Segnalazione Quelsi
E’ vero, come ricorda Giacalone, che negli ultimi decenni hanno governato uomini e donne del Nord. Non è una novità. In un secolo e mezzo, poche sono state le eccezioni (Moro, Nitti, Crispi, De Mita, Leone, D’Alema, Segni, Orlando, Salandra, Cossiga ). D’altro lato, l’impressione che lo Stato e la sua burocrazia siano ampiamente meridionalizzati e borbonici è una solida realtà. La partitica apicale è nordista, ora come agli inizi di Cavour, Rattazzi e Ricasoli. La mentalità dello Stato nelle sue branchie centrali e locali è invece meridionale. Simbolo e vertice di questa mentalità è la giustizia, dove la maggioranza dei 10mila togati proviene da sotto il Tevere. Dopo un lungo periodo di mitizzazione, in cui la magistratura è apparsa rivestire i superpoteri dei fumetti Marvel, questa leadership è stata consacrata al secondo ruolo istituzionale del Paese. Tale secondo potere, meridionale, del paese, conduce con successo, da un trentennio, una guerra interna, dall’alto di una sorte di opricnina, un governo a latere svincolato dal resto dell’ordinamento.
Forte di questa indipendenza ha promosso al massimo grado tutti i difetti intellettuali, che da un certo punto di vista sono tradizionalmente caratteristici proprio della borghesia mediterranea, dall’azzeccagarbuglismo all’amore per le grida spagnole, dall’istigazione alla litigiosità spicciola e apicale, dall’ampio familismo all’interpretazione di tutta la vita sociale secondo i canoni delle regioni più arretrate dell’arretrato Sud, alla consuetudine della pluralità di incarichi, al controllo totale della gestione burocratica della grazia e della giustizia oltre che delle carceri. Ogni anno i vertici togati a livello centrale e periferico con piacere sarcastico snocciolano i dati di un triste fallimento. Lo fanno con foga e passione come se la gestione e dunque la responsabilità non fosse loro.
La giustizia è di per sé tra le macchine pubbliche meno costose, anche per il numero limitato di personale coinvolto. I magistrati erano nell”80 quasi 7mila e sono oggi quasi 9mila (con un picco di 9200 nel 2011), gli onorari sono 4mila, i giudici di pace 2300 (dopo il picco del 2002 di 4200). A questi 15mila si aggiungono 40mila secondini (nell’80 erano 14mila) e 47mila impiegati (23mila nel ’79 con un picco del 2001 di 54mila). 100mila addetti per una giustizia che costa 7 miliardi (2013), l’1,30% del bilancio rispetto all’0,85% del 1980. con il picco del 2009 di quasi 9 miliardi. La Francia spende la metà, la Germania il doppio. Invece sulle carceri l’Italia spende il doppio dei due paesi europei, malgrado la quota relativa di spesa sia scesa dalla metà al 40%.
I detenuti d’altra parte sono raddoppiati, da 30mila a 66mila, soprattutto per l’aumento esponenziale di quelli in attesa di giudizio. Prima i condannati erano 27mila, la grande maggioranza; ora lo sono solo 38mila detenuti. Il 43% della popolazione carceraria non è ai sensi di legge colpevole. Il disastro massimo sta nei processi in corso, non smaltiti, 2,7 milioni civili e 5 milioni penali, in 30 anni cresciuti di 3 volte dai 1,3 e 1,3 milioni dell’80. Processi della durata di 8 e 5 anni in media, secondo una prudente ricostruzione degli uffici del Senato, molto più lunghi secondo i dati europei. Come è noto, sul settore giustizia, l’Italia viene sistematicamente condannata, sia per le violazioni dei diritti degli accusati che per l’uso del carcere come strumento di tortura; le condanne sono saldate in termini di miliardi, sia come risarcimento a detenuti sia come multe a Bruxelles, dall’erario.
Le uniche giustificazioni plausibili a questo status disastroso stanno nel naturale alto tasso di litigiosità, il cui record è diviso tra Roma e Madrid e nel limitato numero di togati, inclusi i non professionisti, che sono in Italia 16 ogni centomila abitanti, 55 in Francia e 154 in Germania. D’altro lato negli altri paesi europei la conciliazione è un’alternativa effettiva e cogente rispetto al tribunale, che invece in Italia resta l’unico sbocco reale delle controversie. La malandata situazione nei decenni ha prodotto tentativi di riforma, polemiche politiche al calor bianco e referendum antitoga. Per parte propria l’associazione nazionale togata si è asserragliata nel fortino catilinario dell’etica, con intercambiabili alleati sia di sinistra che di destra, dando più volte l’assalto addirittura con un proprio partito delle procure, giungendo nei momenti di maggiore difficoltà ad appellarsi anche all’ONU per i «progetti di riforma del Consiglio Superiore della Magistratura che vogliono sminuirne l’indipendenza”. Neanche si trattasse di una minoranza etnica o repubblica autonoma. Mai un dubbio che lo sfacelo giustizia sia conseguenza delle modalità di gestione ed in ultima analisi della stessa visione economica e sociale della vita del Paese. Non c’è aspetto e attore economico, industriale, istituzionale, finanziario, tecnologico, sindacale, politico che non sia stato in questi decenni pesantemente influenzato, artefatto, sconvolto, drogato, salvato, cancellato dall’indipendenza togata, al punto che per controbilanciarne gli effetti ci vorrebbe un apposito antitrust.
L’assolutismo togato, sciolto da qualunque limite, sorse quasi per caso, sullo scalino della scaletta che doveva portare l’ultimo re in esilio. Non fu la Repubblica, né la Resistenza e neppure il primissimo ministro di Giustizia nel II°e del III° governo De Gasperi, il comunista Fausto Gullo per il quale l’obbligo era mandare assolte le vendette di Bube e fratelli. L’assolutismo togato fu un regalo, un bon bon regale del re di maggio, probabile padre dell’attuale monarca quirinalizio. L’ultimo ed unico atto legislativo di Umberto, consumatosi il 31 maggio ’46, fu la legge delle guarentigie, tradotto in italiano corrente garanzie privilegiate, che vennero estese, oltre al Papa ed ai vescovi, anche ai magistrati, resi inamovibilità ed indipendenti dal relativo Ministero, in un caso unico in Europa.
All’epoca, si volle considerare il provvedimento come una rivalsa anticipata alla grande amnistia attuata un mese dopo, che mandò liberi mandanti ed autori della mattanza dei 50mila in odore di fascisti. Si immaginava che la Costituente avrebbe cassato la strana norma che poneva 20mila dipendenti dello Stato su un altro pianeta. Cattolici e comunisti non avevano una buona opinione dei togati, né della loro associazione, che, anche se sciolta dal fascismo, appariva una congrega massonica, governativa, conservatrice, impegnata in una guerra civile meridionale di cui i maxi processi antimafia erano caratteristica costante da quelli di Viterbo del ’12 (e poi del ’52). In fase di redazione, a difendere la drole de loi fu uno capi dei laici, il leader repubblicano Conti, che aveva passato gli anni del regime da un cielo a scacchi all’altro ed era uno degli ultimi per i quali repubblica era sinonimo di eversione al sistema.
La Malfa senior invece aveva passato gli anni fascisti con Mattioli da direttore dell’ufficio studi Banca Commerciale ed in Treccani da seguace dell’ideologo, mezzo rosso e mezzo nero, del corporativismo Spirito. Siciliano, La Malfa aveva seguito l’oro dei consigli materni, che l’avevano indirizzato al disprezzo per le terre natali ed alla carriera di successo nella finanza al nord. Di fronte al collega di partito Conti ( che dopo la prodezza scomparve dalla storia patria), ed alle sue vere stigmate carcerarie, il repubblicano siciliano tacque. Così il partito più filoamericano italiano si rese responsabile di sostenere le ubbie corporative di quelle terre meridionali, temute come un gorgo passatista capace di risucchiare in sé ogni progresso. Questa è stata d’altronde la storia degli uomini più intelligenti, più preparati, più autorevoli; dei laici, da Croce a La Malfa, dai liberali agli azionisti, fino ai Bobbio ed al partito Repubblicano; la storia del continuo tradimento del proprio campo naturale, la storia della guerra alla parte migliore del paese ed ai programmi più evoluti e moderni. Una storia rovesciata che tutt’oggi rimpiange d’essere stata “ingenua” e di non essere riuscita “tra il ’92 e il ’94 con 1408 condanne definitive ad estirpare dal potere la corruzione”. Parola del già senatore casertano Ds e Pd (2006 e 2008), D’ambrosio, magistrato tra il ’57 ed il 2002, capace di assolvere la polizia per il malore attivo dell’anarchico Pinelli, il Pci per il terrorismo rosso ed i finanziamenti, Pisapia dall’ex comunismo ma non Freda e Ventura, non Calvi, non la Parenti che indagava sul tesoriere Pds, non Mastella, reo di indulto nel luglio 2006 e di calcoli sbagliati (uscirono 25mila detenuti e non 12mila). Condoglianze a Gerardo D’Ambrosio, testè deceduto, simbolo di un’epoca, di una generazione e di un potere che perpetua i suoi difetti, contraddittoriamente ossessionato dal disinteresse per la terra natia e da un improbabile atlantismo di sinistra, dalla fede nell’opulento occidentalismo e nell’oscuro dirigismo austero e sparagnino dell’anticapitalismo della burocrazia e dell’usura. Che mantiene stile, buona educazione e distinzione. Senza che ciò basti, come ricordano gli imputati suicidi e gli attori economici travolti, ad ottenere un titolo di galantuomo.
Giuseppe Mele | aprile 1, 2014 alle 4:34 pm | URL: http://wp.me/p3RTK9-4dr