Quale allegria? Le previsioni per il 2014 sono esattament​e quelle del 2013, del 2012, del 2011…

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mascheredi Francesco Mario Agnoli

 

Può apparire improbabile, ma  la Confindustria è ottimista quando  definisce da dopoguerra il  Natale  italiano  2013. Senza dubbio nel dopoguerra “bellico”, quello che i meno giovani fra  noi hanno conosciuto (gli altri qualcosa  hanno saputo da nonni e genitori), le rovine materiali erano più numerose e più appariscenti, con i palazzi squarciati dalle bombe alleate e le strade fiancheggiate da macerie. ma vi era anche la forte voglia di  ripartire e, soprattutto, la fiducia  che si sarebbe riusciti a ricostruire.

    Insomma c’erano speranza e  ottimismo

    Oggi la situazione  del dopoguerra economico è da tagliare le gambe prima ancora che si inizi a  camminare.  Se poi qualcuno volesse nonostante tutto rimboccarsi le maniche e darsi da fare  difficilmente potrebbe farlo, perché manca il lavoro. Quanto meno il lavoro retribuito sia pure solo s a livello di sopravvivenza.  Gli unici ottimisti in campo sono il presidente del consiglio Enrico Letta e il suo ministro Saccomanni, che, evidentemente forniti di una formidabile vista  telescopica, riescono a vedere prossima la famosa luce alla fine del tunnel. Il guaio è che a guardare  così lontano sembrano non accorgersi di quanto sta accadendo sotto i loro occhi. Nemmeno delle  trasformazioni  che il  parlamento  ha apportato al testo iniziale della legge di stabilità, che già non era gran cosa, ma che adesso   è soltanto un nuovo passo  sulla strada  da tempo sciaguratamente intrapresa.  Nessun taglio concreto della spesa pubblica, nessuna diminuzione  della pressione fiscale anzi un suo ulteriore aumento per di più nelle sue forme più rovinose: le vecchie-nuove imposte sui fabbricati in generale e le abitazioni in particolare, e i nuovi prelievi sulle altre forme di risparmio, un mix micidiale definito da  “Il Sole-24 Ore”  di “patrimoniale spezzettata”.  “Spezzettata” non  significa meno gravosa (tutt’altro), ma seminascosta o addirittura “occulta”,  come la qualifica l’economista  Francesco Forte, così da lasciare spazio ai sostenitori  (vi sono anche i pezzi grossi del Pd: Renzi, Cuperlo e Civati e la giovane blaterante intellighenzia di cui si sono circondati)  delle salvifiche proposte dell’imprenditore Carlo De Benedetti, dal 2009 cittadino svizzero, che, avendo portato la massima parte dei suoi capitali all’estero,  propone l’introduzione, in aggiunta, di una patrimoniale palese.

    Infine  al colpo di grazia al residuo ottimismo dei più ostinati a credere nella  imminente “ripresa” ha provveduto direttamente   l’organo fondamentale della nostra (e di ogni) democrazia, il parlamento, con l’invereconda vicenda del cosiddetto decreto   “salva Roma”. A salvare (sempre di salvataggio si tratta  e senza spendere, ma anzi risparmiando) con uno scappellotto se non un assolutamente imperdonabile parlamento,  il suo discepolo prediletto è intervenuto il presidente Napolitano, che, a dispetto del  gap generazionale, sembra assai più accorto e sensibile alla collera che sale dal  paese del quarantasettenne Enrico Letta. Quest’ultimo col  porre  la fiducia aveva messo la faccia del governo (che lì incancellabile rimane) sull’obbrobrioso provvedimento. Napolitano gli ha fatto sapere che non ci avrebbe messo la sua e che, a suo tempo, non avrebbe firmato la legge di conversione.

    Politicamente resta il fatto che nel decreto  erano stati infilati   finanziamenti a pioggia a favore  di enti, territori e clientele (20 milioni per il trasporto pubblico calabrese, 23 per le ferrovie valdostane, 25 per la città di Brindisi, uno per le scuole di Marsciano in Umbria, solo mezzo per il comune di Pietrelcina, e chi più ne ha più ne metta). Un assalto alla diligenza stile far west e non vale dire, a giustificazione, che se gli italiani debbono pagare gli  864 milioni di euro del comune di Roma, non si vede perché non debbano contribuire con qualcosina anche  per Brindisi, Aosta, Venezia, Marsciano e tutte le altre bisognose istituzioni d’Italia. 

  Il pericolo non è affatto scomparso.  Parlamentari e lobbisti affilano le armi per  la prossima occasione, quella  del “decreto mille proroghe”. Dal governo, che  comunque vi infilerà  il ripianamento dei debiti romani e che già si è esposto con il voto di fiducia, si aspettano un’opposizione solo di facciata o poco più. Quanto al presidente della Repubblica confidano in un calo di vigilanza a seguito dell’abbiocco post-prandiale natalizio.

    Purtroppo, fatto salvo Re Giorgio (ormai molto in là con gli anni),  dobbiamo rassegnarci. Con questo governo, con questo parlamento, con questo classe politica, non c’è speranza, e il popolo italiano è troppo rassegnato e paziente, troppo irretito dai luoghi comuni  del politicamente corretto, dalle promesse dei chiacchieroni del mutamento generazionale, per avere la forza di liberarsene (non occorre fare la guerra, sarebbe sufficiente l’uso intelligente ed oculato del voto). Il flop dei  forconi lo dimostra.

Le previsioni per il 2014 sono esattamente quelle del 2013, del 2012, del 2011, del 2010.  Andrà un po’ peggio dell’anno prima.

Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte] 

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