Il fascismo fu un fenomeno contiguo al leninismo in cui convivevano movimento e regime. La Resistenza? Coinvolse la minoranza del Paese
La storiografia, per natura, non può che essere revisionista, se per revisionismo s’intende il continuo esame dei giudizi precedenti a fronte delle nuove acquisizioni della ricerca. Ciò è banale. Come aveva giustamente sentenziato Benedetto Croce, la storia è sempre storia contemporanea, dato che ogni generazione rilegge il passato in base al presente. Poiché questo muta – cioè mutano i valori, gli interessi, gli orientamenti – allora non può non mutare anche il giudizio storico. Ha scritto Marc Bloch: «il passato è, per definizione, un dato non modificabile, ma la conoscenza del passato si trasforma e si perfeziona incessantemente».Premettiamo queste elementari considerazioni alla nostra riflessione sul revisionismo storiografico di Renzo De Felice perché egli era sostanzialmente concorde con tali premesse. A più riprese affermò infatti che la ricerca storiografica doveva rimanere «estremamente aperta a tutte la più varie suggestioni interpretative e pronta a non scartare aprioristicamente nessuna ipotesi».
Si dimostrava perciò molto tiepido verso ogni forma di generalizzazione astratta incline a filosofeggiare sulla storia, mentre era propenso ad un lavoro storico fondato su una minuziosa e scrupolosa ricerca. Questa doveva essere fondata sulle fonti – soprattutto inedite – in grado di portare sempre più avanti la conoscenza storica, la quale doveva attenersi soprattutto alla successione cronologica degli eventi, rifiutando una spiegazione causale; insomma, un’indagine la più neutra possibile.Quando intraprese la sua grande ricerca sul fascismo lo stato dei lavori risultava profondamente condizionato da un giudizio politico radicalmente negativo e da una condanna morale senza appello. Le interpretazioni maggiori possono essere riassunte così: il fascismo era stato una parentesi, una «malattia morale» (interpretazione liberale: Croce); il fascismo era stato l’«autobiografia della nazione» (interpretazione democratico-radical-progressista: Gobetti); il fascismo era stato il braccio armato della borghesia per arrestare l’avanzata del movimento operaio e socialista (interpretazione marxista: Gramsci, Togliatti, ecc.).
Insomma in tutti i casi la ricerca storica sul fascismo discendeva dai canoni politici e morali dell’antifascismo.Ora De Felice, consapevole della complessità e anche dell’eterogeneità del fenomeno, voleva rifuggire da ogni idea generalizzante; intese, invece, avviare degli studi in grado di portare il fenomeno fascista «ad una misura esclusivamente storica», sottraendolo ad ogni preoccupazione di altro genere e ad ogni sistematicità». Precisò che la sua ricerca non perseguiva «finalità politiche che non competono allo storico». Il suo voleva essere un approfondimento critico, escludendo che ciò portasse «a una sorta di revisionismo storiografico» diretto «alla riabilitazione del fascismo e del suo capo». Naturalmente non possiamo non osservare -per inciso- che questa separazione tra giudizi di fatto e giudizi di valore diventa di difficile attuazione quando si affrontano i problemi storici, dal momento che i fatti sono sterminati e il compito degli storici consiste, per l’appunto, nel decidere innanzitutto quali sono importanti e quali no. E con ciò gli stessi storici immettono, inevitabilmente, un giudizio di valore. Di qui l’ovvia conclusione, e cioè che lo storico sceglie i suoi fatti. Detto questo, entriamo nel merito delle più importanti acquisizioni della ricerca defeliciana, sottolineando, per quanto ci riguarda, che essa ha dato un contributo fondamentale a quel giudizio storico di natura liberale che valuta sostanzialmente equivalenti i totalitarismi rossi e neri.Il fascismo fu un fenomeno rivoluzionario che affondava le sue radici nella tradizione giacobino-blanquista -dunque di sinistra- e ciò lo rendeva per certi versi contiguo al leninismo. In tutti i casi la sua natura eclettica non era classificabile come un fenomeno puramente reazionario, ma piuttosto come un insieme di componenti socialiste, corporative e nazionali e questo lo differenziava alquanto dalle dittature di destra. Aveva lo sguardo rivolto al futuro perché voleva forgiare l’«uomo nuovo», diversamente dal nazismo il cui sguardo era rivolto al passato, dato che intendeva ripristinare l’«uomo ariano». Mussolini rimase sempre, in sostanza, un rivoluzionario, anche quando il fascismo passò da «movimento» a «regime».
Certamente il fascismo fu anche una reazione al movimento operaio e socialista sostenuta da una parte del padronato, ma la sua vera natura non va ricercata nella piccola borghesia, ma nell’avvento dei ceti medi volti a spodestare la vecchia classe dirigente; il suo totalitarismo risultava imperfetto perché non riuscì ad eliminare la monarchia e, soprattutto, la Chiesa (di qui la sua diversità dal comunismo e dal nazismo), anche se una maggiore accentuazione totalitaria può essere registrata nella seconda metà degli anni ’30. Ovviamente il fascismo, il nazismo e il comunismo erano costitutivamente propensi alla creazione di una società organica, la cui profonda natura andava ravvisata senz’altro nel rifiuto della modernità laica, edonistica e individualistica prodotta dal capitalismo ed espressasi ideologicamente nella «democrazia dei moderni» costituita sulla divisione liberale fra sfera pubblica e sfera privata. Sebbene inizialmente confuso e contraddittorio, il fascismo espresse una sua specifica identità ideologica e una sua cultura. Esso però fu indisgiungibile dal mussolinismo e ciò spiega le diverse fasi biografiche della sua storia, così come vengono presentate anche dai titoli dei vari volumi defeliciani: il rivoluzionario, il fascista, il duce, l’alleato. Vi fu un sostanziale consenso al regime, specialmente dopo il Concordato. Il consenso era riscontrabile più nei ceti popolari che nella borghesia. Il razzismo si manifestò tardi e va visto più come un fatto di importazione, che come un elemento costitutivo. La Resistenza coinvolse una minoranza della popolazione, mentre la maggioranza cercò di sopravvivere in una «zona grigia». Questo non significava assolutamente sottovalutare la sua importanza, né tantomeno disprezzarla. La Resistenza, affermò De Felice, «era stata un grande evento storico».Come si vede, siamo di fronte a un rovesciamento delle precedenti interpretazioni. Soprattutto per la storiografia di sinistra -di gran lunga maggioritaria- era inaccettabile che il fascismo avesse avuto una originaria matrice rivoluzionaria di sinistra, che godesse di un ampio e innegabile consenso, che la Resistenza, infine, non potesse essere considerata propriamente un fenomeno popolare. Di qui le interminabili polemiche contro il suo lavoro e la sua persona, che oggi appaiono per quello che furono: faziose, ideologiche e prive, in gran parte, di vera sostanza storica. Qualunque sia il giudizio che si vuole dare su De Felice, la ricerca storiografica sul fascismo da allora non poté più prescindere dalla sua opera (gigantesca).
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