Segnalazione Quelsi
Nel 1944, a Ventotène, un gruppo di confinati antifascisti scrisse un documento titolato Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un manifesto. A chi volesse leggere il testo del Manifesto, consigliamo vivamente la versione presente suwww.altierospinelli.org, poiché quella presente su Wikisource — e ripresa da altri siti, anche istituzionali — presenta delle alterazioni, con la sostituzione d’alcuni termini con altri più accettabili politicamente agli occhi di lettori moderni.
Tre furono gli autori materiali, anche se il testo fu frutto d’un confronto all’interno d’una comunità forzata su quella piccola isola. È bene conoscere gli autori, per capire la matrice di questo Manifesto che oggi dagli europeisti, specie italiani, è considerato il testo fondante dell’Unione europea.
Altiero Spinelli nasce a Roma nel 1907 e aderisce al Partito Comunista nel 1924. Nel 1937 s’allontana dal marxismo, considerato ormai troppo liberale perché faccia l’interesse del proletariato, criticando le purghe staliniane. Per queste ragioni fu espulso dal partito. Ventotene fu per Spinelli l’inizio del percorso da federalista europeo, che culminò nella sua elezione nel 1979 a europarlamentare come indipendente nella lista del PCI.
Ernesto Rossi nasce a Caserta nel 1897, combatté come volontario nella prima guerra mondiale e collaborò dal 1919 al 1922 col Popolo d’Italia, diretto da Benito Mussolini. Fondamentale per la sua evoluzione politica fu l’incontro con Salvemini. Entrò in Giustizia e Libertà e poi, nel dopoguerra, nel Partito d’Azione. Fu un convinto anticlericale; la sua matrice ideologica rimase in questo senso quella di coloro che, nel secolo precedente, erano stati protagonisti del Risorgimento e dell’unità italiana.
Eugenio Colorni nasce a Milano nel 1909 da famiglia d’origine ebraica. Nel 1930 iniziò a collaborare con Giustizia e Libertà; poi, nel 1936–7 pubblicò importanti articoli su Politica socialista e sul Nuovo Avanti. Nel settembre 1938, all’inizio della campagna razziale, fu arrestato a Trieste perché ebreo e antifascista militante, e confinato a Ventotene. Nel 1943 riuscí a fuggire e si dedicò all’organizzazione del Partito Socialista Italiano d’Unità Proletaria. Nel maggio del 1944 rimase ucciso in uno scontro coi fascisti.
La matrice ideologica degli autori del Manifesto è quindi abbastanza chiara. Si tratta sempre di quel grande albero ideologico che, seppure variegato, fa riferimento all’Associazione internazionale dei lavoratori del 1864, la quale riuniva gruppi operai inglesi, anarchici, socialisti francesi, repubblicani italiani e marxisti. Da quest’impalcatura ideologica (per differenziazioni ideali, opportunità politica, differenze nazionali, ragioni contingenti) emersero poi, nel corso dei decenni, tutte le varianti di comunismo, socialismo, socialdemocrazia, fascismo e nazionalsocialismo.
Giustizia e Libertà rappresenta in questo senso una riaggregazione in tempi di dittatura d’alcune di queste esperienze politiche, quelle minoritarie e meno organizzate nel panorama politico italiano. Nelle loro stesse parole: «Provenienti da diverse correnti politiche, archiviamo per ora le tessere dei partiti e fondiamo un’unità d’azione. Movimento rivoluzionario, non partito, “Giustizia e Libertà” è il nome e il simbolo. Repubblicani, socialisti e democratici, ci battiamo per la libertà, per la repubblica, per la giustizia sociale. Non siamo piú tre espressioni differenti, ma un trinomio inscindibile».
Giustizia e Libertà cercò d’innestare nel socialismo alcune tesi del liberalismo. Fu, ad avviso di chi scrive, un tentativo piuttosto strumentale d’usare il concetto di libertà individuale per creare un contrappeso ideologico alle conclusioni dei comunisti, dove l’uguaglianza delle condizioni materiali portava alle conseguenze dottrinarie che conosciamo. L’impianto concettuale degli autori è però privo di qualsiasi considerazione riguardo a perimetri territoriali ottimali per le istituzioni politiche, questione che i liberali classici d’oltreoceano avevano già affrontato nella direzione della riduzione degli stessi.
Il Manifesto fu redatto in tre parti. Nella prima, gli autori cercano d’analizzare l’ascesa dei totalitarismi attraverso il dualismo tra progressisti e reazionari. La loro analisi è che la causa dell’involuzione della civiltà europea siano le oligarchie che vogliono mantenere il controllo a dispetto della maggioranza della popolazione. Tale controllo è esercitato attraverso gli Stati nazionali, che diventano lo strumento per il mantenimento di rendite di posizione da parte delle oligarchie — anche ricorrendo, nei momenti di crisi, a derive totalitarie. Ostili, quindi, agli Stati nazionali; ma concedono loro d’essere stati
un potente lievito di progresso; ha[nno] fatto superare i meschini campanilismi in un senso di piú vasta solidarietà contro l’oppressione degli stranieri dominatori; ha[nno] eliminato molti degl’inciampi che ostacolavano la circolazione degli uomini e delle merci; ha[nno] fatto estendere entro il territorio di ciascun nuovo Stato alle popolazioni piú arretrate le istituzioni e gli ordinamenti delle popolazioni piú civili.
A settant’anni di distanza, la storiografia è divenuta molto meno entusiasta del processo d’unità nazionale. Se si va oltre i miti e la retorica risorgimentali, l’unità fu vissuta da molte regioni italiane come un’annessione violenta. Basti pensare a quel fenomeno che la storiografia d’inizio Novecento definiva brigantaggio, e che invece fu un vero fenomeno secessionistico; alla distruzione delle peculiarità linguistiche e culturali; all’armonizzazione che, impedendo la competizione fiscale, provocò una tassazione media piú elevata; all’enorme fenomeno migratorio seguíto all’unità nazionale; &c.
Il Manifesto, inoltre, identifica tout court l’identità culturale — prima quella regionale, poi quella nazionale — come organica al mantenimento del potere da parte delle oligarchie. S’attaccano le identità per colpire le corrispondenti istituzioni. L’errore è non vedere che le oligarchie hanno continuato a sfruttare lo Stato e si sono adattate al mutamento degli assetti istituzionali. Cambiare l’assetto istituzionale da una molteplicità di Stati regionali a uno Stato nazionale ha portato solo a una diversa configurazione delle stesse in funzione del nuovo assetto. Anziché ricavare rendite di posizione dallo Stato regionale, si ricavarono il loro spazio di rendita a livello nazionale. Non solo: il totalitarismo ebbe, in séguito, piú spazio proprio perché venne a mancare nell’àmbito nazionale la concorrenza istituzionale. La centralizzazione del potere dovuta all’unità fu una concausa di quella che i redattori del Manifesto chiamano «crisi della civiltà moderna».
Nella seconda parte, per evitare quest’uso degli Stati nazionali e per non ricadere nei totalitarismi, propongono di
far nascere il nuovo organismo che sarà la creazione piú grandiosa e piú innovatrice sorta da secoli in Europa; […] costituire un saldo Stato federale, il quale disponga d’una forza armata europea al posto degli eserciti nazionali; spezzi decisamente le autarchie economiche, spina dorsale dei regimi totalitari; abbia gli organi e i mezzi sufficienti per far eseguire nei singoli Stati federali le sue deliberazioni dirette a mantenere un ordine comune […].
A realizzare quest’obiettivo, secondo gli autori, dev’essere un movimento rivoluzionario — in competizione coi comunisti nel campo dei progressisti — il quale, al mito della Russia sovietica, risponda coll’idea dell’Europa unita (socialista, come vedremo). Vogliono un cambiamento istituzionale che scomponga i ranghi dell’avversario reazionario.
Non riuscendo a riconoscere l’errore della centralizzazione, ne propongono ancora di piú, non rendendosi conto che le oligarchie si sarebbero ancor una volta adattate — cosa puntualmente avvenuta anche coll’UE, che oggi è il fulcro con cui le oligarchie impediscono le libertà dei cittadini europei. Tantoché oggi possiamo parlare d’oligarchia europea; ed è proprio quest’ultima a premere per l’armonizzazione — o, meglio, omologazione — delle differenze che sono sempre state la ricchezza di questo continente.
Un approccio liberale classico avrebbe posto l’accento sulla riduzione della presenza dello Stato a qualsiasi livello, e non sulla creazione d’un nuovo livello di Stato. Il Manifesto di Ventotene proprio non ne parla; ma va osservato che anche liberali italiani eccellenti di quel periodo (come Luigi Einaudi) caddero, riguardo alla questione europea, in questa paurosa incoerenza. Il Manifesto, invece, prefigura «l’unità politica dell’intero globo». Nelle teorizzazioni successive di Spinelli e del Movimento Federalista Europeo (MFE), l’obiettivo finale piú volte esplicitato è lo Stato mondiale. L’articolo 2 dello statuto del MFE recita:
Il MFE ha come scopo la lotta per la creazione d’un ordine politico razionale, che, secondo la visione di Kant, può essere tale solo se abbraccia l’intera umanità. Il suo obiettivo ultimo è pertanto la federazione mondiale. I suoi obiettivi intermedi sono la Federazione europea, l’unificazione federale delle altre grandi famiglie del genere umano e la trasformazione dell’ONU in un governo mondiale parziale.
Oggi sappiamo che la concorrenza tra Stati concorre a evitare che le istituzioni statali diventino totalitarie. Uno Stato unico mondiale non elimina il problema del totalitarismo, anzi lo amplifica, portando il potere lontanissimo dai cittadini. Basti vedere, su scala minore, proprio l’involuzione dell’UE, gestita da burocrati non eletti e con una burocrazia non controllabile e soggetta a potenti forze lobbistiche. Immaginano in questo modo la fine della guerra:
Sarà il trionfo delle tendenze democratiche. Esse hanno innumerevoli sfumature, che vanno da un liberalismo molto conservatore fino al socialismo e all’anarchia. Credono nella «generazione spontanea» degli avvenimenti e delle istituzioni, nella bontà assoluta degl’impulsi che vengono dal basso. Non vogliono forzare la mano alla «storia», «al popolo», al «proletariato» e come altro chiamano il loro Dio. Auspicano la fine delle dittature, immaginandola come la restituzione al popolo degl’imprescrittibili diritti d’autodeterminazione.
Questo ragionamento contiene uno sprazzo di visione corretta (quantomeno per i liberali), quando parlano di «generazione spontanea […] delle istituzioni». Ma sono completamente incoerenti sia lo strumento (il movimento rivoluzionario) sia il metodo (il costruttivismo) ch’essi scelsero d’usare.
Il «costruttivismo» consiste nell’idea «secondo la quale l’uomo, dato che ha creato egli stesso le istituzioni della società e della civiltà, deve anche poterle alterare a suo piacimento in modo che soddisfino i suoi desiderî o le sue aspirazioni», scrivevaFriedrich Hayek nel 1970. Il costruttivismo è un tratto distintivo di tutte le ideologie che nascono dall’albero d’ideali che discende dall’AIL del 1864, ed è il germe che ha portato ineluttabilmente ai totalitarismi. Il processo verso l’Europa unita di cui loro parlano, lateorizzazione europeista, non è altro che costruttivismo — cioè, per usare le loro parole, «forzare la mano». La storia dell’UE fino a oggi è stata, guarda caso, una serie di forzature che nulla ha a che fare coll’«autodeterminazione». Si veda per es. come sono stati disattesi nella sostanza i pochi referendum tenuti in alcuni Paesi sull’argomento. Lo stesso fine ultimo del MFE, la creazione d’un ordine politico razionale mondiale, è un progetto intriso di costruttivismo. Il costruttivismo ritiene che tutte le istituzioni umane siano esiti di piani intenzionali, di progetti deliberati e consapevoli, piú che conseguenze non intenzionali d’azioni umane. Il costruttivismo si fonda quindi s’una «presunzione fatale»: che gli uomini posseggano una conoscenza di cui in realtà non sono in possesso e che neppure il progresso della scienza potrà dare loro. «Quanto piú gli uomini sanno, tanto piú piccola diventa la conoscenza che una mente umana può assorbire. Quanto piú civili diventiamo, tanto piú il singolo individuo ignorerà i fatti da cui dipende il funzionamento della sua civiltà», osservava Hayek (La società libera).
L’ordine istituzionale sovrannazionale pianificato nel Manifesto di Ventotene è quindi un nemico della «società libera», e dovrebbe esser avversato da chi si riconosce nel liberalismo. Purtroppo molti liberali in Italia sono figli esclusivi della tradizione liberale italiana — oggi, a giudizio di chi scrive, intellettualmente sterile —, di cui Einaudi fu l’ultimo significativo rappresentante. Questa la ragione per cui vediamo tanti liberali italiani rimanere ancor oggi sul carro d’un’UE che di liberale non ha nulla.
L’idea d’Europa ch’emerge dal Manifesto, trasposizione in chiave europea delle utopie idealistiche di sinistra, in cui prevale la chiave solidaristica su quella della responsabilità reciproca, è foriera delle divisioni tra europeisti tra i vari Paesi che oggi vediamo. L’europeismo italiano s’aspetta, su queste basi, solidarietà dall’UE per risolvere problemi prettamente italiani, mentre non mette in discussione i veri problemi dell’UE, per timore che, delegittimando l’UE, si delegittimi esso stesso.
La terza parte s’intitola «Compiti del dopoguerra – La riforma della società», ed evidenzia a tuttotondo il retroterra ideologico del Manifesto:
La rivoluzione europea, per rispondere alle nostre esigenze, dovrà essere socialista, cioè dovrà proporsi l’emancipazione delle classi lavoratrici e la realizzazione per esse di condizioni piú umane di vita. […] Il principio veramente fondamentale del socialismo, e di cui quello della collettivizzazione generale non è stato che un’affrettata ed erronea deduzione, è quello secondo il quale le forze economiche non debbono dominare gli uomini, ma — come avviene per le forze naturali — essere da loro sottomesse, guidate, controllate nel modo piú razionale, affinché le grandi masse non ne síeno vittime. […] La proprietà privata dev’essere abolita, limitata, corretta, estesa caso per caso, non dogmaticamente in linea di principio.
Nell’Europa di Ventotene, non c’è spazio per le idee di libertà del liberalismo. Non c’è spazio per la rule of law, perché la proprietà privata è abolita addirittura selettivamente secondo il capriccio del politico di turno. Quante somiglianze coll’UE d’oggi, che prima tutela i conti correnti e poi, come a Cipro, li confisca per coprire il debito creato dai politicanti e da cricche bancarie con essi conniventi.
Ancor una volta si condannano senz’appello le istituzioni sociali esistenti con una logica che sovrappone a esse le oligarchie parassitarie, senz’accorgersi che il problema non è l’esistenza dell’istituzione, bensí il suo rapporto con lo Stato e la politica. Pensiamo agli Ordini professionali: il problema non è la loro esistenza, bensí che lo Stato garantisce loro un ruolo monopolistico, li sussidia, e garantisce loro una posizione di vantaggio. Non ci sarebbe nulla di male se questi fossero frutto d’un ordine spontaneo, cioè se i loro membri scegliessero liberamente se aderirvi. Vorrebbe dire che queste istituzioni sociali trovano una ragione d’esistere nella libertà individuale. A Ventotene, però, queste e altre istituzioni sociali sarebbero abolite perché covo di reazione. Questo è il senso del termine «rivoluzionario» nel Manifesto — ma piú esattamente si dovrebbe usare «giacobino».Costruttivista nella teoria e giacobino nei metodi.
Possiamo notare come l’UE d’oggi mutui dal Manifesto molto dell’approccio in esso contenuto — purtroppo, le parti deteriori. A ciò si somma che sono proprie le oligarchie che gli autori del Manifesto sognavano di combattere a sfruttarla ora al meglio. Il peggio è che la centralizzazione non esclude affatto una deriva totalitaria, che è il fine per cui essi vogliono il superstato europeo; anzi, se ne vedono tutte le premesse, anche se con caratteristiche diverse rispetto al fascismo e al nazismo.
Perché il Manifesto di Ventotene è oggi il mantra degli europeisti, è adorato dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, e trova spazio nelle pubblicità sulle reti RAI (pagate dai contribuenti italiani) quale momento fondativo dell’ideale «europeo»? Proviamo a proporre un’ipotesi. Ogni partito o sistema politico fonda la propria legittimità s’un ideale. Con la caduta dell’Unione Sovietica, un’intera classe politica di sinistra rimase priva delle basi di legittimazione della sua esistenza. Occorreva trovarne di nuove. Fu cosí che il Partito Comunista si convertí dall’eurocomunismo all’europeismo. Napolitano, ad esempio, che oggi sproloquia in televisione d’europeismo, fu un convinto sostenitore dell’eurocomunismo. Come evidenziò Robert Michels nella legge ferrea dell’oligarchia, con lo sviluppo d’un apparato in un partito, l’obiettivo fondamentale diventa la sopravvivenza dell’organizzazione e dei ruoli di potere che l’organizzazione garantisce.
Per le stesse ragioni, l’Unione europea, messa sempre piú in discussione dai fallimenti degli ultimi anni, riesuma il Manifesto di Ventotene per dire agl’italiani che l’UE è un progetto che nasce in Italia e di cui dobbiamo andare orgogliosi, cercando di giocare strumentalmente proprio sul senso d’orgoglio nazionale pur se vorrebbe superarlo in una nuova identità europea. Essa conta anche sul fatto che poche persone si sono prese il tempo di leggere veramente il Manifesto. Questo è anche uno dei modi con cui l’UE cerca di superare la propria crisi di legittimazione.
Articolo originariamente pubblicato su TheFielder
Andrea Benetton | luglio 17, 2014 alle 5:05 pm | Etichette: manifesto, manifesto di ventotene, ue | Categorie:Cultura e Informazione | URL: http://wp.me/p3RTK9-51F