Un altro Capodanno è alle porte: tanto per capire l’abisso tra quella che oggi consideriamo sofferenza, confrontata a quella di chi al fronte lottava con il freddo e la fame, e sopportava ogni genere di umiliazione corporale, proponiamo questo pezzo tratto da libro “Militia” di Leon Degrelle.
“Chi pensa a noi, gli sperduti delle steppe, che abbiamo da bere, per l’anno nuovo, soltanto neve sciolta, striata di frammenti d’erbe gialle, o un po’ di caffè artificiale che sa di sapone?
Particolari meschini, particolari umilianti: già evocarli parrebbe fuori luogo. Chi riesce a immaginare quel che rappresenta per centinaia di noi, con simili freddi, la minima schiavitù di ordine fisico – per esempio l’avvilente, inevitabile dissenteria? Vanità dei nostri corpi di cui, in certi momenti, eravamo così fieri! La bella bestia umana, morbida, ardente, deve sottoporsi a queste umiliazioni! Si ribella, ma deve cedere. […]
Scrivo vicino a un barile arrugginito, in fondo al quale galleggiano gli ultimi fili d’erba della nostra acqua ghiacciata. Questa povertà, questo isolamento, noi li conosciamo perché abbiamo voluto essere dei puri. E ora più che mai, in questa solitudine in cui i corpi e i cuori si sentono invasi da un freddo mortale, io rinnovo i miei giuramenti di intransigenza. Ora più che mai, io camminerò diritto, senza cedere in nulla, senza venire a patti, duro verso la mia anima, duro verso i miei desideri, duro verso la mia giovinezza.
Preferirei dieci anni di freddo, di abbandono, piuttosto che sentire un giorno la mia anima vuota, sgomenta dei suoi sogni morti. Scrivo senza tremare queste parole che pure mi fanno soffrire. Nell’ora della disfatta di un mondo, c’è bisogno di anime rudi ed elevate come rocce contro cui si infrangeranno invano le onde scatenate.”
Léon Degrelle, Militia
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