Basta con “l’autobiografia della nazione”

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del Prof. Franco Damiani 

 

ITALIAE’ orribile citare se stessi, ma nella conferenza che sotto l’egida del circolo “Christus Rex” tenni a Fener nel 2011 sul “Risorgimento” provai a tracciare il quadro del mio rapporto controverso con quel periodo della storia d’Italia: un’educazione patriottica, quale quella che veniva impartita nelle famiglie della media borghesia negli anni Cinquanta, non ben coordinata con un cattolicesimo piuttosto tradizionale, da “Dio Patria Famiglia” ma con qualche venatura laicheggiante, dovuta all’estrazione politica del mio nonno materno e di mia mamma.

 

 

 

Questa, cui ero legatissimo anche ideologicamente e alla cui memoria conservo comunque una grandissima devozione, parlava con entusiasmo del partito repubblicano, della Repubblica Romana del ’49, di Salvatorelli sul cui manuale (in tempo fascista!) aveva studiato al “Galvani” di Bologna, soprattutto di Mazzini che a me sembrava conciliabilissimo con il cattolicesimo grazie alle sue venature spiritualiste. In casa si leggeva il “Corriere”, che tra i Sessanta e i Settanta era diretto da Spadolini, personaggio per il quale mi entusiasmai (più tardi, quando divenne presidente del consiglio, acquistai tutti i suoi volumi, ne feci acquistare uno – “Italia di minoranza”- ai miei studenti di quinta superiore e volli incontrarlo a una serata del PRI di Venezia). Firma di punta era Montanelli del cui “Giornale” divenni, dai primi anni Ottanta, accanito lettore. Quando nel 1969 riprese le pubblicazioni “Il Mondo”, con la direzione di Arrigo Benedetti, la mamma volle che lo acquistassimo in ricordo della mitica testata di Mario Pannunzio, uscita dal 1949 al ’66.   Il sedicenne che ero non si fece pregare e, affamato di buone letture, ne divenne un lettore appassionato. Vi scrivevano Maurizio Ferrara (editoriale a destra di quello del direttore), Carlo Cassola, Michele Dzieduszycki, Sandra Bonsanti, Daniela Pasti, J. Rodolfo Wilcock (critica teatrale), Francesco Savio (critica cinematografica) e tante altre firme di prestigio. Non volevo saperne dell’”Espresso” o di “Panorama”, poco mi interessava anche l’”Europeo”, che nello stesso “target” andavano per la maggiore. Mi appassionai anche alla storia del settimanale, su cui lessi tutto ciò che potevo. Era soprattutto Spadolini a parlarne, delineando il ritratto di questi liberali un po’ di sinistra ma anticomunisti (Ernesto Rossi, Guido Calogero, l’ex ambasciatore a Londra Nicolò Carandini: girava l’epigramma “Se non ci conoscete/ guardateci i calzini./ Noi siamo i liberali/ del conte Carandini”),  molto raffinati ed elitari,”sospesi tra Croce e Salvemini”, che avevano l’Italia reale “in gran dispitto” e ne sognavano una, va da sé, “migliore”. Perché ricordo tutto questo? Perché nella conversazione di oggi a “Wikiradio”, il critico Massimo Raffaeli ha parlato dello scrittore Vitaliano Brancati e nel finale sono riemersi quegli accenti: l’odio per quella che potremmo chiamare, dal loro punto di vista, l’eterna Italia codina, benpensante, prima fascista e poi clericale, nemica della cultura, per quel clerico-fascismo definito gobettianamente “autobiografia della nazione”, cui ovviamente contrapponevano se stessi, minoranza incompresa ma nobile, colta, avanzata, europea (c’è stato anche, purtroppo,il volume di ricordi “La sera andavamo in Via Veneto” di un Eugenio Scalfari, verso il quale ho sempre provato una profonda antipatia e che in realtà poco omogeneo mi sembrava con quel gruppo). Ecco, è stata quell’”autobiografia della nazione”, questa espressione così falsa, superficiale e superba, a far scattare la mia reazione. Infatti essa ha afflitto gran parte della mia esistenza e mi pare che condizioni ancora ampiamente la visione comune della storia d’Italia, un paese che, secondo i suoi esponenti, ha stentato secoli per liberarsi del dominio straniero, anche a causa della presenza ingombrante del Papato; che non ha goduto, a differenza dei paesi del Centro e del Nord Europa, dei benefici effetti della “Riforma” protestante; e che poi si è ritrovata tra i piedi il fascismo e, nei suoi uomini migliori, lo ha combattuto (“secondo Risorgimento”) per “riallacciasi alla storia d’Europa” da cui quel regime totalitario, incolto, retrogrado e provinciale ci aveva allontanati. Che era la visione di Gobetti, di Omodeo, di Salvatorelli, di Spadolini, del “Corriere”, di Montanelli e del “Mondo”. Una visione largamente ideologica ma che è a suo modo esauriente e convincente e che non è facile confutare.  Per farlo non c’è a mio avviso che una cosa da fare (che è stata quella che ha salvato me): riscoprire il proprio cattolicesimo non conciliare, non compromissorio, non modernista,  quale piaceva ai Gobetti (non a Croce né a Prezzolini, in questo caso assai più acuti) e agli Spadolini ma intransigente, papalino, preconciliare, antimodernista, vandeano, reazionario se si vuole, alla Giuliotti. L’unico che di fatto possieda una visione alternativa (cui singolarmente è più vicino il Gramsci di certe pagine del “Risorgimento”) parimenti completa non del solo Ottocento ma di tutta la storia d’Italia e d’Europa. Che deve partire ovviamente dalla critica filosofica e teologica al protestantesimo e che quindi non può che condurre a dissociarsi dai vari movimenti neocon (“spaghetticons”) che vedono negli Stati Uniti d’America la guida dell’”Occidente” cristiano . O più correttamente “cristianista”.

 

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