Sulla parabola evangelica degli operai nella vigna (Mt. 20, 1-16) e sua allegoria. Dai Discorsi di San Roberto Bellarmino.

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Segnalazione e commento di Maurizio-G. Ruggiero

… interessante, oltre che per i suoi significati reconditi, anche per i molti risvolti concernenti la nostra stessa vita…

San Roberto Bellarmino

I Discorsi

I CLASSICI CRISTIANI

Edizioni Cantagalli – Siena – 1949 – Volume II

 

Discorso n. XVII, pp. 121-140

[Sulla parabola degli operai presi dal padrone a giornata

per andare a lavorare nella vigna, Mt. 20, 1-16]

          […] Che fece dunque quel gran Padre di famiglia? «Uscì di buon mattino a prendere ad affitto operai per la sua vigna». Che è ciò, uditori? Dio uscì? Donde uscì? Dove mai andò? Non ha detto egli stesso: «Empio [riempio] il cielo e la terra» (Ier. 23. 24.), e «il cielo è il mio seggio, e la terra sgabello ai miei piedi» (Isa. 66. 1.) e ancora «io sono il Signore, e sono immutabile»? (Malac. 3. 6), Non dice di lui stesso l’Apostolo San Giacomo: «In cui non è mu­tamento, né alternativa di adombramento?» (Iac. 1. 17.). Dov’è andato dunque chi non si muove mai, ed è sempre in ogni dove? Fate attenzione, uditori, alla metafora usuale nella Sacra Scrittura. Dicesi nei sacri libri, che Dio esce, quando si manifesta con operare qualche cosa fuori di sé. Quando Dio Pa­dre genera il Figlio con l’intelligenza della mente, e cosi pure quando lo Spirito Paraclito, che non è né genitore né generato, ma soavità del genitore e del generato, e procede dal Padre e dal Figlio, co­me da un solo principio e per un’unica ispirazione: Dio opera sì certo, ma opera da tutta l’eternità dentro di sé, senza alcun testimonio, senza che altri vi partecipi. Perciò non si dice, che alloca esca, ma che rimane e sta nascosto in sé stesso. Ma, quando fa il mondo, l’amministra, lo governa, lo muta, per­ché opera fuori dì sé e si manifesta; allora non sen­za ragione si può dire, che esca. Uscì, quando fab­bricò il cielo e la terra: usci, quando diede a Noè il comando di fabbricare l’arca; usci, quando trasse Abramo da Ur dei Caldei; uscì, quando liberò il suo popolo dalla schiavitù di Faraone; uscì, finalmente, quando fatto uomo, apparve sulla terra.

E perché mai uscì? Appunto «per pigliar a fitto dei lavoratori per la sua vigna». E qual’è questa vigna? Quali gli operai? Vigna è la Chiesa. Sebbene «del Signore sia la terra o tutto quello, che la riempie» (Ps. 23. 1): pure egli si elesse di tutta la terra una certa vigna, e la coltiva con singolare provvi­denza. Di essa si fa menzione molto frequente nei libri santi. Anche noi potremmo dire molte cose di essa, se il tempo ce lo permettesse, e non ci affret­tassimo ad altre cose più necessarie.

          Quanto agli operai, essi sono quelli, che Dio in ciascuna età mette a capo della vigna da coltivare. Tali furono tempo addietro i Patriarchi, i Profeti, i Sacerdoti e gli Apostoli. Ora sono i Pontefici, i Predicatori, i Pastori, i Dottori ed altri, che si occupano in questo solo, che non s’inselvatichisca questa vi­gna, né vada coperta di triboli e di spine, né sia devastata dalle bestie che avessero ad en­trare in essa; sì invece fiorisca, vegeti, si propagini [propaghi], faccia abbondantissimi frutti. E non si può tro­vare altro uffizio più nobile, più eccellente, più grato a Dio e più utile a noi dì questo. Dio vuole tanto bene a questa sua vigna, che par che abbia fatto a vantaggio di essa, quanto fece fino da principio. A quelli poi, i quali sono assunti da Dio a quest’opera così sublime d’essere operai nella sua vigna, non deve sembrar pesante il dare un bell’addio a tutti gli altri affari, cure, e guadagni: anzi devono go­dere di un bene cosi eccellente, e mostrarsi a Dio ed agli angeli che ne sono spettatori, operai valenti in questa vigna.

          Certo, se Dio per creare il cielo si fosse servito di un uomo, o di un angelo, penserebbe quell’uomo o quell’angelo, di essere stato elevato ad una altis­sima dignità onorifica. E non per altra ragione am­miriamo quelli, i quali splendettero per strepitosi mi­racoli, se non perché in quelle opere magnifiche e che superano le forze dì tutte le cose create, furono strumenti di Dio. Con quanta maggior ragione non dovremo riverire ed ammirare la sublime eccellenza di quelli, dei quali, come di istrumenti si è degnato Dio dì servirsi per coltivare la sua vigna, illuminare la mente degli uomini e richiamarli alla vita? Senza alcun dubbio è opera più nobile e straordinaria far che si volga a Dio la libera volontà dell’uomo che è propensa al male, che non sia creare il cielo e la terra: ed è più risvegliare l’anima addormentata, che richiamare il corpo da morte a vite. Si aggiun­ga, che questi operai, oltre che esercitano un’opera chiaramente esimia, conseguiranno sicuramente tan­ta mercede, quanta non ne potrebbero desiderare.

          Udite ciò che segue nel Vangelo: «Ed avendo convenuto coi lavoratori a un denaro per giorno, li mandò alla sua vigna». Che cosa pensate voi, che significhi questo denaro? Nient’altro che la felicità eterna: ovvero designa il Figlio stesso di Dio, nella cui visione e possesso consiste la nostra beatitu­dine. Come il denaro porta impressa la figura del Prìncipe; così lo stesso Figlio di Dio è chiamato dall’Apostolo Paolo «splendore della gloria e figu­ra della sostanza» (Heb. 1, 3.) di Dio. E come il denaro non contiene solo una figura, ma anche alcune parole; così anche il Figlio di Dio non è sol­tanto figura, ma altresì Parola del Padre. Ancora, come il denaro ha la figura rotonda, nella quale non si trova, né il principio, né la fine; così il Figlio dì Dio, secondo che parla l’Apostolo, «è senza prin­cipio e senza fine di vita» (Heb. 7, 3). Inoltre, come ai denari ubbidiscono tutte le cose, e per mezzo di essi sì fa tutto; cosi per mezzo di Cristo sono state fatte tutte le cose, e Dio Padre gli ha soggettate tutte le cose. Questa è dunque la nostra ricompensa e «ricompensa grande oltre modo» (Gen. 15, 1): ed essa non a torto è chiamata denaro, anche perché si compra con l’osservanza dei Dieci Coman­damenti.

          Segue nella parabola: «Uscito circa l’ora ter­za, ne vide altri, che se ne stavano per la piazza senza far nulla, e disse loro: Andate anche voi nella mia vigna». Qui ci si mette innanzi che il nostro diligente padre di famiglia uscì di casa cinque volte; alla ora prima, alla terza, alla sesta, alla nona e alla undicesima. Queste ore sono da intendersi così, che al principio della prima sorge il sole, e alla fine della dodicesima tramonta.

          Cinque volte dunque uscì il padron di casa; perché cinque sono le età del mondo, nelle quali Dio condusse sempre altri ed altri lavoratori a coltivare la sua vigna. Tutto il tempo, nel quale deve durare lo stato di questo mondo, è limitato dallo spazio di un solo giorno, e in questo giorno dev’essere colti­vata la vigna di Dio. Di un tal giorno l’ora prima, seconda e terza trascorre dalla creazione del mon­do al tempo di Noè; la quarta, la quinta e la sesta da Noè alla vocazione [chiamata] di Abramo; la settima, l’ot­tava e la nona dalla vocazione di Abramo al legi­slatore Mosè; la decima e l’undicesima dal legisla­tore Mosè fino alla prima venuta di Cristo; la do­dicesima ed ultima ora dalla prima alla seconda venuta ili Cristo. E precisamente nella prima ora furono chiamati Adamo, Seth ed Enoch; nella terza Noè, Sem e Melchisedech; nella sesta Abramo e gli altri Patriarchi; nella nona Mosè ed i Profeti; nella undicesima gli Apostoli e i loro successori. E questo è .quello che insegna Sant’Agostino nel libro secondo contro Giuliano, quando dice: «Dio per le diverse età dei tempi e per le diverse distanze dei luoghi distribuisce alcuni suoi pochi economi, come gli piace e come giudica che convenga».

          Che poi fin adesso siano trascorse le undici ore, e al presente sia l’ora dodicesima ed ultima, e che sia imminente la fine del giorno e il tramonto del sole, ne è testimonio l’Apostolo San Giovanni, che dice: «Figliolini, ella [essa] è l’ultima ora»: (I Ioa. 2, 18); è testimonio San Paolo Apostolo: «Tutte queste cose accadevano loro in figura: e sono state scritte per avvertimento di noi, ai quali è venuta la fine dei secoli» (I Cor. 10. 11); testimonio finalmente [infine] l’Apostolo San Pietro, dove dice: «Sapendo voi, co­me non a prezzo di cose corruttibili di oro, o di argento siete stati riscattati dalla vana vostra ma­niera dì vivere trasmessavi dai padri, ma col sangue prezioso di Cristo, come di agnello immacolato ed incontaminato, e preordinato prima della fondazione del mondo, manifestato poi negli ultimi tempi per voi» (I Pet. I. 18).

          E non deve a voi parere strano, che lo spazio di tanti anni sia chiamato dal Signore un solo gior­no. Noi, che viviamo alcuni anni, non teniamo con­to di una o due ore, e le crediamo uno spazio bre­vissimo; mentre a certe bestioline, che Aristotile dice nascere vicino al fiume Ipani, oggi Bug [in Ucraina], e vi­vere un sol giorno, ciascuna ora sembrerebbe un’età, se potessero pensare a questo tali bestioline. E non meno stimerebbero esse una sola ora, di quello che noi stimiamo dieci o quindici anni. Quanto più Dio, la cui età è l’eternità dei secoli, e a cui senza menzogna si dice nei Salmi: «Mille anni dinanzi agli occhi tuoi son come il dì di ieri, che è trapassato» (Ps. 89, 4), ci fa capire che tutto il nostro tempo è brevissimo, ancorché a noi sembri essere lunghissimo.

          Perciò, uditori, se la vita presente è così corta che non c’è nessuno, il quale viva lo spazio di mezz’ora; perché essere così solleciti nel procurarci ed accumularci le cose presenti? Deh! disprezziamo le inezie — qual altro nome più leggero potrei dare a questa leggerezza? — e fissiamo lo sguardo in quella eternità, che dobbiamo meritarci noi tutti, quanti qui siamo, e che ci troviamo, o nei più grandi piaceri, o negli estremi dolori. Ci chiama il Signore dalla piazza alla vigna. Oh non facciamo i sordi: non chiudiamo gli orecchi: e non crediamo di essere chiamati dalla quiete alla fatica, né dalla fatica alla quiete; ma dalla fatica alla fatica! Sia che siamo nella piazza, sia nella vigna, ci bisogna faticare. Ma la fatica della piazza è inutile, fatica sciocca, fa­tica che produce fatica. La fatica della vigna essa sì, che si aspetta una grande paga, e produce quieto e riposo grandissimo. Udite le parole, con cui il Signore c’invita dalla piazza alla sua vigna: «Venite da me tutti voi, che siete affaticati ed aggravati, ed io vi ristorerò» (Matt. 11. 28). E in che modo, o Signore, ci ristorerete? «Prendete, dice, sopra di voi, il mio giogo, ed imparate da me, che son man­sueto ed umile di cuore, e troverete ripeso alle ani­me vostre. Poiché soave è il mio giogo, e leggero il mio peso». Volle dunque, che noi non deponessimo il giogo ed il peso, ma lo cambiassimo: e quando chiama dalla piazza alla vigna, chiama da una fa­tica infruttuosa ad una fruttuosa.

          E non dobbiamo trasandare [tralasciare], uditori, che la voce greca agorà, invece della quale noi diciamo piazza, significa propriamente fiera e mercato, co­me dice Origene. Troviamo pur noi, che è verissimo ciò, che soleva dire Pitagora, che cioè la vita dell’uomo è molto simile ad un gran mercato. Infatti nei mercati alcuni mettono in mostra le loro merci, e stendono baracche ed ombrelli, quasi lacci e reti ai denari: altri con arte più fina, cioè i ciarlatani ed i prestigiatori, attirano a sé gli uomini col canto, come si attirano gli uccelli col fischio, e trafficano con un meraviglioso genere di commercio. Ivi do­minano le bugie, gli agguati, gl’inganni, le truffe, le frodi, e in fine tutto è pieno di tumulti confusi, di rumori e di strepito. Così anche nella piazza e nel mercato di questo mondo ci sono i demoni, che, quasi scaltrissimi mercanti piantano da per tutto le loro baracche; e questo vende piaceri, quello ric­chezze, e un altro onori e dignità. Quelli che com­prano sono, o i voluttuosi, o gli avari, o i superbi e gli ambiziosi. «Tutto quello, che è nel mondo», grida l’Evangelista San Giovanni, cioè che è nella piazza del mercato, «è, o concupiscenza della carne, o concupiscenza degli occhi, o superbia della vita» (Ioa. 2. 16). «La concupiscenza della carne» cosa potrebbe comperare, fuorché delizie, piaceri, gozzoviglie, ubriachezze, diletti degli occhi, delle orec­chie, dell’odorato e di tutti i sensi? «La concupi­scenza degli occhi» di che potrebbe andare in cerca, se non di case, di vesti, di possessioni, di denari? Questa concupiscenza degli occhi si suol chiamare a ragione con altro nome avarizia. Gli avari dilet­tano solo gli occhi, pascono solo gli occhi: vivono col maggior risparmio; vestono sordidissimamente; gustano di empire non l’anima, ma la cassaforte, di saziare non il ventre, ma gli occhi. «La superbia della vita» che potrebbe essa ambire altro che seggi di onori e splendore di dignità? Dunque in questa piazza tutto è un rintronare per le voci confuse dei mercanti: e mentre uno si accosta, un altro si scosta; questo vende, quello compra: uno va, l’altro torna; questi cantano, quelli contrastano: è cosa meravigliosa il tumulto e lo strepito che si sol­leva. Ma, ciò che è il colmo di tutti i malanni, i mercanti sono anche prestigiatori. Vendono amaritudine per piacere, ignominia per dignità, per fiori spine, per oro carboni; e questi, perché sono accesi, tosto che toccano la mano, la bruciano. Né solo questo. C’è un altro guaio di molto maggiore in­felicità. Quali furbissimi usurai ti vendono la mede­sima cosa una e due volte. Ciò dichiarerò con una similitudine rozza, ma adattata, se non m’inganno. Avrete visto qualche volta i ragazzi a pescare le rane intorno alle paludi. Come fanno? Gettano come esca alle altre rane, legata ad un filo, la pelle di una rana. Subito non una, ma molte rane cor­rono da ogni parte a quella esca: e quella, che poté essere più veloce delle altre, abbocca con grande ingordigia l’esca, che però non può né rodere né divorare, in questo mezzo il pescatore leva il filo e lo tira a sé; prende la rana appesa al filo e la uccide; estrae violentemente l’esca dalla sua bocca, e la getta alla altre, che stanno aspettando a bocca aperta. In questo modo, senza grandi spese, sempre con una medesima pelle di quella rana, ne prende innumerevoli.

          Questo, uditori, proprio questo, è ciò che fanno il mondo e il demonio con gli uomini più stolti e scempi delle rane. Ingannano e trascinano nell’Inferno innumerevoli uomini con quelle stesse cose, con quelle stesse ricchezze, campagne, possedimenti, che spesso furono acquistati non solo con la fatica e con il sudore, ma anche col sangue di qual­che uomo, e che perciò non a torto si potrebbero dire pelli di uomini. Cent’anni fa c’erano molti e qui e nelle altre Università, che studiavano, o legge, o medicina, od altre facoltà. Con che mira, uditori? Appunto per poter abboccare l’esca delle ricchezze e degli onori, che il mondo e il diavolo faceva loro vedere. E abboccarono sì e da per tutto erano detti ricchi, e celebrati dalla bocca di molti. Ma poterono essi rodere o divorare quegli onori e quelle ricchez­ze, o almeno portarle seco? Nossignori. Appena essi avevano abboccata l’esca, che presi dalla morte, fu­rono costretti a lasciarla, e il mondo gettò quella medesima esca ad alcuni altri, ch’erano nati dopo di loro. Ancora [anche] questi restarono ingannati. Successero altri, che ora attendono ai medesimi studi, e a bocca aperta aspirano alle stesse ricchezze ed onori. Noi saremmo sciocchi, se non prevedessimo, che sarà simile la loro riuscita. Guardate, di grazia, i testamenti dei vostri nonni. Non vi leggete altro, che: Lascio questo alla moglie, lascio questo ai fi­gli, lascio questo agli amici. E neppur una volta di­cono: Questo porto con me, questo riservo per me. Interrogate i campì e le possessioni vostre: quanti nomi hanno già cambiato? Una volta si dissero di Pietro, poi di Paolo, indi di Giovanni, ora son detti di Filippo, da qui a poco saranno detti campi e pos­sessioni di non so chi altro. Perché ciò? Non forse perché gli uomini si lasciano prendere come le rane, e l’esca rimane sempre la stessa, e si conserva per ingannare similmente altri uomini? Osservate ora e considerate le sedi dei Pontefici, Re ed Imperatori. Quanti aspirarono nelle singole età a queste sedi? Eppure quelli, che dopo molte fatiche e sudori rie­scono ad ottenerle, ne vengono gettati giù e cadono, prima di essersi potuti adagiar bene a sedere in esse. Ieri sedeva uno, oggi muore e siede un altro. Domani questi morrà, e sederà un altro. Cosi, restando sempre vive le sedi e gli onori, muoiono gli uomini, e nudi e vuoti entrano in altre regioni, dove saranno sempre mendichi ed ignobili.

          Questo è dunque il commercio, questo il co­mune inganno dei mortali. Cosi in questa piazza mercanteggiano i demoni. Or Cristo, benignissimo amante degli uomini, brama ritrarci da essa. Per questo scese in terra, venne alla piazza, e non cessa di gridare: «Perché state qui tutto il giorno in ozio?» Perché perdete il tempo in questi pericolosi mercati? Ahi, fuggite la crudele piazza! «Andate alla mia vigna, e vi darò quel che sarà di ragione». Non sarà meglio per voi lavorare nella vigna, donde guada­gnerete una grossissima paga, anziché negoziare in cotesta turbolentissima piazza, dove vi comprate a grandissima fatica la perdita della vostra anima?

«Che giova infatti all’uomo di guadagnare tutto il mondo, se poi perde l’anima? O che darà l’uomo in cambio dell’anima sua?» (Matt. 16, 26). O beati quelli, le cui orecchie si aprirono a queste beate voci! O felici quelli, nel cui cuore penetrano queste salutevoli parole, e che sanno riferire all’onore e servizio di Dio i loro desideri, i loro pensieri, i loro sforzi! Sì tutti gli uomini devono affaticarsi in questa valle di miserie. Ma senza dubbio sono da chiamarsi ve­ramente fortunati quelli, che seguono Dio quale guida, e passano dalla piazza alla vigna, e sanno lavo­rate fruttuosamente ed utilmente.

PARTE SECONDA

 

          «Or venuta la sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: Chiama i lavoratori, e paga ad essi la mercede, cominciando dagli ultimi fino ai primi» (Matt. 20, 8). Due chiamate ci mette innanzi il Si­gnore in questa parabola: una al lavoro, l’altra alla mercede. Della prima abbiamo detto fin qui qualche cosa. Ora è da dire alcunché della seconda. Il me­desimo Cristo, che secondo la natura divina è il pa­drone della vigna, secondo l’umana ne è il fattore. «Ché il Padre non giudica alcuno: ma ha rimesso ogni giudizio al Figlio… E gli ha dato il potere di fare lui il giudizio, perché è Figlio d’uomo» (Ioan. 5, 22). Egli infatti è veramente fedele e prudente, quali Dio ricerca gli amministratori. E perché è fe­dele non ingannerà nessuno; perché è prudente, non sarà ingannato da nessuno. Allora poi chiamerà i suoi lavoratori, quando dirà: «Sorgete, o morti, venite al giudizio» (Ioan. 5, 28). Allora «tutti quelli, che sono nei sepolcri, udranno la voce del Figlio di Dio: e ne usciranno, quanti fecero il bene in risur­rezione di vita: quanti poi fecero il male in risurre­zione di condanna».

          Ora, a dir vero, uditori, molti sono chiamati alla vigna: ma, o non odono, o fingono di non udire, o chiudono le orecchie per non udire, o si nascon­dono e fuggono per non essere chiamati. Ma quando saranno chiamati i lavoratori per la mercede, tutti rizzeranno gli orecchi, tutti si faranno vedere. Non sperino però di aver ad essere chiamati alla mer­cede quelli che furono chiamati al lavoro, e non vollero lavorare.

          «Chiama», prosegue a dire il padrone della vigna, i lavoratori, e paga ad essi la mercede, co­minciando dagli ultimi fino ai primi». Ma perche, domando io, si comincia dagli ultimi? Non richie­deva l’equità, che si cominciasse dai primi piuttosto che dagli ultimi? Così si fece, uditori, acciocché restasse palese il privilegio e la singolare eccellenza di quelli, che furono chiamati nel tempo della gra­zia. Comechè costoro vengano alla vigna gli ultimi di tutti: saranno però presso il gran Padre di fami­glia non nell’ultimo, ma nel primo posto. E quan­tunque i beati nel giorno del giudizio riceveranno il denaro tutti insieme, quando si dirà loro: «Venite, benedetti dal Padre mio, prendete possesso del Regno preparato da [per] voi dalla fondazione del mondo» (Matt. 25, 34): pure si vedrà, che riceveranno il denaro prima», come dice Sant’Agostino, quelli, i quali avranno aspettato meno. Come se due ti chiedessero un beneficio, ed uno ricevesse ciò che ha do­mandato dopo un’ora, e l’altro dopo dodici ore; certo si direbbe, aver ricevuto il beneficio prima quello, che 1’ha ricevuto dopo un’ora, che l’altro dopo dodici ore.

          Ma udiamo ormai, di qual mercede vengono ri­munerati. «Venuti adunque quelli, ch’erano andati circa l’undecima ora, ricevettero un denaro per ciascheduno. Venuti poi anche i primi, si pensarono di ricever di più; ma ebbero anch’essi un denaro per uno. E ricevutolo, mormoravano contro del padre di famiglia, dicendo: questi ultimi hanno lavorato una ora, e li hai uguagliati a noi, che abbiamo portato il peso della giornata e del caldo». Queste parole, uditori, sono piene di molto difficili ed oscure que­stioni. Ma, come ho stabilito di non ometterle, cosi intendo di sbrigarmene con pochissime parole. Qui dunque in prima domando: Perché dice Gesù, che i lavoratori furono pagati con un solo denaro per ciascuno? Come se i Beati, secondo l’errore di Gioviniano, dovranno essere premiati ugualmente, e nel Regno de’ cieli uno non possa essere più chiaro ed illustre dì un altro. Ma facilmente scioglieremo questo nodo, se con Sant’Agostino diciamo, che con quel denaro viene significata l’eternità della vita beata. I Santi infatti non sono né pari nella beatitudine e nella gloria: sono pari però solo in questo, che la felicità di tutti è eterna. Né uno godrà della beati­tudine per uno spazio più lungo di un altro. Con eguale facilità si scioglie la medesima questione, se noi, come dicevamo da principio, vorremo intendere pel nome denaro il Verbo di Dio, e Dio stesso. Si dice quindi, che tutti i lavoratori hanno ricevuto un solo denaro per questo, che i Beati possiedono uno e medesimo Dio, fonte di ogni gloria e beatitudine. Ma con tutto ciò, come l’aquila vede il medesimo sole più chiaramente, che il pipistrello: diversamen­te può maneggiare la spada un soldato assai ga­gliardo e un fanciullino; e diversamente intende uno stesso libro chi conosce solo la grammatica, e chi è addentro negli studi di filosofia. Così alcuni si er­gono più alto di altri, e con maggiore chiarezza e felicità contemplano l’uno e medesimo Dio, per la cui visione è beato, chiunque è Beato. E non c’è mica da temere brontolamenti e lamenti per questa di­sparità di premi. La ragione è, perche quelli, che riceveranno meno lume e felicità di gloria, vedranno con tutta chiarezza di non essere capaci di maggior gloria. Come se ad un gigante e ad un nano il Re donasse un vestito prezioso, non si lamenterebbe il nano, di non aver ricevuto dal Re il vestito ugual­mente lungo di quello del gigante; anzi avrebbe piacere di aver avuto il vestito proporzionato alla sua statura. Allo stesso modo quelli che qui sulla terra saranno cresciuti più per virtù e buone opere, saranno vestiti di un più lungo e largo abito di gloria. Tutti però si rallegreranno dì essere stati vestiti ed ornati di un abito proporzionato a loro.

          Ma se è così, che significano quelle parole: «E ricevutolo, mormoravano contro il padre di fami­glia»? Chi spiegherà questo? Come ci potrà essere brontolamento tra i Beati? In molti e vari modi si spiegano queste parole dai Santi Padri. Ma la più vera e la più bella a me pare l’esposizione di San [Giovanni] Grisostomo. Insegna quest’uomo sapientissimo, che non a tutte le cose, che si dicono nelle parabole, corrisponde qualche punto dall’altra parte del fatto, significato per la [dalla] parabola. La spada è fatta per tagliare. È vero: ma non per tagliare da ambedue le parti. Così si sogliono inventare le parabole, per significare qualche cosa: ma non per questo devono significare tutte le cose. Spesso è necessario dire alcune cose, che altrimenti non si direbbero, solo affinché per mezzo di esse si connettano le cose seguenti con le precedenti. Ciò si verifica in questa parabola. Il Signore ha immaginato, che mormorassero i lavoratori, chiamati alla prima ora, non perché ci sarà mormorazione tra i Beati: ma per aver di là occasione di spiegare, come fosse possibile di far primi gli ultimi ed ultimi i primi, senza che il padrone potesse in alcun modo essere ripreso per mancanza di giustizia o di equità.

          E non ci allontaneremo dalla verità, se diremo, che sarà un privilegio singolare dei chiamati all’ora undecima questo: che, se i Beati in cielo fossero soggetti a mormorare e ad invidiare, facilmente si potrebbe pensare, che ad essi avrebbero invidia e ne mormorerebbero i chiamati alla prima ora. Senonché in quel pacatissimo e tranquillissimo Regno non ci saranno queste cose: anzi all’invidia succederà la carità, ai brontolamenti le congratulazioni.

          Ma vedo ciò, che ancora potrebbe far cattiva impressione a qualcuno, ed è: o quegli operai, che mormoravano, mentiscono, o veramente lavorarono più degli altri, e potevano vantare con verità di aver portato il peso della giornata e la caldura [calura]. Che men­tiscano, non è credibile. Il padrone della vigna non li riprende di menzogna: e certo l’avrebbe fatto, se avesse potuto capire, che essi mentissero. Ma neppur mentisce la Scrittura Divina, che dice: «Chi se­mina con parsimonia, mieterà parcamente» (II Cor. 9, 6). E ancora: «Renderà a ciascuno secondo il suo operato» (Matt. 16, 27). Dunque, come non è ingiu­sto Dio, che antepone quelli, che lavorarono meno a quelli, che lavorarono più? State tranquilli, uditori. Udite la soluzione di questa difficoltà recondita, e poniamo fine alle questioni. Gli Apostoli, i Dottori, i Martiri, le Vergini, gli Anacoreti ed altri, che furono chiamati all’ora undicesima, hanno compiuto senza dubbio cose molto maggiori e più eccellenti, più ardue, più difficili, di maggior lavoro e fatica, che non compirono quelli, che furono chiamati all’ora prima, terza, sesta e nona. Infatti, lasciando pel momento altre cose, quali fatiche si possono paragonare con le fatiche dei nostri Anacoreti? Che più eccellente delle nostre Vergini? Che più sublime del menare sulla terra la vita degli angeli, nono­stante le contraddizioni del mondo, del demonio e del corpo stesso e dei sensi? Quali combattimenti ci furono mai più atroci di quelli dei nostri Martiri? Con quale zelo, con quale cura, con quale ardore di animo non si diedero i nostri Dottori alla fatica nello scrivere libri, nell’interpretare le Divine Scrit­ture, nel confutare gli eretici, nel rafforzare i cat­tolici e conservarli nella fede e nel dovere? Che dirò poi degli Apostoli, capitani generali della no­stra milizia? Con i passi di chi si sarebbero potute trascorrere [attraversare] tanto presto terre lontanissime, quanto, non dirò dalle corse, ma dai trionfi degli Apostoli furono illustrate? Al contrario al tempo dei Patriarchi e dei Profeti, eccettuati alcuni pochi, che meglio appartengono al Vangelo, che alla legge; a stento ci furono alcuni, i quali possono paragonarsi con taluni piuttosto oscuri dei nostri uomini. Dov’era allora quella grandissima sollecitudine degli Apo­stoli, di unire all’impero di Cristo tutto il mondo? Dove i combattimenti dei Dottori con gli eretici? Dove gli eserciti dei Martiri? Dove i cori delle Vergini? Dove le schiere dei Monaci? Dunque maggiori e più nobili sono i meriti dei nostri. Dunque non è ingiusto Dio, che di ultimi li fa primi, e li antepone a quelli, ch’erano stati chiamati primi.

          Ma, se è così, perché quelli, ch’erano venuti pri­mi alla vigna, vantano di aver sopportato il peso e la caldura [calura] della giornata? Nessuna meraviglia, udi­tori. Essi realmente si affaticarono di più; ma hanno compiuto cose meno egregie e meno ardue. Mentre è vero, che gli operai dell’undecim’ora poterono por­tare pesi gravissimi e grandissimi con maggiore fe­licità e alacrità, che non i primi certe cose leggere e piccole. Ciò provenne da questo, che agli Apostoli e agli uomini apostolici fu data dallo Spirito Santo grazia più abbondante, che agli uomini del tempo antico. Ora chi di voi ignora, che la Divina Grazia è radice e origine di opere eccellentissime e gratissime a Dio? Chi non ha letto qualche volta nell’Apo­stolo: «Ho travagliato più di tutti: non io però» (I Cor. 15, 10) s’intende, solo, «ma la grazia di Dio con me»? Come chi ha il carro può portare con gran facilità da uno in altro luogo pesi grandissimi, mentre, chi non l’avesse, non li potrebbe neppure smuovere; cosi chi è fornito di grande gra­zia di Dio, ed è infiammato da un intenso ardore di carità, lavora senza fatica, crede nulla esser pe­sante, nulla arduo, nulla difficile, se glielo comandi o consigli l’amore. Questo è il singolare privilegio dell’Evangelo, questa la beatitudine del nostro tempo, che faticando meno, compiamo opere più ardue e più faticose.

          Questa nostra beatitudine fu adombrata con una nobilissima figura nel Vecchio Testamento. Mosè, ca­po degli Ebrei, aveva mandato nelle regioni della Palestina dodici esploratori. Essi, nel far ritorno ai [dai] loro, tagliarono un gran tralcio di una vite con i suoi grappoli, e lo posero, appeso ad una stanga, sulle spalle di due uomini. Questi, che portavano il tralcio con i grappoli che pendevano da esso, e dei quali uno andava avanti, l’altro dietro, significavano i Padri del Nuovo e del Vecchio Testamento. Il tralcio poi designava il Figlio stesso di Dio Salvator nostro, innalzato sulla croce. Confrontate ora uditori, quello che andava avanti con quello che gli veniva di dietro, cioè quello che rappresentava il Vecchio Testamento, con quello che significava i Padri del Nuovo Testamento. Ambedue portavano il peso. Ma, a quello che seguiva, il tralcio faceva da ombrello, e lo difendeva dall’ardore del sole. Inoltre, se gli fosse avvenuto di aver fame o sete, il tralcio gli era alla mano, da cui poter piluccare degli acini dell’uva e ristorarsi. Quindi non gli sembrava grave quel peso, che lo alleggeriva da tanti incomodi. Ma quello che precedeva sopportava non solo il peso, ma anche la caldura [calura], la fame, la sete e la stan­chezza: e non poteva né pascere il ventre, né di­lettare gli occhi con i grappoli d’uva, che portava. In questo stesso modo noi, che siamo stati chiamati dopo la venuta di Cristo, sebbene dobbiamo credere cose ardue, sperare cose ardue, operare cose ardue; ciò non di meno ci è stata data tanta abbondanza di Grazia Divina, ed abbiamo tanti aiuti di Sacra­menti e dì lumi divini e di altre cose di grandissimo sollievo, che nel fatto confessiamo essere soave il giogo del Signore e leggero il suo peso. Quelli in­vece, che precedettero la venuta di Gesù Cristo, erano oppressi dal peso della legge, e insieme privi degli aiuti che abbiamo ricordati, cosi da lamentarsi in certo modo, per aver portato il peso e il caldo del giorno. Eppure ad uno di loro che mormorava, disse giustamente il padre di famiglia: «Od è cattivo il tuo occhio, perché io son buono?». Chiami tu forse ingiustizia la liberalità, e dai nome di malizia alla bontà? È piaciuto a me, che sono padrone, e non sono debitore di nulla a nessuno, dare con larghezza grazia più abbondante a questi, che ho chiamati l’undecima ora, e abbracciarli con singo­lare benevolenza; acciocché in questo modo essi splendessero per opere più eccellenti di virtù, ed io avessi la possibilità di donar loro premi più ampi.

          «Cosi», dunque, «saranno ultimi quei, ch’erano primi, e primi quei, ch’erano ultimi: giacché molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti». Cioè, sono molti quelli, che in tutte le età e da tutti i luoghi sono stati chiamati a lavorare in questa vigna, e nel Regno del cielo godranno della beatitudine eterna. Ma pochi sono quelli, cui Dio elesse con singolare privilegio, perfino nel tempo della Grazia, e già nel pieno splendore del Vangelo, ad essere mandati co­me lavoratori nella vigna.

          Questo avevo da dire di questa parabola, stante la brevità del tempo. Ora veniamo a noi.

          Certo, uditori, io temo assai, che qui tra noi ci siano molti, i quali sono stati presi a nolo per lavorare in questa vigna, e che hanno promesso di lavorarvi di lena: ma che però si portano in tal modo, che molto a ragione il Signore può dir loro: «Perché state qui tutto il giorno in ozio?». Come mai qui, nella vigna del Signore, stare in ozio? Colpa era stare in ozio nella piazza, che sarà nella vigna? Siete venuti per lavorare, occupate il posto di altri, e con le braccia incrociate state a guardare gli altri che stanno lavorando, e voi non lavorate? Oh, quanti vorrebbero esser detti operai, e sono piuttosto parolai, che operai!

          Nessuno s’inganni. Riceveranno la mercede gli operai, non i parolai. «Chiama», dice il padre di famiglia al fattore, «i lavoratori, e paga ad essi la mercede». «Non tutti quelli, che a me dicono: Signore, Signore, entreranno nel Regno de’ cieli» (Matt. 7, 21). Anche quelli, che pensano solo alle cose loro, non a quelle di Gesù Cristo, sono sì operai, ma della campagna loro, non della vigna del Signore (Phil. 2, 21). Gli operai, che voi prendete a nolo per colti­vare i vostri campi, tutto il giorno lavorano per voi, così che si prendono per sé appena un’ora, per ri­storarsi: e se non fanno cosi, non osano domandarvi la paga. E noi vorremmo esser detti operai di Dio, mentre spendiamo la maggior parte del giorno nel provvedere ai nostri affari? Ben altro, uditori, c’insegnarono a fare gli Apostoli e gli uomini apostolici. Essi capivano, che non potevano essere operai di Dio, se non si fossero svincolati da tutte le altre faccende; e si diedero anima e corpo a coltivare questa vigna, troncando ogni altra cosa, da cui era­no trattenuti.

          E non mi venga a dire taluno: A me non è stata commessa la cura della vigna; io non sono né Pon­tefice, né Pastore, né Predicatore. Io gli rispondo: Tutti quanti siamo nella Chiesa Cattolica, siamo stati presi a nolo per lavorare nella vigna. Tutti, se non con la parola, certo con l’esempio dobbiamo aiu­tare la Chiesa tutta, e predicare, se non con le pre­diche propriamente dette, certo con le opere. Tutti parimente siamo tenuti di coltivare con ogni zelo la vite dell’anima propria ed averne cura. Non pos­siamo servire a due padroni; non possiamo quindi lavorare con impegno nella vigna del Signore, e pro­curare con diligenza la salvezza dell’anima, e nello stesso tempo attendere ad accumulare le nostre ric­chezze, ad accrescere gli onori, ad appagare le pas­sioni. Per queste ragioni non posso, uditori, non temere assai, che si dica di noi una volta la conclusione [al termine] della nostra parabola «saranno ultimi quei, ch’erano primi, e primi quei, ch’eran ultimi», e ci avvenga quello che vediamo accadere alla gallina e al falco. Il falco, finché è vivo, è portato dalle mani dei nobili, nutrito con ottimi cibi, ed ha luogo [abita] nella camera stessa del suo padrone. Ma guai ad una gallina che esca una volta dal pollaio ed entri in qualche camera! Le si grida dietro e la si fa uscire. Alla morte, le cose cambiano aspetto. Muore il falco, e lo si getta in una cloaca. Muore la gallina, e viene portata alla mensa del padrone in piatti d’argento o d’oro. In pari modo, uditori, noi che ci occupiamo della sapienza, trattiamo di materie divine, degli an­geli e di Dio, stiamo quasi sempre nell’atrio del Si­gnore, e maneggiamo i Sacramenti; par che siamo i primi, i domestici e familiari di Dio. Viceversa trovansi molti analfabeti, privi di scienze, semplici, rozzi; e questi, comecché [sebbene] ardano alle volte di un grande fervore di carità e, quasi galline feconde, facciano molte uova di buone opere, ciò non di meno quasi da tutti sono giudicati ultimi. E se, per qualche caso, entrano una sola volta in una scuola d’Univer­sità, ne sono cacciati coi fischi e col batter dei piedi. Ma verrà tempo, quando molti ultimi diverranno pri­mi, e molti primi ultimi. Giacché molti sapientemente ignoranti, e saputamente ignorati, e che sono disprezzati, non curati e di cui non si fa alcuna stima, saranno portati in cielo dagli angeli agli [ai Santi] Antoni, ai Paoli, ai Benedetti, ai Franceschi. Molti invece che, gonfi del vento della scienza, volano sopra le nuvole come falchi, andranno nell’Inferno da Aristotile e da Galeno. Sorgono gl’indotti, dice Sant’Agostino e ra­piscono il cielo, e noi con le nostre lettere veniamo sprofondati nell’Inferno. Ecco come ci ravvoltoliamo nella carne e nel sangue: ecco come ci diamo all’ubriachezza, come ci occupiamo di gozzoviglie, e siamo solleciti delle cose, che appartengono al corpo. E in quelle, che riguardano l’onore di Dio e la salute dell’anima, siamo pigri e indifferenti. «Cosi dunque saranno ultimi quei, ch’erano primi; e primi, quei ch’eran ultimi». Perciò, uditori, se bramiamo essere primi da per tutto, da per tutto, da per tutto domestici e amici dì Dio, uniamo all’umiltà e alla fecondità della gallina la velocità e la nobiltà del falco. Cosi saremo primi qui sulla terra per Grazia e in cielo presso Dio, per gloria. Per Gesù Cristo Signor nostro, che è benedetto nei secoli. Così sia.

SAN ROBERTO BELLARMINO

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