Segnalazione del Centro Studi Federici
“Mio figlio rapito non è tornato e mia moglie è morta di dolore”
Gorie, cristiano di Qamishli: “Ho venduto la casa per pagare un riscatto inutile”
Gian Micalessin Qamishli (Siria) – Gli è rimasta solo la speranza. Spalmata su un cuore prosciugato, su un corpo divorato dal dolore, su una mente ripiegata nel ricordo.
È la storia di papà Gorie. La storia di tutto quello che gli è stato rubato. La storia di un figlio rapito a 25 anni e mai più tornato. La storia di tanti Cristiani di Siria.
«Era giugno, giugno di un anno fa. Gabi quella sera è qui in casa con noi quando all’improvviso chiama la compagnia degli autobus. Deve sostituire un collega, portare un pullman a Deir El Ezzor, giù a sud, nei territori dei ribelli. Gabi non dice mai di no. Me lo ricordo ancora. Abbraccia me, dà un bacio a mamma e promette “domani sera, dopodomani al massimo sono di ritorno”. La sera dopo non arriva. Il giorno dopo non telefona. Due giorni dopo chiamo la compagnia. Un signore mi dice l’hanno rapito, l’hanno preso quelli di Jabat Al Nusra. Si son portati via lui e la nostra corriera. È successo a sud di Deir El Ezzor, ma niente paura paghiamo qualcosa e ce lo ridanno. Aspettate qualche giorno e vedrete. Massimo una settimana e Gabi torna a casa. Io non lo dico, ma so che Jabat Al Nusra non sono buone notizie. A quel tempo erano Al Qaida, oggi stanno con lo Stato Islamico. Eppure decido di fidarmi. Scelgo di sperare. Sara, mia moglie no. Lei urla e strepita già quella sera. Piange come una pazza, ripete che Gabi non tornerà. Io la supplico di star tranquilla».
«”Me l’hanno promesso, pagano e lo riportano a casa”. Un mese dopo il telefono squilla di nuovo. Dall’altra parte sempre la stessa voce. La voce della compagnia. Mia moglie mi osserva in silenzio mentre io ascolto quella voce. Ripete sempre la stessa frase. “Chiedono troppi soldi… non possiamo pagare Capisce? Non possiamo pagare”. Io guardo lei.
Sara guarda me. Non mi esce una parola. Non riesco a dire nulla. Quello della compagnia urla sempre più forte. Non possiamo pagare, mi sente? Capisce?. Ma io penso solo a Sara, vedo solo mia moglie. Mi chiedo cosa raccontarle. Lui dall’altra parte mi strilla nell’orecchio. “Allora ha capito? Per suo figlio non se ne fa nulla. Provateci voi”. E riattacca. Riattacco anch’io. Abbraccio Sara, ma lei inizia urlare. Da allora per 12 mesi non smette più. Si alza la notte, piange, si dispera. Il letto diventa un bagno di lacrime, la stanza la tomba della nostra disperazione. Io ogni mattina mi alzo più vecchio. Ogni mattina la sveglio con la stessa promessa. Riporterò Gabi a casa, te lo riporterò. Fidati di me e lo riavrai. Passano le settimane, passano i mesi e intanto mediatori mi ripetono sempre la stessa frase: “È vivo, è solo questione di soldi, ce la possiamo fare”. Alla fine mi decido. Non ho un soldo, ma ho questa casa. I mediatori mi dicono la cifra ed io, due settimane dopo, vendo, incasso e mi metto in affitto. Ma sono felice. Quella mattina sveglio Sara, le mostro la borsa. Lei mi abbraccia. È la prima volta dopo tanti mesi. E per una volta non piange. Per una volta anche lei spera. La borsa parte, ma Gabi non arriva. Aspetto una settimana, ne aspetto due. Poi una mattina bussa il mediatore. Entra in casa, alza le braccia al cielo. “Due sono tornati, ma di tuo figlio non sappiamo nulla. Abbiamo perso le sue tracce”. Quella mattina erano tre mesi fa, non lo dimenticherò mai. Vado nella stanza busso, lei dorme ancora. Apre un occhio. Io l’accarezzo, le dico solo “non è tornato”. Poi è un attimo. Lei si alza, mi guarda. Nei suoi occhi non c’è nulla. Solo il vuoto. Nella sua bocca solo quell’urlo Gabi, Gabi, Gabi. Lo ripete per tre volte poi mi cade tra le braccia. È morta così, ripetendo il nome di nostro figlio. Io ho perso tutto e sono rimasto solo, ma spero ancora. Qualcosa nel mio cuore mi dice che è ancora vivo, mi dice di sperare. Mi hanno rubato tutto, non possono rubarmi anche quello. Sono un cristiano e la speranza è la mia ultima fede».
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