Segnalazione Quelsi
by Cristiano Mario Sabbatini |
L’idea di Antonio Gramsci, quando dal carcere si accinse a scrivere i Quaderni era nientedimeno che quella di
trovare la via italiana alla dittatura del proletariato, come Lenin aveva individuato e praticato la via russa allo scopo.
Gramsci intendeva porre le basi per la stessa cosa da fare in Italia.
La sua filosofia della praxis non è nient’altro che la concettualizzazione di come, per ogni situazione data,
vadano ricercati la metodologia ed i soggetti sociali specifici, necessari per innescare quel processo che
ineluttabilmente porti al potere il proletariato nel paese di volta in volta considerato.
Non c’è niente di più puro, dal punto di vista marxista-leninista, dell’approccio di Gramsci alla situazione politica italiana.
In quegli anni, nel movimento comunista internazionale, ancora non era così consolidata l’idea che la
rivoluzione russa fosse una procedura del tutto ortodossa in seno al modo di concepire l’ascesa al potere del
proletariato.
Lo schema di Marx prevedeva che, per considerare mature le condizioni per una presa del potere da parte del
proletariato, occorrevano uno sviluppo maturo del capitalismo che tale non poteva certo essere ritenuto, né
nella Russia rivoluzionaria di Lenin, ne nell’Italia appena conquistata dal fascismo.
Il marxismo-leninismo è, dunque, una via eterodossa alla rivoluzione comunista secondo Marx e Gramsci ne è
stato in quegli anni il rappresentante politico maggiore in Italia.
L’importanza data agli intellettuali e a quella che lui chiama egemonia culturale della classe operaia guidata
dagli intellettuali è il mezzo attraverso il quale egli vede possibile il colmarsi di quelle lacune dovute alla
debolezza della classe operaia italiana che rendono prematura la sua presa del potere.
L’egemonia degli intellettuali della classe operaia per Gramsci è il grimaldello per arrivare al dominio e alla
conquista dello Stato da parte del proletariato, altrimenti non possibile.
Puro marxismo-leninismo applicato all’Italia, alle sue specificità ed ogni approfondimento di Antonio Gramsci
sulle condizioni del mondo culturale italiano di allora, è tutto e solamente teso a trovare la migliore strategia per convincere gli intellettuali borghesi a capire che il dominio della classe operaia è un destino ineluttabile della storia anche per l’Italia.
Gramsci era un marxista-leninista, un rivoluzionario comunista in buona fede. In alcuni ambiti si diceva un
tempo che il comunismo nell’individuo è una malattia cognitiva curabile perché, appunto, si insinua come un
vero e proprio gap cognitivo, sostenuto da una sincera, ma non per questo meno ignorante, inclinazione per la
giustizia sociale.
A Gramsci va riconosciuta ampiamente questa attenuante e questa buona fede.
Veniamo ora al seguito della storia.
Tutta questa fatica intellettuale di Antonio Gramsci giunge nelle mani di Palmiro Togliatti intorno al ’44. Un bel
problema per il capo del Partito Comunista Italiano di allora. Che se ne poteva fare della via italiana alla
dittatura del proletariato, quando già conosceva la deriva staliniana che aveva preso la rivoluzione in Russia ed
il fatto che la guerra che stava terminando avrebbe fatto finire l’Italia nella parte di emisfero che non poteva
mai essere declinata al comunismo senza incorrere nell’ammonimento della stessa madre Russia versione Stalin?
Un bel problema, di primo acchito, per Togliatti l’incombenza del deposito intellettuale di Antonio Gramsci. Che
fare? Avrebbe detto Lenin.
Togliatti non era Lenin, non era Gramsci e non era neanche parte di quei comunisti in buona fede di cui parlava
prima.
L’egemonia culturale espressa dagli intellettuali comunisti perse la sua caratteristica gramsciana e divenne la
leva attraverso la quale si concretizzò tutto il consociativismo così come lo abbiamo conosciuto in tutta la storia repubblicana. Il capolavoro di Togliatti fu quasi la replica speculare degli accordi di Yalta applicati all’Italia.
Non fu un caso che il primo curatore della pubblicazione dei Quaderni di Gramsci fu Palmiro Togliatti, come non
fu un caso che come ministro della Giustizia, nel provvisorio governo di liberazione nazionale, per prima cosa
nominò centinaia di magistrati della sua area politica nell’allora costituenda magistratura repubblicana.
Nemmeno per caso, dopo l’attentato che subì, fu il suo appello ai militanti del partito, ancora dall’ospedale, di
non dare seguito a tutte le mobilitazioni che i comunisti si erano affrettati a fare in tutto il paese pensando che fosse venuto il momento di prendere con la forza il potere.
Non ci pensava minimamente Togliatti a prendere con la forza il potere in Italia, perché sapeva che i primi a
redarguirlo senza prove di appello sarebbero stati i suoi superiori da Mosca.
Il consociativismo era l’unica via di sbocco per dei rivoluzionari che sarebbero diventati funzionari di Stato e per una fetta di intellettuali che sarebbero divenuti la stampella di questo inganno.
Per la classe operaia politicizzata ed i piccoli quadri di partito l’alternativa: divenire un ceto medio burocratico, assistito e protetto dal partito in cambio di un voto e/o del funzionariato in seno all’organizzazione di partito oppure scannarsi per una ideologia che non aveva più ormai alcuna possibilità di affermazione.
Chissà se Gramsci sarebbe stato entusiasta di questa traslazione del suo pensiero? Forse si, forse no.
Il vero compromesso storico nasce molto prima, quindi, di quando ufficialmente si è compiuto nel 1976.
Ci vorrà l’edizione curata dal Gerratana, sempre a metà degli ’70, dei Quaderni di Gramsci per farne emergere l’impianto marxista-leninista che li soggiaceva.
Nel frattempo sulle strade d’Italia si consumavano gli anni di piombo: il riverbero di una rivoluzione tradita e di un gap cognitivo mai colmato da molti marxisti-leninisti di questo paese.
Tanto dolore arrecato e tanti ergastoli per nulla.
Per Togliatti, da subito dopo la fine della guerra, al posto della dittatura del proletariato si era posto all’orizzonte il più comodo Statalismo da dividere con l’altra parte dei vincitori della guerra.
Cosa è rimasto a oggi di tutto ciò? Per capirlo occorre precisare che tutte le evoluzioni del Partito Comunista
dopo Togliatti, da Berlinguer a D’alema, per arrivare alle attuali denominazioni più o meno allargate, più o meno
socialdemocratiche, sono invece molto allineate e conseguenti alle scelte di Togliatti di allora.
A credere alle sue manipolazioni del pensiero di Gramsci son rimasti solo gli attempati reduci di un partito, i
quali, nelle ultime sezioni di una volta, dietro le foto sbiadite di Berlinguer, giocano a briscola e tressette, tristi testimoni di un mondo che non esiste più.
C’è, ora, una classe dirigente ed uno stormo di intellettuali a rappresentare il partito che, da questa invasione
dello Stato nella vita di una nazione, riceve ed elargisce dei privilegi a chi continua a votarlo. Un’unione
indissolubile ancora del tutto legata alle scelte di Togliatti a fine guerra. Un matrimonio che ha perso le sue
connotazioni ideologiche di facciata, ma che nella classe dirigente della sinistra passa di generazione in
generazione, attraverso un inusitato senso di appartenenza, non più all’idea, ma alla poltrona che si occupa; un
connubio che nel ceto burocratico interessato ed assistito si continua ad accettare barattandolo in cambio di un
favore, di un ‘diritto acquisito’ o di una pensione d’oro, al posto di un’idea che si è rivelata per quello che era: un fallimento.
Fino a che la spesa pubblica non più controllabile non lo verrà a minare, questo matrimonio tenuto a battesimo
da Togliatti in una parte della società italiana non potrà terminare. Letta, sta a Bersani, come Bersani sta a
D’Alema e Veltroni, come questi due ultimi stanno a Berlinguer, come Enrico Berlinguer sta a Togliatti.