? E’ una domanda seria da porsi, dopo che il fascismo fu sconfitto, abbattuto e vituperato, dopo che furono appesi i corpi dei capi, dopo che fu vietata ogni apologia, dopo che sono passati quasi ottant’anni tra tonnellate di condanne, paginate infinite, manifestazioni antifasciste, divieti, lavaggi del cervello a scuola e in tv, perché c’è ancora mezza Italia che non vuole definirsi antifascista? Quella maggioranza non è antifascista ma non è affatto fascista, se non in una piccola percentuale residua, se non amatoriale; gran parte di loro non si riconoscono affatto nel fascismo, lo reputano improponibile, superato. Per loro è assurdo già solo porsi la domanda. Ripudiano violenza, razzismo, guerra e dittatura. Semmai una larga fetta di loro ritiene che si debba giudicare il fascismo nei suoi lati negativi e positivi, senza demonizzazioni; neanche il comunismo fu male assoluto. Molti di loro vorrebbero un giudizio storico più equilibrato, più onesto, più veritiero.

Il vero problema che evitate di vedere non è la persistenza presunta del fascismo nella società italiana ma l’ampiezza dell’area di opinione che non vuol definirsi antifascista e non si riconosce nell’antifascismo. Avete provato almeno una volta a porvi la domanda, senza aggirare le risposte con moduli prestampati e retorica celebrativa? Noi ce la siamo posta e non da oggi. E la riassumiamo così.

Tanti italiani non si definiscono antifascisti perché a loro sembra grottesco usare una definizione che aveva un senso nel ’45, all’età dei loro nonni, quando invece vivono coi pronipoti del terzo millennio. Non si definiscono antifascisti perché a molti di loro sembrerebbe monca, carente una definizione del genere perché così escluderebbero o addirittura assolverebbero altre forme di dittatura, di totalitarismo e di dispotismo, a partire dal comunismo.

Tanti italiani non si definiscono antifascisti perché è ben vivo il ricordo delle bandiere rosse che monopolizzavano l’antifascismo, dei cortei militanti col pugno chiuso e più recentemente dei movimenti antifà e dei nuovi partigiani a scoppio ritardato. Sanno che l’antifascismo fu l’alibi per i compromessi storici, le aperture e l’egemonia comunista e si tengono alla larga.

Tanti italiani non si definiscono antifascisti, come invece viene loro prescritto, perché non credono al bianco e al nero, hanno conosciuto per vie traverse e quasi clandestine le storie che non si vogliono far sapere, e che riguardano sia il regime, sia i suoi avversari, sia la guerra partigiana e non vogliono schierarsi conoscendo crimini e misfatti di quel tempo e di quei versanti.

Senza andare lontano, anzi restando in casa, molti italiani ricordano loro padre, loro nonno fascista e hanno di lui una memoria e un giudizio molto diversi rispetto al mostro dipinto dalla vulgata antifascista. E ricordano cosa raccontava. Tanti italiani non si riconoscono nell’antifascismo perché non ci stanno a considerare i loro famigliari in camicia nera come dei criminali, sanno che non è vero, non è giusto; e poi, sono i loro cari.

Tanti italiani non si definiscono antifascisti perché reputano balorda, divisiva e riduttiva la rappresentazione storica che ne deriva, con tutta la storia e l’identità del Paese ridotta alla distinzione manichea tra fascisti-antifascisti. Preferiscono attenersi alla realtà e diffidano dell’ideologia.

Tanti italiani non si definiscono antifascisti perché non sono di sinistra e non vogliono avallare il loro gioco politico, non vogliono farsi strumentalizzare, capiscono che serve solo per arrecare danni e vantaggi alla politica presente.

Il nostalgismo fascista oggi non ha valenza politica in Italia ma solo emotiva, sentimentale, simbolica, araldica, al più cameratesca; fa parte del modernariato. Mentre il rifiuto dell’antifascismo, quello sì, ha una precisa valenza e ricaduta politica, è un chiaro messaggio politico su cui dovreste riflettere.

Aggiungo che fanno bene quei tanti italiani a non cascare nel gioco di pretendere un’abiura davvero insensata e anacronistica. Allontanando dalla politica l’uso improprio del fascismo, si può invece rivendicare il diritto a un diverso giudizio storico sul passato e sul fascismo, fondato sulla realtà e sul lavoro degli storici seri. È sacrosanto tentare di ricucire la storia d’Italia nelle sue scissioni più dolorose e cogliere il filo unitario che la percorre, anche nelle lacerazioni. Non certo per vellicare propositi revanscisti che sarebbero come minimo falsi e ridicoli; sia fascisti che antifascisti. Non si rimpiange un ventennio dopo un ottantennio, c’è un limite matematico e logico, oltre che di buon senso.

Infine, se credete davvero che la storia d’Italia debba cominciare e finire con l’antifascismo, elevato a religione civile, obbligo di leva, e perno costituzionale, chiedetevi perché mezza Italia non si riconosce in questo schema. Se dopo tanti decenni di rieducazione, repressione, propaganda e religione civile, mezza Italia e forse più non si riconosce nell’antifascismo, il problema non è della Meloni ma è vostro, di voi antifascisti in servizio permanente effettivo e dell’esempio che avete dato. Diciamolo: avete fallito.

25 aprile sempre più rosso: la sinistra ci impone Bella ciao

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di Matteo Carnieletto

La sinistra propone di rendere obbligatoria Bella ciao durante il 25 aprile. Ma si dimentica che questo inno non fu mai cantato durante la Resistenza e che l’Italia la liberarono gli americani

La proposta di legge depositata alla Camera dai deputati di Partito democratico, Italia Viva, Movimento 5 Stelle e Liberi e Uguali è semplice: far diventare Bella ciao l’inno istituzionale del 25 aprile, da cantare subito dopo quello di Mameli. Lo riporta l’Adnkronos. In questo modo “si intende riconoscere finalmente l’evidente carattere istituzionale a un inno che è espressione popolare – vissuta e pur sempre in continua evoluzione rispetto ai diversi momenti storici – dei più alti valori alla base della nascita della Repubblica”. E ancora: “Nello specifico, pertanto, con l’articolo 1, comma 1, si prevede il riconoscimento da parte della Repubblica della canzone Bella ciao quale espressione popolare dei valori fondanti della propria nascita e del proprio sviluppo. Il comma 2 dello stesso articolo stabilisce, inoltre, che la canzone Bella ciao sia eseguita, dopo l’inno nazionale, in occasione delle cerimonie ufficiali per i festeggiamenti del 25 aprile, anniversario della Liberazione dal nazifascismo”. E questo è tutto.

Il problema è che i firmatari di questa proposta di legge dimenticano una cosa importante: Bella ciao non fu mai cantata durante la Resistenza. Giorgio Bocca, non certo un pericoloso reazionario, disse: “Nei venti mesi della guerra partigiana non ho mai sentito cantare Bella ciao, è stata un’invenzione del Festival di Spoleto”. Il riferimento è a quando, nel 1964, il Nuovo canzoniere italiano propose l’inno partigiano al Festival dei due mondi, consacrandolo così in maniera definitiva. Certo, c’è chi sostiene, come Alessandro Portelli sul Manifesto, che questa canzone fosse l’inno della Brigata Maiella e che sarebbe stata cantata fin dal 1944. Ma la realtà è un’altra, come ricorda Il Corriere della Sera: “Nel libro autobiografico di Nicola Troilo, figlio di Ettore, fondatore della brigata, c’è spazio anche per le canzoni che venivano cantate, ma nessun cenno a Bella ciao, tanto meno sella sua eventuale adozione come ‘inno’. Anzi, dal diario di Donato Ricchiuti, componente della Brigata Maiella caduto in guerra il 1° aprile 1944, si apprende che fu proprio lui a comporre l’inno della Brigata: Inno della lince“. I canti dei partigiani erano altri, come Fischia il vento, per esempio. Oppure Risaia. Ma Bella ciao proprio no. Ricorda infatti l’AdnKronos che questo inno non compare in alcun testo antecedente gli anni Cinquanta: “Nella relazione vengono anche presentati alcune esempi di raccolte di canzoni (come il Canta partigiano edito da Panfilo a Cuneo nel 1945 e le varie edizioni del Canzoniere italiano di Pasolini) o riviste (come Folklore nel 1946) nei quali il testo di Bella ciao non compare mai. La prima apparizione è nel 1953, sulla rivista La Lapa di Alberto Mario Cirese, per poi essere inserita, proprio il 25 aprile del 1957, in una breve raccolta di canti partigiani pubblicati dal quotidiano L’Unità“.

Chi ha liberato l’Italia

Presentando questa proposta di legge, Laura Boldrini ha affermato che Bella ciao ci ricorda che “la resistenza non fu di parte, ma un moto di popolo, che coinvolse tutti coloro che non ritenevano più possibile vivere sotto una dittatura: un moto eterogeneo. Fecero parte della resistenza comunisti, socialisti, azionisti, liberali anarchici quindi essendo Bella Ciao un canto della Resistenza ed essendo stata questa un moto di popolo è giusto che diventi un inno istituzionale, espressione popolare dei più alti valori alla base della nascita della Repubblica”. Non fu così. La resistenza non fu affatto un moto di popolo. Non si schierarono milioni di italiani contro poche migliaia di fascisti. Entrambi i fenomeni – sia quello della Resistenza sia quello della Repubblica sociale – mossero poche centinaia di migliaia di persone, come ricorda Chiara Colombini in Anche i partigiani però… (Laterza). Alla prima aderirono poco più di 130mila persone, alla seconda poco più di 160mila. In mezzo oltre 40 milioni di italiani. Non si registrò dunque nessun movimento di popolo né dall’una né dall’altra parte. Ha però ragione la Boldrini quando afferma che la Resistenza fu un fenomeno eterogeneo in cui erano presenti diverse anime. Tra queste, quella certamente prevalente era quella comunista che aveva un obiettivo molto chiaro: sostituire una dittatura con un’altra. Lo aveva capito bene Guido Alberto Pasolini, fratello di Pier Paolo, che dopo aver combattuto i tedeschi fu ammazzato dai partigiani rossi: “I commissari garibaldini (la notizia ci giunge da parte non controllata) hanno intenzione di costituire la repubblica (armata) sovietica del Friuli: pedina di lancio per la bolscevizzazione dell’Italia”.

Se ci fermiamo ai numeri, poi, notiamo che essi sono impietosi. Li ricorda Maurizio Stefanini sul Foglio: “Il 18 settembre 1943 i partigiani erano in tutto 1.500, di cui un migliaio di ‘autonomi’: bande di militari nate dallo sfasciarsi del Regio esercito, che si collegheranno poi in gran parte con la Democrazia cristiana o il Partito liberale. Nel novembre del 1943 sono 3.800, di cui 1.900 autonomi. La sinistra diventa maggioritaria nel 1944: al 30 aprile ci sono 12.600 partigiani, di cui 5.800 delle Brigate Garibaldi, organizzate dal Pci; 3.500 autonomi; 2.600 delle Brigate Giustizia e Libertà del Partito d’Azione; 600 di gruppi più o meno esplicitamente cattolici. Per il luglio 1944 c’è la stima ufficiale di Ferruccio Parri che per conto del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (Clnai) stima 50.000 combattenti: 25.000 garibaldini, 15.000 giellisti e 10.000 autonomi e cattolici. Bocca vi aggiunge un 2.000 tra socialisti delle Brigate Matteotti e repubblicani delle Brigate Mazzini e Mameli. Nell’agosto del 1944 si arriva a 70.000 e nell’ottobre a 80.000, che però calano a 50.000 in dicembre. Giorgio Bocca poi conta 80.000 uomini ai primi del marzo 1945, cita una stima del comando generale partigiano su 130.000 uomini al 15 aprile, e calcola che ‘nei giorni dell’insurrezione saranno 250.000-300.000 a girare armati e incoccardati’. Anche di questa massa i garibaldini, ammette Bocca, ‘sono la metà o poco meno'”. Nota giustamente Stefanini che il “dato interessante è che stando a questa stima appena un partigiano su 23 ha combattuto per almeno un anno; 5 su 6 hanno preso le armi negli ultimi 4 mesi; quasi 4 su 5 negli ultimi 2 mesi; e addirittura uno su due negli ultimi 10 giorni!”.

Basterebbero questi numeri a far tornare la Resistenza nella giusta collocazione storica. Ma non è così. Scegliere Bella ciao come inno ufficiale del 25 aprile significa renderlo ancora di più di una parte soltanto, a discapito di tutte le altre. Ma forse è proprio quello che certe forze politiche vogliono. Non a caso, Marco Rizzo, uno dei pochi comunisti ancora degni di questo nome, ha parlato di “antifascismo prêt-à-porter”, che ha come fine quello di richiamare le masse (o almeno così si spera) prima delle elezioni. Difficile dargli torto…

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Fonte: https://www.ilgiornale.it/news/cronache/25-aprile-sempre-pi-rosso-sinistra-ci-impone-bella-ciao-1952473.html

A teatro con lo sconto? Sì, ma solo se sostieni il Ddl Zan

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di Cristina Gauri

Milano, 13 mag — A teatro con lo sconto, ma solo se appoggi il Ddl Zan. Se sei povero e non sostieni la legge contro l’omotransfobia, puoi anche startene a casa. E’ l’iniziativa lanciata da Gaia Calimani, presidente di Manifatture Teatrali Milanesi, Onlus foraggiata da Comune di Milano, Regione e Mibact che gestisce i teatri Litta di corso Magenta e Leonardo di via Ampère.

Pur percependo fondi pubblici, sembrerebbe proprio che le belle anime di Mtm si riservano di discriminare i clienti in base alla loro posizione ideologica riguardo il discutibilissimo contenuto del Ddl. Del resto, nell’era delle mascherine e dei patentini vaccinali effettivamente si sentiva il bisogno di introdurre un nuovo «pass» per potere usufruire di servizi.

A teatro con lo sconto (ma solo se sostieni il Ddl Zan)

«Presentatevi in cassa con scritto sul palmo della mano Ddl Zan e vi riserveremo un ingresso a teatro a 10 euro», si legge sulle pagina social di Mtm. «Siamo l’arcobaleno di Dorothy nel magico regno di Oz, ma non solo quello — continua l’appello lanciato su Facebook —. Per questo vogliamo invitarvi a teatro a 10 euro, per questo nuovo inizio che si possa essere davvero in molti. Ci saremo anche noi e saremo insieme per una causa in cui crediamo». Per usufruire della promozione basta mettersi in contatto con la biglietteria di Mtm.

Sofo chiede controlli 
Lo sconto «ideologizzato» ha sollevato le forti critiche dell’europarlamentare Vincenzo Sofo che ha condannato l’iniziativa sui social. L’accusa è di farsi pubblicità strumentalizzando i diritti gay; soprattutto, di sfruttare i fondi pubblici per propagandare la propria ideologia.
«Sono talmente in buona fede — scrive su Facebook — che strumentalizzano il vessillo dei diritti gay per farsi notorietà, attirare pubblico e fare soldi. Sono talmente parassiti che sfruttano i finanziamenti pubblici al settore della cultura per fare propaganda politica. Con il collega Carlo Fidanza chiederemo una verifica per capire se questa gente, che vanta sul proprio sito i patrocini del Ministero dei Beni culturali e di Regione Lombardia, percepisca da questi o da altri entri contributi pubblici per la propria attività». Fondi che «finirebbero per essere i soldi con cui si offre lo sconto pro Ddl Zan. Se riscontreremo anomalie, ci batteremo perché questi fondi, soldi di tutti i cittadini, siano tolti a tutti coloro che li utilizzano per mettere in atto campagne discriminatorie».

 

Fonte: https://www.ilprimatonazionale.it/cronaca/teatro-sconto-ddl-zan-assurda-mtm-193311/

È necessario togliere ai liberal-progressisti l’ideologia “green”

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L’EDITORIALE DEL LUNEDI su Informazione Cattolica (Rubrica settimanale del nostro responsabile nazionale Matteo Castagna)

di Matteo Castagna

LE IDEE ECOLOGISTE DI GRETA TINTIN ELEONORA ERNMAN THUNBERG, RELATIVE AI CAMBIAMENTI CLIMATICI, AFFONDANO LE RADICI NEL COSIDDETTO PANTEISMO

La figura di Greta Tintin Eleonora Ernman Thunberg sembrerebbe un po’ appannata, certamente in ombra, almeno da quando è iniziata la pandemia. Le sue idee ecologiste, relative ai cambiamenti climatici, affondano le radici nel cosiddetto panteismo.

Il sistema progressista o liberal si è servito di una bambina svedese, con la sindrome di Asperger, per impietosire il mondo e colpirlo nel suo più irrazionale sentimentalismo così da far passare l’ “ideologia green”, che è solo un modo più elegante e mediaticamente carino rispetto al più brutale “panteismo pagano”, che i Verdi non sono mai riusciti a far passare, nonostante decenni di propaganda.

In realtà, il messaggio ecologista di Greta non necessita più di lei, perché grazie a chi se n’è servito, è divenuto un nuovo dogma della post-modernità, che fa parte della rimodulazione dell’economia, della politica, della società e della religione che sarà la conseguenza più evidente del periodo che seguirà il Covid. Se ne parla poco, perché tutto ciò che è “green” viene venduto e percepito da tutti come una cosa buona, a prescindere.

L’uomo d’oggi, perso nel suo assurdo nichilismo, non vede differenze di rilievo tra il disquisire della vita sessuale delle foche e della liceità dell’utilizzo delle staminali umane per produrre farmaci sperimentali. Alle volte, sembrerebbe addolorato fino al pianto per la morte di un cane ed indifferente di fronte alla difesa dell’aborto volontario come diritto umano. Anzi, chi si adopera di fronte alla presunta estinzione del panda viene considerato un eroe, mentre chi lotta perché l’utero in affitto sia riconosciuto come una indegna mercificazione dei bambini è preso per Conan il barbaro.

Sono riusciti nell’intento di impossessarsi della tematica ecologica, trasformandola in ideologia panteista, che identifica Dio nel mondo, a coronamento dell’ illuminismo filosofico e del socialismo politico che identificano Dio nell’uomo. Con la conseguenza che Dio sarebbe nel “tutto” e nel “niente”, annullando, così, ogni riferimento metafisico proprio della nostra identità classico-cristiana.

In realtà, sganciando la tematica relativa al creato dall’ideologia globalista, scopriamo che esiste un vero amore per animali e piante, che è insito nella cultura tramandata da Aristotele e da San Tommaso d’Aquino, che permea la nostra identità e non ha nulla a che vedere con le questioni new age che ci vengono continuamente propinate. Parliamo del dominio che l’uomo ha per natura sugli animali e sulle altre cose prive di ragione. Continua a leggere

L’ideologia mascherata e il burka della salute

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di Marcello Veneziani

Da sei mesi siamo entrati nell’era globale della mascherina e non sappiamo quando ne usciremo. Siamo in pieno conflitto etico, epico ed estetico sul suo uso e il suo rifiuto. La contesa va al di là delle ragioni sanitarie e riguarda un modo di intendere la vita e i rapporti umani; è diventata infatti una questione politica, simbolica e ideologica.

La battaglia per il suo uso o il suo rifiuto, nel nome della sicurezza o della libertà, lo scontro tra chi dice di non voler rischiare la salute e chi invece non vuol perdere la faccia, ha assunto ormai toni ideologici che vanno al di là della profilassi, dell’effettiva efficacia della mascherina e dei rischi di contagio. Per dirla con Giorgio Gaber la mascherina è di sinistra, il viso scoperto è di destra. Abbiamo sentito in questi mesi accusare di negazionismo irresponsabile e di fasciosovranismo smascherato coloro che ostentavano il rifiuto della mascherina. TrumpBolsonaroJohnson e da noi Salvini, BriatoreSgarbi. In effetti nell’atteggiamento ribelle verso le mascherine c’è qualcosa d’intrepido e temerario che ricorda gli arditi e i fascisti, dal me ne frego al “vivi pericolosamente”; e c’è pure qualcosa di libertario e liberista che rifiuta lacci e lacciuoli, regole e bavagli. Un atteggiamento che in sintesi potremmo definire fascio-libertario. Il superuomo nietzscheano può accettare il distanziamento sociale, e perfino auspicarlo, anche se detesta l’imposizione; ma la mascherina no, è una schiavitù umiliante, una coercizione all’uniformità.

Ma perché non cogliere pure sull’altro versante l’ideologia serpeggiante che unisce gli apologeti della mascherina, e il suo forte significato simbolico e metaforico, al di là del suo uso sanitario e della sua effettiva utilità? Per molti fautori della mascherina si tratta di qualcosa di più che una semplice profilassi; quasi un bisogno inconscio, una coperta di Linus, un istinto di gregge, il retaggio di un’ideologia. La mascherina è una livella ugualitaria e uniformatrice, la protesi della paura che accomuna la popolazione in semilibertà vigilata; la mascherina sfigura i volti e cancella le differenze in una specie di comunismo facciale, anche se esalta gli occhi e nasconde le brutture; genera isolamento pur restando in una prospettiva ospedaliero-collettivista, rende più difficile la comunicazione, evoca il bavaglio e la museruola, ha qualcosa di inevitabilmente angoscioso e orwelliano. Lo spettacolo di folle in mascherina sarà confortante per il senso civico-sanitario ma è deprimente, ha qualcosa di umanità addomesticata e impaurita, ridotta a silenzio e servitù dal terrore della malattia e dal relativo terrorismo sanitario. Continua a leggere

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