Chi ci salverà dal soldato kosovaro?

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Lo stato fantoccio del Kosovo, dove la manovalanza islamica è abbondante, si sta rivelando estremamente utile per chi vuole destabilizzare l’Europa.

Kosovo e minaccia jihadista
Festeggiavano per l’attentato di Westminster, volevano colpire il ponte di Rialto ed erano pronti a morire per Allah. I tre jihadisti arrestati ieri dopo il blitz della polizia a Venezia, venivano dal Kosovo. Ed in Kosovo, come centinaia di altri jihadisti, uno degli arrestati, Arjan Babaj, era tornato dopo essere andato a combattere in Siria. Il caso riaccende i riflettori sulla minaccia per la sicurezza che arriva da questo piccolo Paese dei Balcani, che negli ultimi anni è diventato il più importante hub logistico e di reclutamento per i jihadisti dell’Isis in Europa.
La minaccia jihadista arriva dal Kosovo
Indipendente da nove anni, il Kosovo è un Paese che fatica a riprendersi dal conflitto degli anni 2000, con istituzioni statali deboli e un’economia che non riesce a svilupparsi. Il Paese occupa il 95esimo posto nella classifica sulla corruzione stilata da Transparency International.Chi comanda veramente, come testimoniano numerosi rapporti internazionali, è la criminalità organizzata. Instabilità politica, corruzione, povertà, scarsa fiducia nelle istituzioni, sono i fattori che hanno favorito la radicalizzazione di centinaia di persone, in un Paese con la quasi totalità della popolazione che professa la fede musulmana.  La mancanza di fiducia nelle istituzioni dello Stato e la creazione di centri di potere alternativi, come quelli rappresentati da comunità e associazioni musulmane, assieme agli alti tassi di disoccupazione e alla scarsa educazione, hanno spinto, infatti, molti giovani musulmani kosovari a radicalizzarsi e ad arruolarsi nelle fila dello Stato Islamico in Siria e in Iraq.
Moschee e imam radicali: così si radicalizzano i giovani kosovari
Secondo i dati forniti dalla professoressa Gerta Zaimi, dell’Università di Firenze, durante il suo intervento al convegno “La minaccia della radicalizzazione jihadista nei Balcani: una sfida per la sicurezza europea”, organizzato dall’Assemblea Parlamentare della Nato e dal Centro Studi Internazionali, in Kosovo ci sono 800 moschee, 12 delle quali sfuggono al controllo delle comunità islamiche locali. Ma secondo i servizi di sicurezza di Pristina, le moschee non controllate sarebbero molte di più. Ed è qui, nelle moschee più radicali, che si sono radicalizzati i 340 jihadisti kosovari, di età compresa tra i 20 e i 35 anni, che sono partiti per combattere con le bandiere nere del Califfato. Di questi, 30 sono donne, un terzo delle quali si trovano ancora nei territori sotto controllo dello Stato Islamico, dove sono attive nel proselitismo su internet e nelle mansioni di controllo della sicurezza interna. I servizi di sicurezza di Pristina non hanno fornito dati sul passato criminale dei foreign fighter kosovari. I contatti con la criminalità organizzata, però, ci sono, soprattutto per la fornitura di armi. Una di quelle usate negli attentati di Parigi, veniva, infatti, proprio dalla Serbia. In Siria ci sono arrivati passando per Macedonia, Bulgaria e Turchia: un itinerario economico e sicuro, perché i controlli sono pressoché inesistenti. Un ruolo chiave nel processo di radicalizzazione, spiega Gerta Zaimi, è rivestito dalla figura degli imam, attivi anche sul web, oltre che nelle moschee. Secondo la ricercatrice tutti quelli che hanno deciso di partire dal Kosovo hanno ricevuto due o tre anni di formazione religiosa. Quello che porta all’estremismo violento, però, è un processo repentino e soprattutto individuale, che nella maggior parte dei casi è difficilmente comprensibile anche per i combattenti stessi.
La minaccia dei combattenti di ritorno
Nel 2016 i servizi di sicurezza kosovari non hanno registrato nuovepartenze verso il teatro operativo siriano e iracheno. Per contro, però, sono 130 i combattenti che hanno fatto ritorno in Kosovo, e che costituiscono una sfida per la sicurezza europea. I jihadisti che sono rientrati nel Paese possono essere suddivisi in tre categorie. Ci sono quelli pentiti di aver abbracciato l’ideologia radicale dell’Isis, quelli delusi dall’esperienza nei teatri di combattimento ma che ancora credono all’ideologia radicale, e poi ci sono quelli che non si sono affatto pentiti e che sono tornati con compiti ben precisi. Sono questi ultimi a rappresentare il pericolo maggiore. Per contrastare la loro azione il governo kosovaro, nel 2015, ha messo a punto una strategia di contrasto all’estremismo, basata su un approccio di tipo preventivo, volto a limitare le cause della radicalizzazione. I problemi, però, sono lontani dall’essere risolti. Anche perché, come nota il comandante della Kosovo Force della Nato, Giovanni Fungo, nella seconda metà del 2017 nel Paese verranno rilasciati 50 combattenti di ritorno arrestati dalle autorità kosovare al loro rientro dalla Siria e dall’Iraq.
Il nuovo ruolo della Nato nei Balcani
“Questo rappresenta un pericolo perché potrebbero essersi ulteriormente radicalizzati in carcere”, nota il comandante della missione della Nato a Pristina. E il pericolo è soprattutto per l’Europa. È molto improbabile, infatti, secondo gli analisti, che i jihadisti di ritorno dal Califfato abbiano interesse a colpire nei Balcani, considerati, al contrario, come un importante hub logistico e di reclutamento. L’obiettivo principale, come dimostra il caso dei jihadisti arrestati ieri a Venezia, rimangono le principali città europee. Per questo, come ha chiarito lo stesso segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, la presenza dell’Alleanza Atlantica nei Balcani è connessa anche alla lotta al terrorismo. “Balcani stabili sono importanti per far fronte alla minaccia proveniente dai combattenti stranieri”, ha detto, in proposito, Stoltenberg, che di recente ha visitato il Kosovo. Tra le principali attività della missione Nato a Pristina, ha spiegato, il comandante della Kosovo Force, Giovanni Fungo, ci sono, per questo, anche quelle legate alla “sorveglianza e al controllo della popolazione locale e al monitoraggio dei foreign fighter”. Assicurare la stabilità nei Balcani è, infatti, una questione sempre più prioritaria per garantire la sicurezza e prevenire nuovi attentati in Europa.

 

Segnalazione del Centro Studi Federici

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