I dolori del “regime change” a Washington

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di Maurizio Blondet

I dolori del "regime change" a Washington

Fonte: Maurizio Blondet

Dopo aver provocato tanti regime changes, i responsabili provano sulla loro pelle il regime change in Usa. Non si hanno notizie  precise  dell’agenzia di lobbiyng dei due fratelli Podesta,  quelli per cui la  “artista”  Abramovic   cucinava gli  spiriti. Ma possiamo esser certi che Tony  ha perso il contratto per avanzare gli  interessi della Casa Reale Saud  presso la Casa Bianca: per il quale percepiva 140 mila dollari al mese, abbastanza da togliersi tutti i suoi costosi vizi.  Casa Saud  aveva ammesso di aver finanziato il 20% della campagna Hillary, certo su suo consiglio:  mai fu fatto un peggior investimento.

 

Tony Podesta con una delle sue opere d'arteTony Podesta con una delle sue opere d’arte

Quanto a John Podesta, il fratello, capo della campagna per Hillary  e perciò  venuto troppo in vista (grazie   anche alle sue strane email  spifferate da Wikileaks), non può fare quello che stanno facendo  i militanti meno noti e  meno visibili: sfrondare dal loro curriculum le loro passate benemerenze come raccoglitori di fondi per la Clinton,  cancellare  le loro conoscenze nell’ambiente democratico,  e cercare lavoro presso altre aziende: le quali adesso cercano gente con “republican connections”,  di cui questi poveretti sono privi.

Molti giovani che prima occupavano  vari incarichi di portaborse politici al Senato o al Dipartimento  di Stato, per  prudenza hanno cancellato da Facebook le loro foto esultanti a fianco di Hillary,  e da Linkedin hanno tolto ogni riferimento troppo preciso al loro mestiere di prima. Sono migliaia, cercano lavoro, “e lavoro non c’è”, ha spiegato  a Politico una aiutante dello staff Clinton, Amira Patel. Già: la ripresa economica   di  Obama non sembra poi così impetuosa da assorbire gli scartati dallo spoil system.  Per di più, molti sono giovani che hanno vissuto “tutta la loro vita adulta” sotto un governo democratico (gli 8 anni di Obama) non erano affatto preparati a un  tal cambiamento.

E non sono i soli.

Nell’annuale riunione a Chicago  della American Economic Association,  che riunisce i  maggiori economisti   docenti (e pontificanti  sui grandi media), ha avuto i toni di un funerale.  Tutti questi cattedratici    sono campioni e cantori del mercato e  della globalizzazione –  del resto è la  dottrina ufficiale che per vent’anni  ha gestito cattedre e premi Nobel – e   sono stati colti di sorpresa, a quanto è risultato dal convegno, dal potente crescere del “populismo” che ha portato al potere Trump.  Il quale ha lanciato la de-globalizzzione, il rientro di capitali e posti di lavoro, il nazionalismo economico, e alla fine (orrore)  il protezionismo.  Per di più,  “il presidente eletto non è particolarmente interessato  chieder consiglio al club degli economisti accademici”, sospira Steven Davis, uno del club (University of Chicago)

Economisti in lutto

Com’è stato possibile?, si son chiesti i 15 mila partecipanti smarriti. “L’elite economica ha fatto molto per minare la propria credibilità – mentre la  situazione economica della gente volgeva al peggio”  loro han continuato a predicare  che   nella globalizzazione, “i vincitori e i perdenti si sarebbero compensati”, e fornendo al governo Obama statistiche (tutte vere)  a  cui, secondo il sondaggio Marketplace-Edison Research   dello scorso ottobre, “il 25% degli americani  adulti non crede affatto, e il 19% crede poco”.

Adesso gli economisti in lutto devono riconoscere che l’ultima  porzione delle loro prediche, che   dal 2008 ha asseverato l’instaurarsi della “stagnazione secolare”  e  ha consigliato  alla gente di adeguarsi perché  è “the new normal” (la nuova normalità),  non solo non ha trovato gli americani  medi docili,  ma è persino un errore secondo la dottrina liberista.

Non ricordavano più  che in celebri sentenze, Adam Smith metteva in guardia pressappoco così:

Quando i tassi di profitto sono troppo alti, il capitalismo  cannibalizza se stesso in due modi

1 – Non facendo gli investimenti a lungo termine per il futuro.

2 – Pagando salari insufficienti a mantenere la domanda dei prodotti e servizi che il capitalismo offre.

(Ecco la citazione   di Adam Smith:  But the rate of profit does not, like rent and wages, rise with the prosperity and fall with the declension of the society. On the contrary, it is naturally low in rich and high in poor countries, and it is always highest in the countries which are going fastest to ruin.”)

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Lo stesso medesimo Adam Smith, del resto, aveva avvertito che nel capitalismo  nudo  e crudo  i  vincenti non fanno colare qualcosa della loro ricchezza  sui perdenti, come hanno predicato da 40 anni gli accademici; non esiste il fenomeno del trickle-down, lo sgocciolamento  verso il basso,  che questi economisti davano per certo;  anzi, il capitalismo  incontrollato produce  il trickle-up,  i soldi vanno dal basso in alto; i ricchi diventano rentier oziosi, e risucchiano quel poco ai poveri. In tal modo:

  • I detentori di capitale in eccesso raccolgono rendite, affitti, e interessi.
  • Coloro con capitale insufficiente pagano gli affitti e gli interessi.

La  citazione:  “The Labour and time of the poor is in civilised countries sacrificed to the maintaining of the rich in ease and luxury. The Landlord is maintained in idleness and luxury by the labour of his tenants. The moneyed man is supported by his extractions from the industrious merchant and the needy who are obliged to support him in ease by a return for the use of his money. But every savage has the full fruits of his own labours; there are no landlords, no usurers and no tax gatherers.”

C’è da chiedersi quale dottrina liberista hanno insegnato per gli ultimi 30 anni i cattedratici, facendola passare per quella di Adam Smith. La risposta è facile. Era la dottrina voluta da  Wall Street.

Ovviamente anche i media mainstream escono con   le ossa rotte – e l’autorevolezza a zero – dal “regime change” che hanno così settariamente tentato di combattere. La CNN è fra i massimi perdenti,  quella di  cui il pubblico si  fida meno quando dà notizie politiche.

I media scavalcati dai tweet

Non è il caso di girare il coltello nella piaga, perché il discredito non è ancora il peggio. Il neo-presidente ha  mostrato di non aver bisogno di adulare il club mediatico degli “anchor” strapagati  e lisciare il pelo alle grandi firme: lui comunica direttamente con il popolo americano a forza di tweet,  che raggiungono le masse istantaneamente, e che i media sono forzati a riportare ore dopo o il giorno seguente.  E’ persino dubbio che Trump tenga le rituali conferenze-stampa ufficiali alla Casa Bianca, che sono così gratificanti  per i pennaioli che si sentono  chiamati per nome dal Presidente: “Look, Henry…I could say, Ann…”.   Tutta  questa falsa importanza finirà: loro lo odiano, e lui li detesta.   Regime Change.

Tanto che persino il Washington Post ha cominciato a scrivere nero su  bianco,  in un articolo inchiesta, che:

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  • i principali dieci caporioni dello Stato Islamico sono stati internato a Camp Bucca,  il campo americano di concentramento in Irak;
  • nel 2007, durante il “surge” (l’aumento della pressione militare decretato da Obama) arrivò a contenere 24 mila estremisti veri o presunti
  • – che  i gruppi venivano separati e uniti fra  loro secondo ceri criteri
  • – che in quella sede i baatisti di Saddam,  prigionieri e sconfitti e laici, incontrarono  i wahabiti  più estremi, e “diedero loro ciò di cui mancavano:  disciplina militare e capacità organizzativa”, mentre gli altri diedero ai Baatisti  l’estremismo sunnita.
  • Il futuro Al Baghdadi (il Califfo), il numero due Abu Muslim al-Turkmani, il principale capo militare (oggi caduto) Haji Bakr, il capo dei  guerriglieri stranieri Abu Qasim, hanno tutti frequentato quella università.  Il Califfo ci è rimasto 5 anni.  E  da lì viene la strana idea di costituire uno Stato, con suoi uffici,   fiscalità, scuole, assistenza sociale: il Califfato semi-baathista.

Nel 2009, ha il coraggio di scrivere il Washington Post, inopinatamente la direzione di Camp Bucca liberò centinaia di questi  prigionieri. La polizia irachena nella  vicina città  di Garma, al confine quasi con il Kuweit, si preoccupò di  veder arrivare ceffi  di galera di cui conosceva bene la pericolosità. “Mica è gente che pianta i fiori in giardino”,  disse il capo della polizia Saad  Abbas Mahmoud al corrispondente del Post Anthony Shadid: “Il 90 per cento  riprenderanno a combattere”.

Ciò che il Washington Post continua pudicamente a tacere è che questo era ciò che l’amministrazione Obama voleva, e di cui era ben consapevole.  Dal generale Flynn abbiamo  saputo che  la sua DIA, fin dal 2012, aveva valutato che “esiste la possibilità di  instaurare un principato salafista  nella Siria Orientale (Hasak e Der Zor) e ciò è esattamente ciò che le potenze che sostengono l’opposizione vogliono,  onde isolare il regime siriano”.

IS e US continuano a distruggere le infrastrutture civili siriane

Fra queste potenze non c’erano solo i sauditi e i turchi, ma la  Casa Bianca.  Nell’agosto del 2014,  intervistato da Thomas Friedman per il  New York Times , il presidente Obama l’ha ammesso:  gli Usa erano consci  dei pericoli dell’IS, ma non hanno fatto niente per bloccarne l’’espansione  in Irak   “con bombardamenti” –  questa la spiegazione di Obama , “perché ciò avrebbe  allentato la pressione su Al Maliki”:   il primo ministro dell’Irak, Nuri al Maliki, di cui Obama voleva   la caduta –  perché essendo sciita, obbediva più a Teheran che a Washington.

Naturalmente oggi sappiamo (se non leggiamo il mainstream)  che i monarchi del Golfo hanno finanziato lo Stato Islamico, certo non contro la volontà di Obama; che la Cia e il Dipartimento di Stato li hanno addestrati ed armati…….  Che quando Obama dovette far finta (era stato ucciso  un giornalista Usa) di “bombardare l’IS”, i comunicati dell’US Air Force riferivano di aver distrutto “un escavatore dell’IS”, o “battuto le  posizioni del Califfato”, mentre centinaia di autobotti caricavano il greggio e  poi andavano a consegnarlo, in lunghe file, alla Turchia. Solo quando Putin   – durante il G20 – ha diffuso le foto aeree di quelle colonne ai  capi di stati e governo (e cominciato a incenerirle), allora Obama ha ordinato qualche colpo in più.

E anche adesso, mentre scriviamo, il Pentagono e l’IS in  pieno accordo  e probabile coordinamento, distruggono minuziosamente le  infrastrutture civili della Siria: l’ultima, la rande centrale del gas di Hayan presso Homs,,,, opera dell’IS. Come si ricorderà, nei giorni della vittoria  siriana ad Aleppo, un attentato ha messo fuori uso l’acqua potabile per  5 milioni di abitanti a Damasco e dintorni. A Deir Ezzor un altro attentato ha tolto l’elettricità.

In addition to water crisis, now faces massive new challenge post hit on Gas processing facility Hayan

Si capisce che Obama è ancora alla guida. Il Nobel per la pace.

 

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