Ma davvero ci credete? Davvero pensate che ciò che sta avvenendo negli Usa dall’elezione di Donald Trump in avanti, sia una difesa della democrazia? Che si parli di impeachment per salvare la superpotenza da un complotto ordito da Vladimir Putin (e passi) e dal gruppo dei più scombiccherati congiurati che si possano immaginare? Pensavo che le riflessioni di Francesco Cancellato su Linkiesta degli scorsi giorni avrebbero detto qualcosa anche ai più accaniti anti-trumpiani. E mi sarei aspettato, con tutto quel pò pò di università e centri studi, che saltasse fuori qualcuno ad avvertire dei danni che questa lotta per bande può arrecare al sistema istituzionale americano e al ruolo che gli Usa rivestono nel mondo. Ma pare di no, visto che si continua a parlare di impeachment e di Russiagate. Il che spinge anche a chiedersi: ma che se ne fanno, gli americani, di tutte quelle università e quei centri studi?
Lo zio Donald, bisogna ammetterlo, fa di tutto per farsi impallinare. Non è simpatico, manda a quel Paese la stampa, dice e fa esattamente il contrario di quanto annunciato in campagna elettorale. È il perfetto elefante in cristalleria. Ma il punto non è questo. Quello a cui assistiamo non è una cattiva presidenza ma il caso, forse unico nella storia, di un Presidente delegittimato prima ancora di essere eletto. Perché Barack Obama, che aveva annusato l’aria, cominciò a gridare contro gli hacker (russi, com’è ovvio) già nell’estate del 2016, ben prima dell’elezione che, in novembre, avrebbe democraticamente consacrato Trump.
Da lì in avanti c’è sempre stato un funzionario, un agente segreto, un amico di Obama, una “fonte” a passare ai giornali e alle Tv una “notizia” sulle malefatte pro-Russia di Trump e dei suoi, peraltro mai confermate. Il che è un po’ curioso. Gli Usa dispongono di 17 agenzie di intelligence che hanno 107 mila dipendenti e attingono a un budget di circa 60 miliardi di dollari l’anno. Com’è che in quasi un anno di indagini non hanno ancora trovato uno straccio di prova sui legami tra Trump e il Cremlino o sulle azioni degli hacker russi a favore della campagna elettorale di Trump? Legami e azioni che tutti danno per evidenti, sicure, anzi scontate.
Gli Usa dispongono di 17 agenzie di intelligence che hanno 107 mila dipendenti e attingono a un budget di circa 60 miliardi di dollari l’anno. Com’è che in quasi un anno di indagini non hanno ancora trovato uno straccio di prova sui legami tra Trump e il Cremlino
Altro esempio: quante volte avete sentito ripetere che Michael Flynn, ex generale, ex capo dei servizi segreti militari e per 24 giorni consigliere per la sicurezza nazionale di Trump, si è dimesso a causa dei contatti avuti con Sergej Kisljak, ambasciatore russo negli Usa? Mille? Duemila? Sbagliato, e sbagliato due volte. Primo: Flynn si è dimesso per non aver avvisato il vice-presidente Mike Pence di quei contatti che, di per sé, non avevano nulla di illegale. D’altra parte, si può credere che un ex generale non sapesse che l’ambasciatore russo è la persona più spiata e intercettata degli Stati Uniti e che quindi i suoi incontri e le sue telefonate tutto sarebbero stati tranne che riservati o, peggio, clandestini?
Dicono che Flynn abbia parlato con l’ambasciatore delle sanzioni decise contro la Russia per la questione ucraina e di come eventualmente allentarle. Questione di facile risoluzione: la Cia tira fuori il nastro e Flynn, che avrebbe così violato il Logan Act (la legge Usa che vieta a persone non autorizzate di trattare questioni legate agli interessi nazionali) va in galera. Ma non succede, perché Flynn è in realtà sotto accusa, da parte del ministero della Difesa, per tutt’altra faccenda: un’altra norma vieta ai militari in servizio e agli ex militari di accettare “emolumenti” da Paesi stranieri se non esplicitamente autorizzati. E Flynn, prima di diventare consigliere di Trump, avrebbe accettato 530 mila dollari da un imprenditore turco e 45 mila dollari per parlare, a Mosca, a un galà cui interveniva anche Putin.
E questo è il caso più intricato. Perché gli altri sono grotteschi. Prendiamo quello di Jeff Sessions, il ministro della Giustizia. Sessions ha dovuto dimezzarsi, chiamandosi fuori da tutto ciò che riguarda il Russiagate, per aver risposto di non aver avuto contatti con esponenti del Governo russo per parlare della campagna elettorale di Trump. È poi saltato fuori che lui aveva incontrato il solito ambasciatore Kisljak due volte: una dopo una serata mondana a cui partecipavano molti altro diplomatici stranieri, e una nel suo ufficio, per parlare di terrorismo. Nel 2016 Sessions aveva incontrato 16 ambasciatori, alcuni più di una volta. Mettiamo che Sessions abbia fatto un po’ il furbo con quei due incontri che, peraltro, non potevano essere nascosti. Sono bastati, però, a renderlo sospetto e a costringerlo ad autoescludersi dal Russiagate. Il ministro della Giustizia non può occuparsi dell’indagine più importante del momento.
Questa storia del Russiagate è una bufala senza prove, che si nutre delle gaffe e del dilettantismo di Trump e dei suoi e, al contrario, dell’astuzia e della conoscenza dei meccanismi istituzionali maturate da Barack Obama in anni di Senato e in due mandati presidenziali
E di James Comey, l’ex direttore dell’Fbi, sbrigativamente trasformato in superpoliziotto, che vogliamo dire? Nella realtà, Comey è un pasticcione. Chiuse troppo in fretta (5 luglio 2016) l’indagine sulle mail che Hillary Clinton, da segretario di Stato, aveva spostato sui server della Clinton Foundation da dove erano poi opportunamente spariti. Riaprì quella stessa indagine (28 ottobre 2016) due settimane prima del voto presidenziale, danneggiando la Clinton che infatti ha poi sempre detto: “Se si fosse votato il 27 ottobre sarei presidente”. Testimonia davanti alla Commissione Giustizia del Senato (8 maggio 2017) e dice che Huma Abedin, assistente personale della Clinton, ha girato “centinaia di migliaia di mail” riservate sul computer del marito Anthony Weiner, poi finito nei guai per una storia di pedofilia. Ma il giorno dopo si corregge e dice che in realtà si trattava di poche mail. Un casinaro, questo Comey, una variabile impazzita. Che ora, però, grida dai tetti che Trump voleva bloccare l’indagine sul Russiagate. Scommettiamo che non c’è alcun appunto o registrazione di quella richiesta?
Insomma: questa storia del Russiagate è una bufala senza prove, che si nutre delle gaffe e del dilettantismo di Trump e dei suoi e, al contrario, dell’astuzia e della conoscenza dei meccanismi istituzionali maturate da Barack Obama in anni di Senato e in due mandati presidenziali.
E il Russiagate, a sua volta, è il coperchio messo a una guerra che il Partito democratico sconfitto e la parte sconfitta del Partito repubblicano (i neocon che avevano puntato sui cavalli bolsi Ted Cruz e Jeb Bush) hanno deciso di muovere allo sgradito intruso Donald Trump, anche a costo di creare negli Usa una situazione eversiva e di spingere le istituzioni americane verso uno stallo pericoloso. Questi amanti della limpidezza e della democrazia, insomma, ci stanno facendo diventare davvero trumpiani. Che non si sa che cosa voglia dire e non serve a nulla ma almeno è divertente.
di Fulvio Scaglione
Fonte: linkiesta