Tipologie europidi

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Segnalazione di Raimondo Gatto

Disinformazione riguardo l’antropologia fisica e la genetica delle popolazioni

Le razze esistono?

Spesso ci sentiamo dire che le razze umane non esistono, con conseguente accusa di razzismo verso chi la pensa in maniera opposta.
Focalizzandoci sul termine razzismo, viene fuori che il suo significato è il seguente:

concezione fondata sul presupposto che esistano razze umane biologicamente e storicamente superiori ad altre razze.

Il razzista dunque stabilisce una gerarchia tra queste razze, discriminandone alcune.
Credere nell’esistenza delle razze umane non è razzismo, è semplicemente guardarsi attorno senza fette di salame sugli occhi.
Come giustamente recita l’articolo 3 della Costituzione Italiana,

tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

 

Avete mai sentito qualcuno dire che le razze umane non esistono, perché “è stato scritto nella Dichiarazione sulla razza dell’UNESCO”?
L’avessero almeno letta! La Dichiarazione sulla razza dell’UNESCO, approvata già nel 1950, è stata scritta per combattere il fenomeno del razzismo, ma viene spesso mal interpretata e sbandierata per giustificare l’inesistenza delle razze umane. Essa infatti in realtà sancisce che:

  • Una razza, dal punto di vista biologico, può essere definita come uno dei gruppi di popolazioni che costituiscono la specie Homo sapiens. Questi gruppi sono in grado di ibridarsi l’uno con l’altro, ma, in virtù delle barriere isolanti che in passato li tenevano più o meno separati, manifestano alcune differenze fisiche a causa delle loro diverse storie biologiche.
  • In breve, il termine “razza” indica un gruppo umano caratterizzato da alcune concentrazioni, relative a frequenza e distribuzione, di particelle ereditarie (geni) o caratteri fisici, che appaiono, oscillano, e spesso scompaiono nel corso del tempo a causa dell’isolamento geografico.
  • In materia di razze, le uniche caratteristiche che gli antropologi possono efficacemente utilizzare come base per le classificazioni sono quelle fisiche e fisiologiche.
  • In base alle conoscenze attuali non vi è alcuna prova che i gruppi dell’umanità differiscano nelle loro caratteristiche mentali innate, riguardo all’ intelligenza o al comportamento.

Vale a dire: la differenza di razza, unicamente biologica e fenotipica, non implica una differenza riguardo la psicologia dell’individuo; a tal proposito infatti, discipline come la frenologia, la fisiognomica e l’antropologia criminale, che arrivano a definire alcune caratteristiche comportamentali e psicologiche solo in base all’aspetto fisico di un individuo, a differenza dell’antropologia fisica vengono definite pseudo-scienze.
La Dichiarazione sulla razza è stata ripresa 30 anni dopo, votata all’unanimità e quindi approvata nuovamente dalla Conferenza Generale dell’UNESCO il 27 novembre 1978.

La negazione del concetto scientifico di razza umana non è rintracciabile prima del 1962, ed è iniziato con un paper di Livingstone. Tale mentalità ha poi guadagnato terreno nella metà degli anni ’60 durante il movimento di diritti civili, e poi dal ’70 la parolina “razza” nella scienza è diventata un tabù attraverso la politically correctness.
Le radici della “negazione della razza” sono pertanto politiche, non scientifiche. Sono state collegate alla prima fase del “boasianismo” (Boas fu tra i pionieri dell’antropologia culturale moderna), ma il rifiuto assoluto del termine razza negli umani è apparso solo nel 1962. I precedenti “boasianisti” rivendicavano solo che le razze fossero uguali, ma non negavano la loro esistenza.
Successivamente la razza viene definita come un “costrutto sociale” (?).

La negazione delle razze non è qualcosa di scientifico né remotamente razionale.

Ashley Montagu, antropologo ed umanista inglese, nel 1963 disse:

Il male del razzismo risiede nella negazione del diritto delle persone di essere giudicati come individui piuttosto che come membri del gruppo, e nel troncamento di opportunità o diritti su tale base. Ma questo vale anche per altri “ismi” come il sessismo, l’antisemitismo e i pregiudizi contro altri gruppi: i problemi razziali non sono razziali.
Se i popoli biologicamente diversi non avessero differenze biologiche ma fossero caratterizzati semplicemente sulla base della lingua, della religione o del comportamento, esisterebbero ancora gli stessi problemi.
Come facciamo a sapere questo? Perché esistono, per altri gruppi. I problemi di razza sono problemi sociali, non biologici.

Va detto che il tabù riguardo la parola “razza” è molto più sentito in Italia, forse a causa del pentimento riguardo le leggi razziali fasciste. Tuttavia in America come in U.S.A. e Brasile si fa correntemente uso di tale termine nei censimenti, negli anagrafi, negli ospedali, nei carceri, etc… proprio perché in quei paesi c’è più eterogeneità razziale e si sente il bisogno di distinguere la popolazione.
Mentre negli U.S.A. si parla di razze come quella White (Caucasoide), Black (Congoide), Hispanic (Amerindia) e Asian (Mongoloide), in Brasile si usa addirittura nei censimenti termini come Mestizo, Mulato e Pardo per identificare gli individui che sono il risultato di ibridazioni tra Caucasoidi, Congoidi e Amerindi.

Quante volte avete sentito dire che l’evoluzione della genetica umana ha invalidato il concetto di razza? Tutt’altro!
Ma andiamo in ordine e analizziamo attentamente il cammino che ha percorso la genetica umana nel corso dei decenni…

Uno dei cavalli di battaglia di questi “negazionisti” dell’esistenza di razze umane è la frase che disse il biologo e genetista Statunitense Richard Lewontin negli anni ’70, la quale asserisce che non esistono razze umane biologicamente ben distinte in quanto la maggiore diversità genetica è insita tra persone della stessa razza piuttosto che tra persone di razze diverse.
Tralasciando la conoscenza della genetica delle popolazioni, risulta davvero possibile credere che un nativo Quechua delle Ande peruviane sia più vicino geneticamente a un Italiano… rispetto a un Greco?

Nel suo studio “la ripartizione della diversità umana” del 1972, Richard Lewontin eseguì un’analisi statistica sull’indice di fissazione (FST) utilizzando solo 17 markers (ai tempi non si poteva pretendere molto dalla genetica), tra cui le proteine dei gruppi sanguigni, di individui appartenenti a razze definite classicamente ovvero Caucasoidi, Congoidi, Mongoloidi, Australoidi e Amerindi.
Egli trovò che la maggior parte della variazione totale genetica tra gli Homo sapiens (pari allo 0.1% di DNA) ovvero l’85.4%, si trova all’interno delle popolazioni, l’8.3% della variazione si trova tra le popolazioni all’interno di una razza e solo il 6.3% risulta spiegare la classificazione razziale. Sulla base di questa analisi, Lewontin ha concluso frettolosamente che “dal momento che tale classificazione razziale è vista ora come priva di alcun significato genetico o tassonomico, nessuna giustificazione può essere offerta per il suo mantenimento”.

“Diversità genetica umana: la fallacia di Lewontin” è un paper del 2003 di A.W.F. Edwards che è uno statistico, genetista e biologo britannico, conosciuto soprattutto per la sua opera pionieristica con l’italiano Luigi Luca Cavalli-Sforza sui metodi quantitativi dell’analisi filogenetica, e vincitore assieme a quest’ultimo della medaglia d’oro Telesio Galilei Academy of Science nel 2011.
Egli critica un dibattito aperto da Richard Lewontin nel suo articolo “la ripartizione della diversità umana” del 1972, nel quale sostiene che la divisione dell’ umanità in razze è tassonomicamente invalida.
La critica di Edwards è discussa in un certo numero di libri accademici e di divulgazione scientifica, con vari gradi di supporto.

Edwards ha sostenuto che, mentre le dichiarazioni di Lewontin sulla variabilità sono corrette quando si esamina la frequenza dei diversi alleli (varianti di un gene particolare) a un singolo locus (la posizione di un particolare gene) tra gli individui, è comunque possibile classificare gli individui in diversi gruppi razziali con una precisione che si avvicina al 100% se si tiene conto della frequenza degli alleli a vari loci allo stesso tempo.
Questo accade perché differenze nella frequenza di alleli a loci diversi sono correlate attraverso le popolazioni: gli alleli che sono più frequenti in una popolazione in due o più loci sono correlati quando si considerano le due popolazioni simultaneamente.
In altre parole, la frequenza degli alleli tende a raggrupparsi diversamente in base alle diverse popolazioni.
Usando le parole di Edwards, “la maggior parte delle informazioni che contraddistingue le popolazioni è nascosto nella struttura di correlazione dei dati”. Queste relazioni possono essere estratte utilizzando tecniche di ordinamento e analisi dei gruppi (cluster analysis) comunemente usate. Edwards sostenne che, anche se la probabilità di non riuscire a classificare un individuo in base alla frequenza di alleli in un unico locus è del 30%, la probabilità di classificazione errata rasenta lo zero se abbastanza loci vengono analizzati.

Il paper di Edwards dichiarò che la logica di fondo è stata discussa nei primi anni del XX secolo.
Edwards scrisse che lui e Cavalli-Sforza avevano presentato un’analisi in contrasto a quella di Lewontin, utilizzando dati molto simili, già al Congresso Internazionale di Genetica del 1963. Lewontin ha partecipato alla conferenza, ma non ha fatto riferimento a questo nel suo lavoro successivo.
Edwards sostenne che Lewontin ha usato la sua analisi per attaccare la classificazione umana nella scienza per motivi puramente sociali: Lewontin, come un altro antropologo di nome Boas che metteva in dubbio la validità della craniometria nella classificazione razziale, era di origini Ebree e quindi sensibile alle tematiche del razzismo; aveva cioè un forte bias. E i bias sappiamo bene che impediscono di analizzare dei fatti in maniera razionale.

Con la loro “mappatura completa del genoma umano” del 2001 i genetisti Francis Collins e J. Craig Venter cercarono di dimostrare che il concetto di razza non ha fondamento scientifico. Venter disse di avere utilizzato il DNA di “20 donatori” appartenenti a cinque razze diverse: caucasoidi, negroidi, mongoloidi, amerindi e australoidi. Ma i concorrenti avversari di Venter, i ricercatori pubblici finanziati dall’Istituto Nazionale della Salute e le aziende private che si occupano di genetica umana, scoprirono che “il genoma umano” studiato da lui era in realtà “il genoma di Venter”.
Venter confessò di essere stato lui l’esploratore e insieme l’esplorato: era il suo, e non di altri, il materiale genetico usato per leggere il libro della vita, in un atto di superbia luciferina o di umiltà divina se preferite, ma di certo barando per ottenere i risultati che voleva.
Venter fu licenziato da Celera, l’azienda da lui fondata, all’inizio dell’anno dopo, nel 2002.

Nel documento del 2007 “somiglianze genetiche all’interno e tra le popolazioni umane”, Witherspoon et al. tentarono di rispondere alla domanda “quanto spesso una coppia di individui presi dalla stessa razza è geneticamente più dissimile di due individui scelti da due razze diverse?”.
La risposta dipende dal numero di polimorfismi utilizzati per definire tale diversità, e dalle popolazioni a confronto. Quando hanno analizzato tre coppie di tre razze distinte (Caucasoidi, Congoidi e Mongoloidi) e misurato la somiglianza genetica tra le tante migliaia di loci, la risposta alla loro domanda era “mai”.
Tuttavia, misurando la somiglianza con un numero inferiore di loci ha prodotto una sostanziale sovrapposizione tra queste popolazioni. Tassi di somiglianza genetica tra popolazioni diverse aumentano anche quando le popolazioni geograficamente intermedie e razzialmente mescolate sono state incluse nell’analisi.
D’altronde, se esistono i meticci… perché non dovrebbero esistere le razze originarie?
Theodosius Dobzhansky, genetista e biologo Ucraino che era tutto fuorchè un razzista o suprematista, disse che negare il concetto di razza per il solo fatto che queste non sono separate da paratie stagne e vi sono popolazioni “intermedie” tra di loro, sarebbe come negare l’esistenza delle città per il fatto che il territorio frapposto è comunque urbanizzato senza soluzione di continuità.

Mark Pagel, attualmente professore di biologia evolutiva presso l’Università di Reading, una volta disse:

Le persone di origine siberiana, gli highlanders della Nuova Guinea, quelli del sub-continente indiano, i caucasici, gli aborigeni australiani, i polinesiani, gli africani – sono, ufficialmente, tutti uguali: non ci sono razze.

Successivamente, nel 2007, cambiò idea:

Gli ultimi studi sul genoma rilevano che c’è tra gli uomini una grande diversità genetica. Ci accomuna il 99.5% del patrimonio genetico, non il 99.9% come invece si credeva in passato. Questa è una revisione notevole se pensiamo che con lo scimpanzé la somiglianza è del 98.5%.
Che ci piaccia o no, ci sono tra gli esseri umani differenze che possono corrispondere alle vecchie categorie di “razza”. Questo non vuol dire assolutamente che un gruppo sia superiore all’altro, ma solo che sia lecito discutere di differenze genetiche tra le razze umane.

È quindi saltato fuori, dopo il sequenziamento dell’intero genoma umano nel 2003, che la diversità genetica tra gli umani è pari allo 0.5%. Gli scimpanzé e i bonobo sono addirittura due SPECIE (non razze) distinte, nonostante la loro differenza genetica sia pari a un misero 0.3%.

Diversi studi hanno confermato che all’interno della differenza genetica tra cani (la quale è inferiore all’1% visto che questa percentuale designa la differenza genetica tra cani e lupi) solo il 27% giustifica la differenza tra razze, e che tali razze si sovrappongono nei grafici di clustering, esattamente come quelle umane.
Ciò significa che non è possibile distinguere un chihuahua da un alano?
Si sente spesso dire che non esistono razze tra uomini in quanto “proveniamo tutti dallo stesso ceppo africano”.
Il genetista John Novembre dell’University of Chicago ha analizzato il DNA mitocondriale di cani, lupi moderni e di antichi lupi, e il suo studio suggerisce che i cani discendano da un unico ceppo di lupo che da allora si è estinto.

Ma esattamente, cosa sono le razze?
Nel campo della biologia evolutiva, le razze (chiamate anche “sottospecie” o “ecotipi”) sono popolazioni morfologicamente distinguibili che vivono in allopatria (cioè sono separati geograficamente). Non vi è alcun criterio che decide quanta differenza morfologica serve per delimitare una razza in un animale.
Le razze di topi, per esempio, sono identificate esclusivamente sulla base delle differenze di colore del mantello, che potrebbe comportare solo uno o due geni.

In base a tale criterio, ci sono delle razze umane?
Sì. Come tutti sappiamo, ci sono gruppi di persone morfologicamente diversi che vivono in aree diverse, anche se tali differenze si stanno confondendo a causa di recenti innovazioni nei trasporti che hanno portato a più ibridazioni tra i gruppi umani.
Tuttavia, prima era molto difficile se non impossibile effettuare viaggi intercontinentali, dato che alcuni continenti non erano stati ancora scoperti (tranne che dalle popolazioni autoctone).
Spesso ci sentiamo dire che le razze esistono solo per gli animali; tralasciando la ridicola implicazione che l’essere umano non sia un animale, essi argomentano la loro tesi dicendo che l’uomo ha sempre viaggiato (vero), si è sempre mischiato (esattamente con chi si mischiavano le popolazioni che scoprivano un continente disabitato?) e che non ci possono essere razze umane dato che discendiamo tutti dalla stessa popolazione che 200 mila anni fa era in Africa.
Quindi non ci possono essere razze canine dato che solamente 15 mila anni fa neanche esistevano i cani?

Nella figura sotto, tratta dallo studio del 2013 di Lazaridis et al. sono rappresentate le admixtures autosomiche che identificano le varie razze umane.
Sono state analizzate 185 popolazioni diverse attraverso ben 293.832 SNPs (polimorfismi a singolo nucleotide) autosomici.
Mostra chiaramente la divisioni tra le admixtures correlate alle 6 razze mondiali: quella Capoide (rosso), Congoide (arancione), Caucasoide (blu), Amerindia (verde), Mongoloide (giallo) e Australoide (viola).
Nel caso di meticci, è possibile risalire alle percentuali di DNA delle loro razze originarie grazie alle tecniche genetiche di cluster analysis.

Nella figura successiva, è rappresentata invece la distanza genetica tra le varie popolazioni mondiali, raggruppate per colore in base al continente.
La distanza genetica si calcola misurando la lunghezza della linea orizzontale che separa due determinate popolazioni.
Come è possibile notare, la distanza genetica maggiore si ha tra le popolazioni Sub-Sahariane e le altre. Questo perché le popolazioni al di sopra del Sahara (come i Maghrebini e gli Egiziani), seppure abitino nello stesso continente, non sono di razza Congoide ma Caucasoide, come gli Europei.

Ma quali sono le implicazioni di queste differenze razziali?

Oltre a quelle fenotipiche, ci sono altre differenze tra le razze umane. Ci sono ad esempio alcune implicazioni mediche: come è ben noto ai medici, i gruppi razziali presentano differenze statisticamente rilevanti di frequenze di disturbi. Alcuni di essi potrebbero naturalmente essere dovuti a differenze culturali/ambientali e non genetiche, ma in alcuni casi la causa è certamente genetica (predisposizione), e ciò dovrebbe essere preso in considerazione per la diagnosi di un individuo.
Le persone che risultano negative all’antigene eritrocitario Duffy tendono ad avere una maggiore resistenza alla malaria. La negatività a questo antigene è molto frequente in Africa centrale e la frequenza diminuisce con l’aumentare della distanza, anche se fuori dall’Africa le frequenze rimangono alte nelle popolazioni con elevati gradi di recente immigrazione africana (ad esempio, i neri portati in America come schiavi).
Un certo numero di condizioni genetiche prevalenti nelle zone endemiche della malaria possono fornire resistenza genetica a questa malattia, tra cui l’anemia falciforme che infatti è molto più diffusa tra gli Africani subsahariani e i loro discendenti (Congoidi).
La fibrosi cistica è la più comune malattia autosomica recessiva tra le persone di razza Caucasoide, le quali sono più affette anche da fenilchetonuria; anche gli Ebrei ashkenaziti hanno la loro gamma unica di malattie genetiche, come la malattia di Tay-Sachs.

Un altro aspetto di cui sono a conoscenza i medici riguarda la differenza di reazione alle sostanze (farmaci e droghe) e intolleranze alimentari. L’intolleranza al lattosio ad esempio spazia da una percentuale del 5% della popolazione totale tra i Caucasoidi a picchi del 90% tra i Congoidi e i Mongoloidi.
Le informazioni sulla razza di un individuo sono di enorme aiuto nella diagnosi, e le risposte avverse possono variare a seconda del gruppo. A causa della correlazione tra razze e cluster genetici, i trattamenti medici hanno diversi tassi di successo tra i gruppi razziali. La razza è infatti un fattore indispensabile quando si esaminano le popolazioni, ad esempio nella ricerca epidemiologica. Per questo motivo, alcuni medici prendono in considerazione la razza del paziente nello scegliere un trattamento più efficace, e alcuni farmaci sono commercializzati con istruzioni specifiche per ogni razza.
Se si ha in cura un nero che soffre di depressione, bisogna prescrivere dosi più deboli di Prozac, perché i dati clinici analizzati dalla ricerca farmacologia hanno dimostrato che numerosi afro-americani metabolizzano gli antidepressivi più lentamente rispetto a caucasoidi e mongoloidi.
Il Cozaar è un prodotto farmacologico utilizzato per diminuire la pressione arteriosa che ha risolto solo pochi casi di ipertensione tra la popolazione di razza Congoide.
Negli USA un’azienda farmaceutica ha commercializzato un farmaco prodotto su misura per afroamericani: si chiama BiDil ed e’ una medicina per il cuore; i test clinici sui congoidi hanno dato risultati tanto positivi da far interrompere la sperimentazione e chiedere subito l’autorizzazione alla vendita.

Il termine “costrutto sociale” è pertanto semplicemente una correttezza politica imposta su una realtà biologica.
In considerazione delle differenze morfologiche, genetiche e salutari tra popolazioni umane, come possono tali differenze essere semplici “costrutti sociali”? Sono cose che cambiano rinnegando la propria cultura o spostandosi geograficamente? Un figlio di cinesi nato in Islanda diventa biondo e tollerante al lattosio?

Burchard et al, nella loro opera “The Importance of Race and Ethnic Background in Biomedical Research and Clinical Practice” del 2003, scrissero:

Ci sono differenze razziali nelle cause, espressioni e prevalenza di varie malattie.L’importanza relativa di biases, culture, status sociali o economici, accessi alle cure e ambienti sullo sviluppo della malattia è una questione empirica che, in molti casi, rimane senza risposta. Anche se ci sono potenzialicosti sociali associati al collegamento tra la razza e la genetica, crediamo che questi potenziali costi sono compensati dai vantaggi in termini di diagnosi e ricerca.
Ignorare le differenze razziali in medicina e nella ricerca biomedica non le fa sparire. Piuttosto che ignorare queste differenze, gli scienziati dovrebbero continuare a usarle come punti di partenza per ulteriori ricerche. Solo concentrando l’attenzione su questi temi possiamo sperare di capire meglio le variazioni tra le razze nella prevalenza e la gravità delle malattie, e le risposte al loro trattamento. Tale comprensione offre l’opportunità di sviluppare strategie per il miglioramento delle salute di tutti.

Kenneth M. Weiss, attualmente docente di antropologia, genetica e scienze al Pennsylvania State University che ha guadagnato l’onoreficenza di “Evan Pugh Professor”, nel 2005 scrisse una lettera che recitava:

Che cosa dovremmo insegnare ai nostri studenti sulla razza? Che la razza non ha nessun significato biologico, e che l’analisi razziale in medicina è discriminatoria e più dannosa di una guarigione? O forse che le razze sono biologicamente differenti e che la loro analisi è inestimabile nelle pratiche quotidiane?
Sarebbe un enorme clamore se il direttore degli Istituti Nazionali di Sanità, con intenzioni politicamente corrette, dovesse vietare il finanziamento di studi specifici sulle razze perché tali studi sono intrinsecamente razzisti. E di certo tali studi non andrebbero fatti in base alla semplice nazionalità o cultura, perché non puoi studiare le caratteristiche degli Amerindi puri adattati alle montagne peruviane utilizzando un campione casuale della popolazione meticcia europea-amerindia attualmente presente nella capitale Lima. Sono queste le riflessioni che gli antropologi dovrebbero fare piuttosto che continuare semplicemente a cercare di dimostrare per l’ennesima volta che la razza sia un costrutto socio-culturale.
La maggior parte degli articoli in materia sono piuttosto prevedibili e trasparentemente riflettono i biases ideologici degli autori, il che è comprensibile ma non certamente utile in termini di comprensione dei fatti.

Molte persone vogliono sapere se le razze umane differiscono geneticamente nelle loro capacità, in particolare l’intelligenza. Mentre penso che ci possono essere differenze statistiche tra le razze in questa caratteristica, non è così ovvio che la selezione sessuale (o naturale) abbia operato sui geni che coinvolgono questi tratti, come con le caratteristiche estetiche. Noi semplicemente non sappiamo, ed è in assenza di dati che è spiacevole speculare su queste cose. È provato però che ci siano differenze tra le popolazioni nella capacità matematica.
In assenza di dati comunque, credo sia opportuno rimanere in silenzio; in ogni caso tali differenze non possono essere utilizzate per giustificare il razzismo vista l’enorme variabilità che vediamo in altri geni tra i membri di diverse popolazioni.

 

 

Fonte: http://tipologieeuropidi.altervista.org/template/files/template/blog.html

 

 

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