Può apparire improbabile, ma la Confindustria è ottimista quando definisce da dopoguerra il Natale italiano 2013. Senza dubbio nel dopoguerra “bellico”, quello che i meno giovani fra noi hanno conosciuto (gli altri qualcosa hanno saputo da nonni e genitori), le rovine materiali erano più numerose e più appariscenti, con i palazzi squarciati dalle bombe alleate e le strade fiancheggiate da macerie. ma vi era anche la forte voglia di ripartire e, soprattutto, la fiducia che si sarebbe riusciti a ricostruire.
Insomma c’erano speranza e ottimismo
Oggi la situazione del dopoguerra economico è da tagliare le gambe prima ancora che si inizi a camminare. Se poi qualcuno volesse nonostante tutto rimboccarsi le maniche e darsi da fare difficilmente potrebbe farlo, perché manca il lavoro. Quanto meno il lavoro retribuito sia pure solo s a livello di sopravvivenza. Gli unici ottimisti in campo sono il presidente del consiglio Enrico Letta e il suo ministro Saccomanni, che, evidentemente forniti di una formidabile vista telescopica, riescono a vedere prossima la famosa luce alla fine del tunnel. Il guaio è che a guardare così lontano sembrano non accorgersi di quanto sta accadendo sotto i loro occhi. Nemmeno delle trasformazioni che il parlamento ha apportato al testo iniziale della legge di stabilità, che già non era gran cosa, ma che adesso è soltanto un nuovo passo sulla strada da tempo sciaguratamente intrapresa. Nessun taglio concreto della spesa pubblica, nessuna diminuzione della pressione fiscale anzi un suo ulteriore aumento per di più nelle sue forme più rovinose: le vecchie-nuove imposte sui fabbricati in generale e le abitazioni in particolare, e i nuovi prelievi sulle altre forme di risparmio, un mix micidiale definito da “Il Sole-24 Ore” di “patrimoniale spezzettata”. “Spezzettata” non significa meno gravosa (tutt’altro), ma seminascosta o addirittura “occulta”, come la qualifica l’economista Francesco Forte, così da lasciare spazio ai sostenitori (vi sono anche i pezzi grossi del Pd: Renzi, Cuperlo e Civati e la giovane blaterante intellighenzia di cui si sono circondati) delle salvifiche proposte dell’imprenditore Carlo De Benedetti, dal 2009 cittadino svizzero, che, avendo portato la massima parte dei suoi capitali all’estero, propone l’introduzione, in aggiunta, di una patrimoniale palese.
Infine al colpo di grazia al residuo ottimismo dei più ostinati a credere nella imminente “ripresa” ha provveduto direttamente l’organo fondamentale della nostra (e di ogni) democrazia, il parlamento, con l’invereconda vicenda del cosiddetto decreto “salva Roma”. A salvare (sempre di salvataggio si tratta e senza spendere, ma anzi risparmiando) con uno scappellotto se non un assolutamente imperdonabile parlamento, il suo discepolo prediletto è intervenuto il presidente Napolitano, che, a dispetto del gap generazionale, sembra assai più accorto e sensibile alla collera che sale dal paese del quarantasettenne Enrico Letta. Quest’ultimo col porre la fiducia aveva messo la faccia del governo (che lì incancellabile rimane) sull’obbrobrioso provvedimento. Napolitano gli ha fatto sapere che non ci avrebbe messo la sua e che, a suo tempo, non avrebbe firmato la legge di conversione.
Politicamente resta il fatto che nel decreto erano stati infilati finanziamenti a pioggia a favore di enti, territori e clientele (20 milioni per il trasporto pubblico calabrese, 23 per le ferrovie valdostane, 25 per la città di Brindisi, uno per le scuole di Marsciano in Umbria, solo mezzo per il comune di Pietrelcina, e chi più ne ha più ne metta). Un assalto alla diligenza stile far west e non vale dire, a giustificazione, che se gli italiani debbono pagare gli 864 milioni di euro del comune di Roma, non si vede perché non debbano contribuire con qualcosina anche per Brindisi, Aosta, Venezia, Marsciano e tutte le altre bisognose istituzioni d’Italia.
Il pericolo non è affatto scomparso. Parlamentari e lobbisti affilano le armi per la prossima occasione, quella del “decreto mille proroghe”. Dal governo, che comunque vi infilerà il ripianamento dei debiti romani e che già si è esposto con il voto di fiducia, si aspettano un’opposizione solo di facciata o poco più. Quanto al presidente della Repubblica confidano in un calo di vigilanza a seguito dell’abbiocco post-prandiale natalizio.
Purtroppo, fatto salvo Re Giorgio (ormai molto in là con gli anni), dobbiamo rassegnarci. Con questo governo, con questo parlamento, con questo classe politica, non c’è speranza, e il popolo italiano è troppo rassegnato e paziente, troppo irretito dai luoghi comuni del politicamente corretto, dalle promesse dei chiacchieroni del mutamento generazionale, per avere la forza di liberarsene (non occorre fare la guerra, sarebbe sufficiente l’uso intelligente ed oculato del voto). Il flop dei forconi lo dimostra.
Le previsioni per il 2014 sono esattamente quelle del 2013, del 2012, del 2011, del 2010. Andrà un po’ peggio dell’anno prima.