Segnalazione di Corrispondenza Romana
(Tommaso Scandroglio) Non c’è solo il gender, la comunione ai risposati civilmente e l’aborto che dovrebbero preoccupare i cattolici, ma anche l’eutanasia. La spinta ideologica verso la dolce morte continua a tutti i livelli culturali, politici, giuridici ed anche – ahinoi – intra ecclesiam.
Il comune di Treviso ha approvato l’istituzione del Registro del testamento biologico. Si tratta di questo. Qualsiasi cittadino residente a Treviso potrà dare comunicazione al Comune, compilando un modulo presso appunto apposito registro, di aver lasciato ad un terzo soggetto precise disposizioni inerenti a quei trattamenti sanitari a cui vorrà o non vorrà essere sottoposto nel caso in cui in futuro non sia più capace di intendere e volere. Il terzo soggetto potrà essere un parente, un congiunto, un amico o un professionista (medico di famiglia, notaio, avvocato, etc.). Quest’ultimo ricoprirà il ruolo di fiduciario e sarà suo onere far rispettare i desiderata del dichiarante.
Alcune brevi riflessioni. Perché il Comune non ha deciso di istituire presso i suoi uffici un registro dove raccogliere direttamente le dichiarazioni anticipate sul fine vita? L’amministrazione comunale di Treviso, così come altre in passato, ha scelto questa strada un poco più tortuosa perché nel 2010 ben tre ministeri, quello del Lavoro e delle Politiche sociali, quello dell’Interno e quello della Salute, avevano congiuntamente siglato una direttiva il cui titolo era Direttiva interministeriale in materia di Registri per la raccolta delle dichiarazioni anticipate di trattamento.
Il governo si era deciso ad intervenire in materia perché molti comuni – quasi una settantina in tutta Italia – si erano dotati di questi registri sul fine vita. Cosa diceva la direttiva? «Il Comune – si può leggere nel testo della direttiva tutt’ora vigente –secondo quanto previsto dall’art. 14 del D.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 gestisce, per conto dello Stato e tramite il Sindaco, nella sua qualità di ufficiale di governo, solo i servizi elettorali, di stato civile e di anagrafe [ma] nessuna norma di legge abilita il Comune a gestire il servizio relativo alle dichiarazioni anticipate di trattamento». Si specificava poi a favore dei duri di orecchie che «la materia del ‘fine vita’ rientra nell’esclusiva competenza del legislatore nazionale». Si aggiungeva che «il compito di disciplinare la materia delle certezze giuridiche è riservato allo Stato, al quale spetta di stabilire quali siano gli effetti probatori degli atti conservati da pubblici ufficiali. Tale attribuzione è confermata dall’art. 117 Cost., il quale assegna alla competenza legislativa esclusiva dello Stato in via generale l’ordinamento civile». E così concludeva la direttiva: «nessuna legge abilita il Comune a gestire il servizio relativo alle dichiarazioni anticipate di trattamento».
A fronte di questo divieto così chiaro da parte del governo di istituire i registri del testamento biologico, alcuni comuni si sono fatti furbi ed hanno pensato di aggirare l’ostacolo decidendo non di raccogliere direttamente loro stessi i testamenti biologici o le dichiarazioni anticipate che dir si voglia, bensì solo l’indicazione dove reperire questi documenti. In tal modo il Comune raccoglierebbe non volontà sul fine vita, ma mere indicazioni di carattere topografico. E così non si potrebbe accusare loro di disciplinare giuridicamente la materia sul fine vita di spettanza del Parlamento.
Che valore dare a queste dichiarazioni anticipate e quindi al relativo registro comunale? Giuridicamente nessuno. Infatti ricordiamo che la disciplina del consenso informato prevede che il consenso o il rifiuto di terapie per essere valido deve non solo essere formale, ma anche attuale. Volontà espresse nel passato, seppur scritte nero su bianco con tanto di firma del notaio, non producono nessun effetto giuridico proprio perché inattuali.
Questo sul piano giuridico, sul piano invece della realtà dei fatti rammentiamo che la Dat sono strumento pericolosissimo ed inefficace. In primis occorre rammentare che il testamento biologico o le Dat presuppongono capacità divinatorie in capo al dichiarante che non è in grado di sapere di quale patologia sarà affetto in futuro e quali cure verranno prestate a lui. Oltre al fatto che il soggetto è quasi sicuramente incompetente in materia, incompetenza non sanabile neppure dall’assistenza del medico (indicazione che tra l’altro non compare nella delibera del comune di Treviso). Inoltre una cosa è decidere sulla propria salute quando si è sani e un’altra quando si è malati: tutto cambia. Oltre a questo le Dat congelano la nostra libertà nel passato, ma la volontà per essere tale si deve continuamente confrontare con le circostanze che mutano nel tempo (una terapia oggi inefficace domani potrebbe non esserla più). Infine studi di settore ci spiegano che il fiduciario, chiamato a dare attuazione alle volontà del dichiarante, spesso sbaglia ed anche di molto nella corretta interpretazione del contenuto delle Dat.
Ma torniamo alla decisione del comune di Treviso, il quale ha inviato la delibera ad altri 94 comuni limitrofi affinché questi seguano il suo esempio. Tale delibera non recherà nessun danno dato che è priva di valore giuridico? Per nulla. Intanto è uno strumento di pressing psicologico perché il Parlamento legiferi. Presentando una situazione amministrativa dove decine e decine di comuni hanno già disciplinato la materia, seppur in modo illegittimo, si chiederà a Roma di metter mano al fenomeno dei testamenti biologici per fornire al Paese una disciplina unitaria. In secondo luogo il medico che si troverà in mano le Dat di una persona in coma è vero che non sarà obbligato per legge a rispettarle, ma se decidesse di farlo e, per mera ipotesi di scuola, fosse chiamato in giudizio per tale scelta, in sede processuale potrebbe addurre come prova difensiva questo pezzo di carta. E i giudici per mandare a morte Eluana non fecero appello nemmeno a sue dichiarazioni scritte, perché inesistenti, ma semplicemente al “suo stile di vita”. Quindi figurarsi comparire in giudizio forti della dichiarazione del paziente che chiedeva l’interruzione di terapie salvavita.