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Nella battaglia di Amburgo l’Italia cercherà di strappare i Marò dalle grinfie dell’India

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Segnalazione Quelsi

unnamed (1)Come annunciato ad Amburgo dalla cancelleria dell’Itlos (International Tribunal for the Law Of the Sea), nella due giorni del 10 ed 11 agosto si svolgerà un’udienza di fondamentale importanza, perchè il giudice Vladimir Vladimirovich Golitsyn ed i suoi assistenti a latere dovranno stabilire se l’India ha legittimamente esercitato la sua giurisdizione sui Marò. A tale riguardo, la posizione dell’Italia è ovviamente che l’India ha arbitrariamente ed illegalmente trattenuto, indagato, arrestato i Marò senza avere il diritto di farlo. Per questo si è presentata istanza perchè, nelle more di una decisione finale circa l’attribuzione della giurisdizione del caso della morte di due pescatori indiani ad Italia od India, decisione che è poi l’oggetto dell’arbitrato richiesto dall’Italia, per Latorre e Girone venga annullato l’ordine di restrizione della libertà individuale, con restituzione dei passaporti. Altresì, si chiede l’annullamento delle disposizioni della Corte Suprema dell’India in ordine al regime di custodia cautelare dei Marò, per la quale l’Italia sollecita una decisione dell’Itlos alla quale le due parti si dovranno necessariamente rimettere, perchè entrambe firmatarie della Convenzione Unclos III, fatta ratificare dai rispettivi Parlamenti.

A lume di ragione le richieste italiane dovrebbero essere completamente accolte, con i Marò rimessi in libertà dall’India e sottoposti al tipo di custodia cautelare che l’Itlos disporrà per loro. Logica vuole, infatti, che non essendosi sinora stabilito a quale tra le due parti verrà riconosciuta la giurisdizione sul loro caso, è assolutamente inaccettabile che una delle due parti, cioè l’India si sia arrogata il diritto di giudicarli. Pertanto, tutte le decisioni prese nei loro confronti sono inficiate alla base da evidente carenza di giurisdizione, e quindi risultano di nessuna rilevanza giuridica e da dichiarare legalmente inefficaci. E’ chiaro che le decisioni della Corte amburghese rivestono enorme rilevanza anche in funzione della soluzione del conflitto giuridico esistente tra Italia ed India. Il pieno accoglimento delle richieste dell’istanza di parte italiana sarebbe un primo significativo passo verso il riconoscimento delle ragioni dei Marò e dell’arbitrarietà dell’azione giudiziaria attuata dall’India.

Il 18 gennaio del 2013, in merito ad un ricorso dei due fucilieri con la partecipazione del governo italiano schierato al loro fianco, la Corte Suprema dell’India emise una sentenza di cui diamo i riferimenti per gli addetti ai lavori, esperti di diritto internazionale e penalisti interessati all’inedito caso dei Marò. Si tratta della sentenza sulla richiesta di Writ Petition (Civil) No. 135/2012 – Republic of Italy and others vs Union of India ed others – corredata da Special Leave Petition (Civil) No. 20370/2012, Massimiliano Latorre and others versus Union of India and others. Il documento di 160 pagine si compone di tre parti. La prima consta di 53 pagine ed è la petizione propriamente detta che rappresenta tutte le deduzioni italiane con tanto di elencazione delle motivazioni che fanno ritenere del tutto illegali le misure prese contro i Marò. La petizione, che è stata curata dall’avv. Harish N. Salve ed appare molto consistente e ben documentata, si conclude con una nota dell’Ambasciata italiana a New Delhi con la quale il governo italiano invoca per Latorre e Girone il riconoscimento dell’immunità funzionale, ovvero che le eventuali responsabilità degli atti commessi dai Marò, militari in regolare servizio ed ufficialmente impegnati in una missione di difesa antipirateria di una nave civile italiana, vadano attribuite al governo italiano stesso, ed il contenzioso sorto con l’Unione dell’India risolto a livello politico-diplomatico.

Tra le argomentazioni della petizione ce ne sono alcune di cui s’è parlato poco, o non s’è parlato affatto, perchè rappresentano delle intriganti speculazioni di carattere prettamente giuridico. Ne segnaliamo un paio. L’arresto dei Marò venne deciso dagli inquirenti del Kerala e le susseguenti indagini preliminari vennero condotte dalla Capitaneria di Porto e dalla polizia di quello Stato. Ora, siccome anche l’India accetta che il reato, se c’è stato, è avvenuto a 20,5 miglia dalla costa del Kerala, le indagini, le testimonianze, gli elementi probatori, le perizie ed ogni altro elemento raccolto dagli inquirenti keralesi non ha alcuna rilevanza legale e forense al fine di istruire un processo contro i Marò. Questo per ragioni inoppugnabili: il limite delle acque territoriali indiane, che giuridicamente fanno parte integrale del territorio indiano, si stende a 12 miglia. Quindi l’incidente con la Enrica Lexie si è verificato fuori dalle acque territoriali, ma all’interno della Contiguous Zone che si estende sino a 24 miglia, e che a sua volta è situata all’interno della Exclusive Economic Zone con limite delle 200 miglia.

Ora, il punto sollevato dall’avv. Salve è questo: nell’azione penale esercitata contro i Marò, il Kerala ha presunto di potere applicare la propria giurisdizione anche al di fuori delle acque territoriali indiane, anche nella Contiguous Zone. Questa decisione è stata opposta dall’Italia facendo nascere una disputa. Trattandosi di un contenzioso su scala internazionale, è ovvio che la contesa non può avvenire tra l’Italia ed il Kerala che non hanno relazioni diplomatiche tra loro, con il Kerala che non ha alcuna titolarità di sovranità secondo il Diritto Internazionale, ma può avvenire solo tra Stati sovrani e riconosciuti come tali secondo il Diritto Internazionale, ovvero tra governi centrali o federali. La stessa Corte Suprema di Delhi ha dovuto riconoscere che il Kerala si è indebitamente arrogato diritti che non aveva. Il fatto che la Corte fosse a conoscenza di questa palese violazione di tutti i principi stabiliti dalla Risoluzione delle Nazioni Unite dal titolo “Declaration on Principles of International Law Concerning Friendly Relations and Cooperation between States in accordance with the Charter of United Nations” avrebbe dovuto invalidare ogni atto giudiziario del Kerala, incluso l’arresto e la detenzione dei Marò. Di conseguenza, la questione loro riguardante avrebbe dovuto divenire un contenzioso da risolversi tra la Repubblica Italiana e l’Unione Indiana, senza coinvolgere sul piano delle responsabilità Latorre e Girone che avrebbero dovuto essere lasciati liberi, sebbene con lo status di indagati.

Un altro punto clamorosamente a favore della posizione italiana e dei Marò è questo. Secondo informativa resa dal Ministero della Marina Mercantile indiano, il St Antony, cioè il peschereccio che ha lamentato l’uccisione di due suoi pescatori da parte di militari sulla Enrica Lexie, di proprietà di Freidy Bosco, non era iscritto nel registro di cui all’Indian Merchant Shipping Act (Legge di navigazione mercantile dell’India) e che al momento dell’incidente navigava SENZA ALCUNA BANDIERA ISSATA, per cui sarebbe stato impossibile per chiunque escludere a priori che si trattasse di pirati. Il St Antony risultava invece registrato a Colachel, distretto di Kayakumari, nello Stato del Tamil Nadu, India orientale. Le licenze di imbarco dell’equipaggio erano state rilasciate dal Matsyathozhilali Forum di Trivandrum, nel Kerala, ma si trattava di documenti personali che non riguardavano la navigabilità del peschereccio. Tra l’altro si è scoperto (dopo) che il St Antony navigava inusitatamente lontano dalla costa perchè c’era un avviso di presenza di pirati. In ogni caso, questa è una seconda ragione per dichiarare inammissibili le prove raccolte dal Kerala, perchè persino secondo il codice penale indiano il caso non era di competenza del Kerala, ma del Tamil Nadu, parte lesa nell’incidente perchè si trattava di battello registrato in quello Stato.

Di seguito alla petizione italiana, la sentenza propone in un sessantina di pagine le controdeduzioni di Goulab Banerji, l’Additional Solicitor General, uno dei sostituti dell’avvocato generale dello Stato, che rappresentava l’Unione Indiana chiamata in causa dal nostro governo e dai Marò. Molte delle sue argomentazioni appaiono pretestuose, spesso infondate, e nelle quali si confonde spesso l’applicazione delle leggi locali ed internazionali. Quando non gli fa comodo, o nulla può opporre alle argomentazioni di Salve, Banerji non entra mai nel merito dei punti sollevati. Ad esempio, per quanto concerne l’immunità funzionale invocata dai Marò, risponde in modo arrogante che “non rientra tra i compiti del governo indiano quello di rilasciare dichiarazioni di immunità per chicchessia”. Speriamo che quando sarà il momento, a Banerji rinfaccino che quando si trattò di salvare da una certa condanna a morte 47 tra ufficiali e soldati dell’India impegnati in missione di pace in Congo, ma che invece di fare i peacekeepers trafficavano in armi, oro e diamanti, derubavano ed assalivano gli indigeni, stupravano donne e bambine spesso sopprimendo le loro vittime, pretesero che magistrati congolesi e l’Onu riconoscessero l’immunità funzionale dei caschi blu indiani e che questi fossero restituiti liberi, sani e salvi al loro Paese.

Alla fine, la posizione indiana ruoterà attorno ad un punto, l’unico sul quale possono sperare i costruire qualche tesi attendibile e degna di profonda ed attenta discussione, questo. Posto che la legge che definisce le Zone Marittime (Maritime Zones Act, 1976) ammette in casi ben precisati la possibilità per uno Stato di estendere la propria sovranità oltre le acque territoriali e sino al limite della Exclusive Economic Zone di 200 miglia, può il caso dei Marò rientrare tra quelli previsti dalla legge per cui il perseguire il reato di omicidio con l’applicazione del Codice Penale Indiano diviene del tutto legittimo?
Noi crediamo di no, e speriamo che ad Amburgo condividano il nostro convincimento. L’art 97 dell’Unclos, Penal Jurisdiction, non lascerebbe adito a dubbi di sorta. Esso si articola in tre commi e, tradotto dall’inglese, recita:

Comma 1. “Nel caso di collisione, o di qualsivoglia altro incidente che coinvolga una nave in navigazione in alto mare, che implichi la responsabilità del capitano o di di qualsiasi altra persona in servizio sulla nave, nessuna azione penale o disciplinare potrà essere intrapresa contro tale persona, fatta eccezione per le autorità giudiziarie od amministrative dello Stato di Bandiera della nave, o dello Stato di cui la persona ha la nazionalità” (quindi solo l’Italia nel caso Marò, ndr).

Comma 3. “NESSUN ARRESTO, nè il SEQUESTRO DELLA NAVE, neppure al solo fine di svolgere indagini, potranno essere disposti da alcuna autorità che non siano quelle dello Stato di Bandiera”.

Ricapitolando, il Kerala si è arrogato il diritto di richiamare in porto la Lexie che stava in alto mare (38 miglia dalla costa) per inquisire i Marò e sequestrare la Enrica Lexie, ciò in aperta violazione di questo articolo, che stabilisce in modo chiaro e senza ambiguità che, trattandosi di incidente avvenuto in acque extra-territoriali, le uniche autorità che avrebbero avuto la giurisdizione sui Marò e l’Enrica Lexie erano magistratura ed inquirenti italiani. Ma questo articolo dice anche molto di più, perchè quando la Corte Suprema ha tolto il fascicolo al Kerala per portarlo a New Delhi, è stata l’Unione Indiana a proseguire nelle violazioni inizialmente commesse dai keralesi continuando a tenere prigionieri Latorre e Girone. In nessun caso l’India può quindi rivendicare la giurisdizione per giudicare i Marò. Ma c’è un ma. L’art. 97 parla di collisione e più generalmente di incidente. Ora, chiederanno gli indiani ad Amburgo, un omicidio a bordo di una nave può essere considerato un incidente in mare? L’obbiettivo degli indiani è evidente: se un omicidio non rientra nella casistica degli incidenti l’art. 97 non si applica, ma se ne può applicare un altro, quello che contempla casi di omicidio.

Per fare questo gli indiani cambiano legislazione e si arrampicano sugli specchi. Intanto aprono una interminabile discussione di lana caprina su una terminologia che può apparire banale, ma che in effetti jon lo è: qual è la differenza tra Sovereign rights e right of Sovereignty? Nel primo caso si tratta di diritti che derivano dall’esercizio della sovranità di un Stato sul proprio territorio. Nel secondo caso si tratta del diritto di imporre la propria sovranità. In altri termini, la legislazione delle Zone Marittime prevede la possibilità per uno Stato di estendere dei diritti di Sovranità, cioè alcuni di essi, non tutti, al di là delle acque territoriali e sino al limite delle 200 miglia. Il caso di right of sovereignty è la possibilità di applicare qualsiasi disposto della propria legislazione, dal fisco al penale entro le 200 miglia. Ma non è così, perchè il Maritime Zone Act non contempla casi penali, perchè la questione non si pone.

Infatti, in linea generale il principio informatore cui ci si attiene deriva da un principio anglosassone dell’800, che tutti hanno sempre rispettato, secondo il quale “un reato va giudicato là dove è stato commesso”. Ora nel caso di reati penali, tipo Marò e simili, il problema si risolve da sè: se il delitto o il reato è commesso in acque territoriali, la giurisdizione è dello Stato cui appartengono quelle acque, l’India nel caso di Latorre e Girone. Se il delitto o reato viene commesso al di fuori delle acque territoriali, anche se si tratta di acque sulle quali in alcuni casi uno Stato può estendere alcuni diritti di sovranità, poichè questi non riguardano mai aspetti penali, ma solo di prevenzione e salvaguardia di interessi economico-ambientali, ecco che si deve applicare il disposto del’art. 97 dell’Unclos, che fa prevalere la giurisdizione dello Stato di bandiera della nave su cui è commesso il reato, o di nazionalità dell’indagato.
Quindi, in nessun caso l’India nella vicenda dei nostri due fucilieri.

Quello che invece vorrebbe fare l’India è sostenere questo sviluppo logico: l’omicidio non è un incidente (ma incidente, non essendo definito, include tutto, qualsiasi accadimento diverso da una collisione, ndr) per cui bisogna applicare una legislazione che contempli esplicitamente l’omicidio. Questa legislazione esiste, è la famosa “Suppression of Unlawfull Acts Against Safety of Maritime Navigation and Fixed Platforms on Continental Shelf Act, 2002”, la quale all’art.3 comma 1 prevede che : “Chiunque commetta deliberatamente atti di violenza contro una persona situata a bordo di una piattaforma fissa o di una nave che può mettere a rischio la sicurezza della piattaforma, o a seconda dei casi, la navigazione di una nave, sarà punito con il carcere sino a 10 anni e passibile di sanzione amministrativa”. Ora di cose se ne possono dire tante, ma qui gli indiani si incartano da soli.

La legge qui invocata, il Sua Act 2002, è la legge promossa dall’Italia in ambito Onu e firmata a Roma nel 1988 dopo i tragici fatti che coinvolsero la nave da crociera Achille Lauro. E’ una legge mirata esclusivamente al contrasto della pirateria e di atti di terrorismo consumati in mare e la cui applicazione è estesa entro il limite delle 200 miglia. Cosa c’entrano i Marò con i terroristi? Peraltro, il loro caso non rientra per definizione tra quelli contemplati dall’art, 3 sopra riportato e che s’inizia con le parole : “Chiunque commetta DELIBERATAMENTE….”. Il St Antony viaggiava in anonimato senza esporre alcuna bandiera, viaggiava in altomare (per dichiarato timore dei pirati) essendo sì e no attrezzato al massimo per la navigazione di piccolo cabotaggio, si è messo su rotta di collisione della Lexie, non ha risposto a nessun richiamo radio, sonoro e visivo, è chiaro che sia stato ritenuto una barca di pirati, per cui come si potrebbe sostenere che è stato deliberatamente attaccato? Del resto la stessa Corte Suprema ha definito il fatto come “omicidio di due pescatori indiani erroneamente scambiati per pirati”.

Tra l’altro, nella sentenza della Corte suprema, che occupa le ultime 40 pagine del dispositivo del 18 gennaio del 2013, si è richiamato il comma relativo all’aggressione in mare. In effetti, la NIA aveva tentato di applicare un altro comma, quello che riguarda il caso dell’uccisione di una persona con conseguente rischio della sicurezza di navi o piattaforme, caso in cui il carcere sino a 10 anni più la multa sono sostituiti dall’impiccagione. Una interpretazione del caso Marò affondata dalla Corte Suprema, dal primo ministro indiano, all’epoca Singh, e da tre ministri, Esteri, Interni e Giustizia. La parola ora passa alle parti, agli avvocati ed ai giudici di Amburgo, dei quali abbiamo grande stima e nei quali riponiamo piena fiducia. Ci siamo letti e riletti le carte un sacco di volte e ci siamo convinti che gli indiani non hanno nulla in mano. Speriamo sia veramente così e di rivedere presto anche Girone sulle spiagge di Puglia.

Rosengarten | agosto 6, 2015 alle 2:03 pm | Categorie: Giustizia e Società | URL:http://wp.me/p3RTK9-9Ol

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