di Pietro Schiavazzi
Schönborn in tedesco vuol dire “nato bello”. Sono teologiche ma suonano etimologiche le ragioni per cui Francesco ha ieri delegato al cardinale austriaco Christoph Schönborn, intellettuale di punta del sacro collegio, aristocratico discendente della nobiltà mitteleuropea e democratico esponente dei progressismo moderato, l’incarico di commemorare il cinquantesimo anniversario del Sinodo: un istituto che “nato bene”, appunto, il 15 settembre 1965, per prolungare il respiro e lo spirito di squadra del Concilio, è tuttavia invecchiato male, perdendo gradualmente fiato e fascino, ingrigendosi e omologandosi al destino dei parlamenti mondani, fino a scivolare in un presente di sospetti e dispute, tra colpi di scena e atmosfere da talk-show. Netta in proposito la stroncatura dell’ultimo sinodo di Ratzinger, del 2012, “dove ci sono stati molti interventi interessanti. Ma pochissimi hanno dato testimonianza… Noi restiamo troppo spesso nelle teorie, quasi mai parliamo in maniera personale delle nostre esperienze”, ha sentenziato lapidario il presule.
Schönborn, fermo nelle sue critiche all’evoluzionismo darwiniano ma rapido a congratularsi con la drag queen e connazionale Conchita Wurst per la vittoria nell’Eurofestival, incarna perfettamente la Chiesa “poliedrica” di Francesco ed esprime il potenziale di una maggioranza di “centrosinistra”, che potrebbe prendere corpo da qui a sabato: emarginando ai due estremi le posizioni più radicali, di Walter Kasper e di George Pell, o del partenopeo Bruno Forte e del felsineo Carlo Caffarra, e operando una saldatura con i centristi guidati dall’arcivescovo di Washington Donald Wuerl, membro della commissione che ha il compito di redigere il testo conclusivo, e dal collega Rino Fisichella, organizzatore del Giubileo e Presidente del Consiglio per la Nuova Evangelizzazione. Un’ampia basi di consensi, che affrancherebbe il Pontefice dal soccorso interessato dei trasformisti, ossia di quei conservatori solerti a conservare il posto anziché la dottrina, e dei loro omologhi progressisti, attenti a progredire in carriera piuttosto che nel pensiero: “L’esito infine, così speriamo, non è un compromesso politico su un minimo comune denominatore, bensì questo valore-aggiunto, che dona lo Spirito Santo, così da poter dire, a conclusione: Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi”.
Un mare agitato da correnti impetuose e conflitti palesi, dunque, sul quale aleggia però lo spirito divino: vento leggero che il timoniere della barca di Pietro deve intercettare nel bel mezzo delle discussioni: “Così speriamo”, almeno, ha terminato il cardinale. Sintetizzando, dalle parole di Schönborn emerge che a una settimana dal voto del 24 ottobre “l’esito” rimane aperto, mentre la strada si fa di giorno in giorno più stretta per il Papa, in salita e in solitaria, come quando si avanza sul crinale di un monte sporgendosi tra due precipizi. Da una parte Francesco rischia di perdere la fiducia e dall’altra la faccia: la fiducia “parlamentare” dei vescovi, sul versante interno, e la faccia del riformatore, su quello esterno, a seconda che dal Sinodo escano o meno rilevanti novità, dopo un anno di aspettative montanti.
Un nodo che si riserva di sciogliere da solo. Non a caso, proprio nel momento in cui confermava la necessità di una salutare “decentralizzazione”, ha tenuto il discorso più accentratore del pontificato. E senza contraddirsi. Tradotto in pratica, significa che Bergoglio, come via d’uscita e come ha lasciato intendere, potrebbe limitarsi a una legge quadro, fissando il principio ma consentendo agli episcopati continentali di regolamentare autonomamente le situazioni più controverse: va da sé che l’indissolubilità del matrimonio deve essere promossa con strategie diverse in Africa, dove si combatte la piaga della poligamia e in Occidente, dove si curano le ferite dei fallimenti coniugali e le persone propendono a non sposarsi, né religiosamente né civilmente.
A ogni modo, il peso dei problemi e la pressione mediatica che li accompagna risultano tali da non potersi affrontare, alla lunga, solo attraverso un sinodo, di per sé strumento di sviluppo e attuazione, quando forse c’è bisogno di piantare le tende e fermarsi a ripensare. Per questo, e indipendentemente dal grado di consapevolezza dei protagonisti, si avverte forte la sensazione che la Chiesa, nel momento in cui celebra il cinquantesimo del Sinodo ne stia operando de facto il superamento e sia entrata nel clima di un’altra era: quella di un Concilio Vaticano III. Evento indicibile però plausibile, che pochi evocano e molti auspicano, considerando che a cambiare non è solo il dipinto, ma la cornice. Per non parlare dello sfondo geopolitico, nel transito dal bipolarismo USA – URSS al caos della Terza Guerra Mondiale a pezzi, e del pianeta globalizzato e internettizzato, che non è più quello del concilio di Nicea, quando ci vollero quattro secoli e mezzo per diffonderne e recepirne i contenuti.
Se il Vaticano II si confrontava con le “religioni laiche” del liberalismo e del socialismo, che dominarono gli scenari degli anni Sessanta, il Vaticano III ha invece di fronte a sé non più una visione del mondo, bensì la concezione stessa dell’uomo. E se le ideologie chiamavano in causa l’età contemporanea, dall’Illuminismo al Novecento, la questione antropologica mette sotto accusa due millenni di Cristianesimo, da Paolo di Tarso in poi. Domandandosi perché l’idea di uomo e di famiglia, che la Chiesa promuove e che apparve allora rivoluzionaria e libertaria, viene intesa oggigiorno reazionaria e autoritaria. Non più fashion ma demodé. In definitiva: è davvero un problema di linguaggio o è il messaggio medesimo che va riascoltato e ricompreso?
Quando il cardinale Schönborn un anno fa dichiarò che Conchita Wurst, al secolo Thomas Neuwirth, “ha portato al centro dell’attenzione un grande tema, un tema reale…non tutti coloro che sono nati uomini, si sentono anche uomini, e la stessa cosa può valere anche per le donne”, sollevò coraggiosamente il coperchio di argomenti che cinquant’anni orsono erano inconcepibili a pensarsi e dirsi, da un ecclesiastico, e che oggi hanno raggiunto un livello di ebollizione, anche nella coscienza dei fedeli. E ancora, quando Schönborn, nella lectio di sabato alla presenza del Pontefice, ha rivolto l’invito a non “teorizzare astrattamente”, quanto piuttosto a raccontare “avvenimenti ed esperienze” come fecero gli apostoli al Concilio di Gerusalemme, i pensieri dell’assemblea sono tornati subito alla testimonianza di un parroco di Trieste, pronunciata in aula e riportata dai giornali, sul gesto del bambino che aveva spezzato l’ostia porgendola ai genitori divorziati.
Accoglienza degli omosessuali e comunione ai risposati monopolizzano il dibattito poiché vengono percepite quali punte di un iceberg: sotto di esse, a staccarsi dal ghiacciaio della dottrina e di precetti che non scaldano il cuore, sono le concezioni dell’uomo e della Chiesa, spinte dalle correnti e a rischio di deriva. Troppo per i rematori del sinodo.
Il termine “concilio” è affiorato ripetutamente, suggestivamente, nel discorso dell’arcivescovo di Vienna, in vero con riferimento al passato remoto, non al futuro prossimo. Anche se poi sappiamo bene, tuttavia, che le parole assumono direzioni e sprigionano energie autonome rispetto allo scopo per cui vengono impiegate. Energie e prospettive che l’assemblea ieri ha intravisto, e provato, per un attimo con un brivido, quando Bergoglio ha difeso la sua scelta di consultare il Popolo nella preparazione dell’appuntamento sinodale sulla famiglia e ribadito che il “Gregge” possiede un proprio “fiuto”, “infallibile”, per discernere “le nuove strade che il Signore dischiude alla Chiesa”.