Segnalazione Corrispondenza Romana
di Tommaso Scandroglio
La Commissione per i diritti umani della città di New York ha stilato una lista di 31 termini da usare in ambito lavorativo per non discriminare le persone in ordine al loro orientamento sessuale e alla loro identità sessuale. Se il datore di lavoro intenzionalmente non osserverà questo elenco rischierà fino ad una multa di 125mila dollari.
Se oltre al dolo si accompagnerà anche un atteggiamento provocatorio, la multa salirà fino a 250mila dollari. I termini da usare corrispondono alla tavolozza immaginaria e fantastica di “generi” sessuali inventata a tavolino dagli ideologi della teoria del gender. Nella lista compaiono termini che ormai sono diventati usuali come “drag queen” (maschio che si traveste da donna usando abiti molto appariscenti) e “transgender” (persona che percepisce la propria sessualità come un qualcosa di fluido ed impreciso), parole però il cui significato rimane comunque e comprensibilmente oscuro ai più.
Poi vi sono altre parole la cui accezione è assolutamente sconosciuta a tutti: “agender” (privo di identità sessuale), “femme queen” (termine che dovrebbe indicare un maschio effeminato che ama travestirsi da donna usando abiti appariscenti), “hijra” (così vengono indicati i transessuali o i transgender dagli abitanti dall’Asia meridionale), “gender bender” (persona che ama trasgredire al comportamento previsto dal ruolo della sua identità sessuale) e “gender blender” (miscuglio di sessi). Quindi se il datore di lavoro si trovasse di fronte un dipendente “hijra” e non lo riconoscesse, potrebbe pagare multe assai salate.
L’Università californiana di Berkeley aveva già stilato un glossario LGBT per non discriminare nessuno ed anche una nuova grammatica inglese. Ad esempio i pronomi personali “He” e “She”, usati rispettivamente per uomini e donne, diventano “Ze” (pronuncia “zii”) per tutti gli altri che non si percepiscono né come maschi né come femmine. Per dire “suo”, non potendo usare il maschile “him”, né il femminile “her”, si dovrà ricorrere a “here” e via inventando sulla strada di questo nuovo esperanto di genere e omosessualista.
Il primo modo per creare una realtà inesistente è dunque quella di inventare neologismi. Nel pensiero cristiano le parole servono per indicare la realtà. Invece nelle ideologie di ogni epoca le parole servono anche e soprattutto per creare mondi inesistenti. Nel presente caso questi termini sono funzionali alla creazione di un uomo nuovo ad immagine e somiglianza delle proprie voglie e pulsioni e non più, come accadeva per l’uomo “vecchio”, ad immagine e somiglianza di Dio. Lo aveva spiegato in modo molto acuto Benedetto XVI qualche anno fa: «Dove la libertà del fare diventa libertà di farsi da sé, si giunge necessariamente a negare il Creatore stesso e con ciò, infine, anche l’uomo quale creatura di Dio, quale immagine di Dio viene avvilito nell’essenza del suo essere» (Discorso alla Curia Romana, 21 dicembre 2012).
La rivoluzione linguistica ad uso e consumo della teoria del gender ha radici che affondano nel passato. Il filosofo inglese John Locke (1632-1704) così scriveva in merito al fine del linguaggio: «L’uso delle parole è quello di essere segni sensibili di idee, e le idee in luogo delle quali le parole stanno sono il loro significato proprio e immediato». (Saggio sull’intelletto umano, III, cap. II).
Per Locke non si poteva conoscere la natura delle cose, la realtà per quello che veramente è. Si può averne solo una rappresentazione mentale, cioè un’idea. Ma se per Locke le parole indicano solo le idee, vuol dire che le parole non indicano più la realtà vera e propria, ma unicamente una realtà pensata, una realtà ideale, immaginata, fantastica. E dunque – dato che non sono più in grado di riconoscere il dato reale della bipolarità sessuale maschio-femmina – io posso immaginare l’esistenza di altri infiniti sessi e inventarmi di conseguenza altri infiniti termini per descriverli. Una realtà antropologica immaginata non può che portare ad una identità sessuale da fantasy.