Comunismo e famiglia

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Karl Marx

Nel corso del recente dibattito riguardante il DDL Cirinnàsulle unioni civili tra persone dello stesso sesso,èemersa, tra i sostenitori del fronte del“no”, la tesi per la quale i partiti dell’attuale sinistra progressista, con la loro posizione favorevole al DDL, starebbero venendo meno ad alcuni degli ideali fondanti dei partiti comunisti loro antenati. In particolare, su Facebookègirata prepotentemente questa immagine:

comunisti famiglia

Chiaramente, essa lascia spazio a pochi dubbi. Il Partito Comunista Italiano, non più tardi di cinquant’anni fa, proponeva manifesti che, oggi, i loro epigoni ascriverebbero a omofobia e reazionarismo clericale. Lo slogan “Difendere la famiglia” e la raffigurazione sullo sfondo di quella che oggi verrebbe definita una “famiglia bigenitoriale eterosessuale” (e che è, poi, la famiglia e basta) esplicano la volontà di quello che è stato il partito comunista più forte dell’Europa occidentale di difendere l’istituto familiare dall’eterno nemico, che ne metteva a rischio l’esistenza: il Grande Capitale.

Niente di nuovo sotto il sole, comunque. La trasformazione dei vecchi partiti comunisti in partiti progressisti di sinistra non è consistita solamente nel processo di modificazione nominale seguito alla caduta del Muro di Berlino, ma anche nel lento slittamento di posizioni politiche avvenuto contestualmente al movimentismo del ’68. Le contestazioni studentesche, il sorgere di nuove tematiche come l’ambientalismo, il femminismo e la difesa dei diritti dei gay, la nascita del movimento hippy e della sua volontà di ritorno a una presunta natura e spontaneità primordiale sono tutti segnali di un profondo mutamento che attraversò i partiti e i movimenti comunisti tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Ottanta, allineando nuove lotte “civili” alle vecchie lotte “sociali”, fondate sulla difesa del proletariato dallo sfruttamento capitalistico. Se, però, all’inizio, i giovani dei movimenti studenteschi riuscirono a “unire le lotte”, affiancando le nuove tematiche alle vecchie, progressivamente si assistette a un abbandono delle lotte sociali, in favore delle nuove lotte civili, che divenne definitivo allorché la caduta dell’Unione Sovietica sembrò evidenziare il fallimento del modello economico del socialismo reale. La fine dell’URSS e del “sogno comunista” lasciò i partiti progressisti senza un punto di riferimento internazionale e senza più un modello economico di riferimento: restavano, però, le eredità sessantottine, le lotte per l’estensione dei diritti civili e per l’emancipazione individuale da qualsiasi residuo clericale, patriarcale e gerarchico, ivi compresa la famiglia.

E’ il processo che Diego Fusaro, in Minima mercatalia, definisce come abbandono dei diritti sociali in favore dei diritti civili e che il filosofo imputa a una sostanziale adesione del movimento sessantottino non all’ortodossia comunista, bensì al liberal-capitalismo. Il vento del Sessantotto, invece che spazzare via la struttura capitalistica dei rapporti di produzione, aiutò il nascente capitalismo finanziario a far piazza pulita dei restanti legami borghesi e comunitari che impedivano il definitivo dispiegarsi del dominio del Grande Capitale, che riuscì così a imporre l’utilitarismo economico e il “nudo pagamento in contanti” su tutti i rapporti sociali. In questa maniera, si spiegherebbero le degenerazioni odierne dei partiti progressisti e la loro volontà di minare alla base le fondamenta della famiglia, appoggiando anche le più deliranti e strampalate richieste provenienti dal mondo LGBT, come l’utero in affitto o l’abolizione dell’obbligo di fedeltà matrimoniale.

La tesi è indubbiamente interessante e, a parere di chi scrive, molto valida nell’analisi di cosa sia stato in sé e per sé il movimento del ’68 e di quali conseguenze nefaste abbia portato all’Italia (alcune delle quali si possono tuttora notare, ad esempio in ambito scolastico e universitario). Sostenere, però, che le suggestioni sessantottine e le posizioni odierne dei partiti progressisti non abbiano alcun legame con il loro retroterra comunista sarebbe una vera e propria mistificazione.

Un conto è dire che i partiti comunisti “vecchio stampo” applicassero una prassi e una propaganda di difesa della famiglia per ragioni di opportunismo mediatico e per una sorta di contrasto al sistema liberal-capitalistico, in quanto distruttore dell’istituto familiare mediante la massimizzazione dei profitti e lo sfruttamento dei lavoratori. Un altro è sostenere che il comunismo ideale, teorico, per come è presentato dai suoi padri fondatori Karl Marx e Friedrich Engels, sia stato un grande fautore di una società tradizionale basata sull’istituto familiare. Basta, infatti, aprire una qualsiasi edizione del Manifesto del partito comunista – scritto a quattro mani dai due autori nel 1848 – per trovare, nel secondo capitolo, l’esplicazione chiara e netta della posizione comunista riguardo alla famiglia:

Abolizione della famiglia! Persino i radicali più avanzati si scandalizzano per questo vergognoso proposito dei comunisti. Su cosa poggia la famiglia attuale, la famiglia borghese? Sul capitale, sul guadagno privato. Nella sua forma compiuta, essa esiste solo per la borghesia, ma trova il suo complemento nella forzata mancanza di famiglia dei proletari […]. La famiglia del borghese verrà meno naturalmente con il venir meno di questo suo complemento ed entrambi scompariranno con la scomparsa del capitale. Ci accusate di voler abolire lo sfruttamento dei bambini da parte dei loro genitori? E’ un delitto che confessiamo. (1)

Da questo breve brano – corroborato, comunque, anche dalle tesi contenute in una precedente opera comune dei due autori del 1843, La sacra famiglia, pur con alcune differenze – risulta evidente come la famiglia non sia affatto, per i comunisti, un’istituzione da difendere, radicata nella natura umana, ma sia un istituto sociale, proprio della società borghese, destinato a venir meno nel corso del divenire storico per il naturale sviluppo del sistema capitalistico. Marx e Engels respingono l’accusa di voler distruggere la famiglia, ma replicano che essa è già distrutta per tutti i proletari non possessori dei mezzi di produzione e che, presto, scomparirà anche come istituto della borghesia, con l’avanzare del capitalismo e della logica del profitto.

Questo processo non è, nell’ottica marxiana, da ostacolare, bensì da agevolare, in quanto fa parte di quella distruzione della sovrastruttura, operata dal capitalismo, che permetterà di mettere a nudo la violenza e l’intollerabilità dei rapporti di produzione e, conseguentemente, la rivoluzione proletaria. Nel comunismo realizzato, per quanto Marx non ne dia in quest’opera (né mai) una caratterizzazione concreta, non ci sarà alcuno spazio per una restaurazione dell’istituto familiare dopo lo sfacelo capitalistico. Ci sarà, invece, l’emancipazione umana da tutti i rapporti borghesi e capitalistici, e dunque anche dalla famiglia. Essa è, peraltro, definita come lo “sfruttamento dei bambini da parte dei genitori”, una caratterizzazione, attuata prendendo casi estremi, tragici e accidentali e cercando di renderli casi tipici, abituali e sostanziali, che ricorda l’odierno modus operandi radicale e LGBT. (2)

Potrà anche essere possibile, come sostengono alcuni, basandosi su lettere risalenti agli ultimi anni della vita di Marx, che il filosofo di Treviri abbia, in seguito, cambiato idea su tale questione. Questo non cambia, comunque, l’essenza anti-familiare del comunismo originario e la sua sostanziale estraneità a quei rapporti comunitari, come l’affetto per la famiglia, la patria, la stirpe e il proprio popolo, che sostanziano nel profondo il soggetto umano. Molti intellettuali in gioventù marxisti, riconoscendo questo fatto, sono approdati a posizioni “comunitariste”, che, pur mantenendo alcuni legami col passato, costituiscono un allontanamento e un abbandono sostanziale del marxismo e del comunismo.

E’ il caso, ad esempio di Alasdair MacIntyre e degli autori afferenti all’area della cosiddetta New Left, giovani intellettuali di scuola marxista, che abbandonarono il pensiero comunista in favore di una più marcata centralità dei rapporti di dono e del valore della comunità in quanto elementi fondanti di un anti-capitalismo di taglio diverso. Si tratta di autori che colsero le implicazioni anti-comunitarie e anti-familiari, oltre che anti-nazionali, del comunismo e che presero una strada diversa, proprio mentre quest’ultimo entrava nel tunnel sessantottino. Un tunnel da cui, complice anche il trionfo nella cultura di massa della Scuola di Francoforte e del suo allargamento della lotta emancipativa a ogni campo dell’esistente (3), non sarebbe più uscito.

Note:

(1) Marx K. e Engels F., Il manifesto del partito comunista, pp. 103-105, Bompiani, 2013 Milano

(2) Ad esempio, nella solita retorica sulla famiglia tradizionale con il padre violento, alcolista e puttaniere, messa a confronto con l’amorevole e fedele coppia omosessuale. Senza entrare nel merito di quanto il secondo modello possa essere effettivamente diffuso, è evidente come il primo sia il frutto di una ridicola mistificazione ed estremizzazione del discorso, che non tiene conto della situazione mediana molto più lineare e positiva, presente nella stragrande maggioranza dei casi.

(3) E’ con la Scuola di Francoforte che, peraltro, nasce il riflesso pavloviano del vedere scampoli di “fascismo” in ogni cosa. I rapporti di potere insiti nella scienza, nel mito greco e persino nelle piramidi ginniche del marchese De Sade costituiscono un esempio ante litteram delle moderne accuse di fascismo a qualunque elemento o persona che ponga un ordine o una razionalità a ostacolo del libero esplicarsi dei desideri soggettivi.

 

 

 

 

Fonte: http://ordinefuturo.net/2016/02/29/comunismo-e-famiglia/

 

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