Segnalazione Quelsi
Compiuto il miracolo dell’unità, Cavour lasciò (con intermezzo del solito Lamarmora ) il governo al toscano Bettino Ricasoli. Non venne mai a Napoli. Nel divertente “Venga a Napoli, signor conte” si ricordano le centinaia di lettere di ministri, ambasciatori e amici che chiamavano il Benso nella matassa inestricabile del Sud. Ma egli non andò mai, lasciando tutti i dubbi sull’affondamento delle documentazioni del Nievo contenenti le ruberie mazziniane e garibaldine.
L’offerta dell’eredità del francofono Cavour al non piemontese, estraneo al gruppo destro liberale autoctono della Permanente dei D’Azeglio e Casati, era uno di quei vezzi tipici del tempo in cui una società autoritaria come quella sabauda, ben fondata sulla figura del Re, si pavoneggiava nel patriottismo tanto generoso da offrire spazio agli italiani “esiliati”. Sotto il baffo si era convinti che anche i Rattazzi, (eroe della sinistra del connubio, più tardi compromesso storico, inciucio o larghe intese) e gli estremisti donnaioli come il Brofferio, fossero meglio, in quanto piemontesi, degli estranei già ministri come gli emiliani Mighetti, i toscani Ricasoli e i napoletani De Sanctis. Tanto più quando questi con i lombardi si fecero la propria componente, sempre di destra, chiamata la Consorteria. Cavour aveva proprie fattorie, Ricasoli aveva dettato le prime regole scritte del Chianti doc ed apparteneva alla quarte impresa familiare più antica del mondo risalente al 1141. Ex sindaco granducale, da dittatore della Toscana era stato capace di portare un bel territorio a Torino senza nemmeno un colpo d’arma da fuoco. In quelli che soprattutto agli occhi internazionali dovevano essere governi italiani e non torinesi, l’erede di Cavour fu così lui.
Tanto il Conte era stato poco ideologico, tanto il barone lo era massimamente passando dal mangiapreti al baciapile, mezzo guelfo e mezzo ghibellino, come sarà più tardi anche Carducci. Fosse stato per lui, il Papa sarebbe rimasto re o sindaco di Roma in eterno. Neanche il chiantigiano Ricasoli andò mai al Sud, ma se ne occupò però parecchio. 8968 fucilati, tra cui 64 preti e 22 frati; 10604 feriti; 7112 prigionieri; 918 case bruciate; 6 paesi interamente arsi; 2905 famiglie perquisite; 12 chiese saccheggiate; 13629 deportati; 1428 comuni in stato d’assedio: questo il risultato della repressione terribile fatta attuare contro il brigantaggio dai 105mila uomini del generale romagnolo Cialdini. I piemontesi, cui non mancava il pelo sullo stomaco, inorridirono e allontanarono alla prima scusa possibile prima il militare, poi il premier toscano. Come dovettero fare subito dopo con un altro mezzo straniero, il Mighetti che fece 52 morti e 187 feriti dei moti torinesi di protesta per il passaggio di capitale del Regno a Firenze. Ricasoli, direttamente seduto a Palazzo Vecchio, tornò alla guida del governo in un periodo di centralizzazione prefettizia, dando ancora più sui nervi alla corte piemontese. Ricasoli si opponeva alla fiscalizzazione della tassa sul macinato ed alla nazionalizzazione delle ferrovie. Era statalista e antistatalista sempre in modo inopportuno. Era anche l’unico che avrebbe voluto Firenze capitale anche dopo la presa di Roma. Il risultato fu che la consorteria venne messa fuori gioco in un’inutile fronda finché, presa alla gola, non cedette alle lusinghe del trasformismo. Da parte sua Firenze era contrariata dell’arrivo di politici e funzionari ministeriali cui dava colpa dell’emergenza casa e di non dare ascolto ai membri della locale commissione conservatrice delle Belle Arti che si dimisero in blocco.
Carducci scriveva «come fiorentino antico e artista, penso con orrore alla città di Dante e di Giano, di Machiavelli, di Michelangelo, e di Ferruccio, cambiata in un’uggiosa capitale di uno stato accentrato!» I torinisti mentre sventravano interi quartieri e le arnolfiane mura trecentesche non erano da meno: “ci s’intendeva nel bel dialetto piemontese, a Firenze invece si è costretti a parlare italiano”. Quando la corte si spostò, i 10 milioni stanziati non erano stati tutti impiegati né i lavori ultimati. Renzi è, dopo Ricasoli, il secondo sindaco di Firenze, il nono toscano, a diventare premier. Tra i due, Sonnino, Fanfani, Zoli, Spadolini, Dini, Ciampi, Letta. Sonnino, quello del pareggio di bilancio, Dini e Ciampi erano del partito bancario. In Spadolini e Letta la toscanità è un’appoggio per carriere giornalistico-partitocratiche. La linea toscana è quella Ricasoli, Fanfani e Renzi cui ben si aggiungerebbero altri due come Ciano e Pavolini. Il figlio, in senso letterale, della grandeur nazionalista, frondista anche contro se stesso e il giovane dorato della corte del primo nell’Italia dei telefoni bianchi, divenuto poi teorico del partito militare terrorista, fino a far fucilare l’ex patron politico.
Da toscani, questi leader espressero e esprimono disperatamente una voglia autoritaria del fare, nell’incostanza e nella confusione delle idee sul dove, come e perché. Con nozioni, sottigliezze, dialettica ed erudizione espongono il coraggio di inesorabili convinzioni, senza svelare che si tratta di vuoto fanatismo. Il filoebreoamericanismo a oltranza, la grandeur di pace, il militarismo prefettizio, la rottamazione. Cavour non andò al Sud, Ricasoli lo insanguinò, Renzi c’è andato, primo nella sabbiosa Gela, in un tour de force da 900 km, la mattina a Napoli con Caldoro e De Magistris, il pomeriggio nella calabra Gioia, la sera con il siciliano Crocetta a Termini e Gela. L’animo del rottamatore gli impediva di guardare negli occhi gli interlocutori, tutti da macero nei pensieri interni. Come l’ennesimo garibaldino, ha promesso tutto a tutti, lasciati protocolli d’intesa per 30 milioni, difeso cause indifendibili. Come in un miraggio ferragostano, in un blitz di 18 ore, 900 km, 3 regioni, Renzi si è mostrato per cancellare la maratona a nuoto del Grillo e le urla che lo chiamavano ebetino. Ha portato la stella cometa, lasciando che si scommettesse sul verso filomeridionale o forse antimeridionale della sua coda. Non importa quale sia il verso, contano solo i talismani e reliquie di questa battaglia del grano. Del viaggio fantasmi, si dirà Renzi venne al Sud. O era Cavour?
Giuseppe Mele | agosto 16, 2014 alle 9:45 am | Etichette: cavour, renzi, sud | Categorie: Italia,Politica ed Economia | URL: http://wp.me/p3RTK9-5ei