EUTANASIA: casi di consenso al suicidio e di omicidio del consenziente

Condividi su:

Segnalazione di Corrispondenza Romana

cagliari_l_appello_di_un_malato_di_sla_al_papa_ho_diritto_di_decidere_quando_voglio_morir-0-0-425695

(Tommaso Scandroglio) Walter Piludu, ex presidente della provincia di Cagliari, è morto per un atto eutanasico  per ordine del giudice tutelare Maria Luisa Delitala. Piludu era affetto da tempo da sclerosi laterale amiotrofica ed aveva espresso più volte la volontà di morire. Il giudice ha ordinato all’Asl la sedazione e quindi lo stacco del ventilatore. L’ordinanza afferma che è «un diritto rifiutare le cure e andarsene senza soffrire: sedati per non sentire ansia o dolore». La decisione del giudice è illegittima.

Vediamone i motivi. Per il nostro ordinamento giuridico la vita è un bene indisponibile. Noi possiamo predicare un diritto alla vita, ma non un diritto sulla vita. Le norme che ci portano a questa conclusione sono le seguenti. Di rango costituzionale ricordiamo l’art. 2 che concerne i diritti inviolabili dell’uomo, tra cui non si può non menzionare la vita.

L’inviolabilità è concepita nell’articolo suddetto erga omnes senza eccezione alcuna, compreso lo stesso titolare del diritto alla vita. Poi rammentiamo l’art. 32 comma 1 che tutela la salute. Per coerenza logica non si può predicare un diritto alla salute e il suo contrario, cioè un supposto diritto alla malattia e quindi, a fortiori, un diritto a morire. Sul piano codicistico si devono menzionare l’art. 579 c.p. concernente l’omicidio del consenziente, l’art. 580 c.p. riguardante l’istigazione e l’aiuto al suicidio e l’art. 5 c.c. Dato che tale ultimo articolo vieta gli atti di disposizione del proprio corpo cagionanti una diminuzione dell’integrità fisica permanente (escluse finalità terapeutiche), è legittimo dedurre da esso, a maggior ragione, un divieto di disposizione che non riguardi meramente una pars del proprio corpo, ma la totalità della vita corporea, l’interezza dell’organismo vivente.

Sul fronte legislativo si rammentano l’apparato normativo contro gli stupefacenti, la disciplina della tutela sanitaria delle attività sportive e della lotta contro il doping, il cosiddetto Testo unico sulla salute e sicurezza sul lavoro, le vaccinazioni obbligatorie, i trattamenti sanitari obbligatori, i periodi coattivi contumaciali per esigenze profilattiche, l’obbligo delle cinture di sicurezza ex lege n. 111 del 1988: tutte normative che tutelano la salute e la vita dei singoli anche contro la volontà degli stessi. E se l’indisponibilità è predicabile per il bene della salute, a fortiori si deve predicare per il bene della vita. Infine ricordiamo un caso giurisprudenziale di scuola. Il poliziotto che strappa a forza dal cornicione il tentato suicida non solo non è reo di violenza privata (se morire fosse un diritto il poliziotto sarebbe incriminabile per aver impedito l’esercizio di un diritto legittimo), ma compie addirittura un atto doveroso ex art 40 cp.

La vita è dunque un bene indisponibile e l’eutanasia è un reato. Ma esiste una importante eccezione – anzi una vera e propria antinomia – data dalla disciplina del consenso informato che permette di rifiutare cure anche salvavita, rifiuto che obbliga il medico all’astensione terapeutica. Trattasi, se il medico sposa l’intenzione suicida del paziente, di eutanasia omissiva. Una vera e propria contraddizione all’interno del nostro ordinamento perché in un caso il poliziotto può e deve coartare il tentato suicida a vivere e nell’altro, all’opposto, il medico non può costringere a vivere il paziente – pena anche il carcere – ma deve invece astenersi. Su altro versante però il medico non può collaborare attivamente nel procurare la morte, altrimenti cadremmo nell’omicidio del consenziente che quindi nel nostro ordinamento, ma unicamente per le professioni sanitarie, è declinabile solo in condotte attive-positive (eutanasia attiva).

In breve il nostro ordinamento giuridico, ma solo nell’ambito clinico, è come se dicesse al paziente che vuole morire: ha il diritto di morire astenendoti da terapie salvavita (eutanasia omissiva), ma non chiedere che qualcuno ti aiuti a toglierti la vita (eutanasia attiva). Quadro giuridico evidentemente schizoide e fragile che, per forza di cose, porterà a legittimare in futuro anche l’eutanasia attiva, qualora il paziente da sé non riesca ad esercitare il diritto a morire. Ora il giudice cagliaritano ha invece ordinato di compiere un atto positivo – staccare il ventilatore – finalizzato a procurare la morte di una persona. Quindi non siamo nella situazione in cui il medico semplicemente si astiene dall’attivare una terapia salvavita – situazione che il nostro ordinamento abbiamo visto considera legittima – ma si adopera positivamente per interrompere un mezzo di sostentamento vitale in atto. Rientriamo con piena evidenza nell’omicidio del consenziente con condotta positiva (caso analogo è stato quello che ha coinvolto il medico Mario Riccio e Piergiorgio Welby).

Quindi trattasi di eutanasia attiva, nonostante il giudice tutelare, rammentando un passaggio della decisione della Cassazione che fece morire Eluana Englaro, affermi che «non è eutanasia, ma la scelta di lasciare che la malattia faccia il suo corso». Inoltre la ventilazione, al pari di nutrizione e idratazione, non costituisce trattamento sanitario, bensì è un mezzo di sostentamento vitale perché la fame di ossigeno non è una patologia, bensì un’esigenza fisiologica. Non essendo un trattamento sanitario non può essere oggetto di rifiuto ex art. 32 comma 2 Cost.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *