Azzardo ipotesi a caldo riguardo l’attentato di Manchester, dove -nel momento in cui sto scrivendo – hanno perso la vita 22 persone, mentre altre 59 sono rimaste ferite. Si parla di un kamikaze, come a Parigi nel 2015 ma un qualcuno che, se fosse confermata l’ipotesi, ha atteso il momento del deflusso dall’arena a fine concerto per farsi esplodere, in un’area esterna vicino alla biglietteria, quindi per ottenere il massimo effetto, senza correre il rischio di dover eludere i controlli di sicurezza per poter entrare nella struttura. Insomma, morti per la deflagrazione più effetto calca della gente che scappa. Allo Stade de France, come dissero gli inquirenti, di fatto i kamikaze si suicidarono, facendosi esplodere all’esterno della struttura ma quando la partita era in corso: uno, addirittura, andò a farsi brillare in un vialetto senza uscita.
Restano due cose strane: il fatto che sia circolata in tempi brevissimi la notizia che fosse stato identificato l’attentatore (se fosse stato davvero un kamikaze, ci sarebbe voluto più tempo e una gran fortuna), smentita solo in parte poco fa dal capo della polizia di Manchester, Ian Hopkins, (il quale ha detto che non poteva confermare né se l’identità fosse stata scoperta, né se si trattasse di un cittadino britannico) e quello che a parlare per primi di attentatore suicida siano stati funzionari USA, come riportato da SkyNews britannica. Come mai questa certezza dall’altra parte dell’Oceano?
Secondo, chiunque abbia colpito, voleva spaventare in maniera seria uno dei Paesi più sensibili: qui non siamo di fronte al lupo solitario del Westminster Bridge, che ruba una macchina e si getta sulla folla ma a un qualcuno che, scientemente, va a sacrificarsi, cercando di portare con sé più vittime possibili. E vittime molto giovani, dei teenagers: quei palloncini rosa che si vedono nei video amatoriali che già circolano in Rete sono destinati a restare nell’immaginario collettivo per molto tempo, anche in un Paese pragmatico e abituato alle bombe (basti pensare alle campagne dell’IRA) come la Gran Bretagna. Terzo, come al solito, fra i primi a caricare video dell’accaduto e diffondere foto e notizie ci ha pensato “Site” di Rita Katz ma questo, oramai, è prassi: ad ogni scoppio, come cani di Pavlov, andiamo lì per cercare chiarezza e verità. Senza farci la domanda più importante: come mai ha sempre tutto in tempo reale? Ricordo, sommessamente, che “Site” prese una solenne cantonata nell’attentato degli Champs Elysées, citando con responsabile “il belga”, il quale la mattina dopo era dalla polizia a proclamare la sua innocenza, visto che non aveva lasciato il Paese.
Quarto, qualcuno ha richiamato per questo attacco la dinamica degli attacchi del FIS, il Fronte islamico di salvezza algerino degli anni Novanta a Parigi e nel resto della Francia, questo perché si parlerebbe di chiodi all’interno dell’ordigno per procurare maggior danno possibile nella deflagrazione. Al momento, non si hanno conferme di questo. Qualcun’altro ha mosso un parallelo con l’attentato alla discoteca “La Belle” di Berlino del 1986, quello attribuito ad attentatori libici che spianò la strada a Ronald Reagan per l’attacco contro Tripoli e Bengasi. In quel caso, il bersaglio era quasi “militare”, visto che quel locale era frequentato da moltissimi appartenenti alle forze armate statunitensi, 50 dei quali rimasero feriti. Solo dopo la riunificazione della Germania, gli archivi della Stasi confermarono attività sospetta dell’ambasciata libica a Berlino e gli inquirenti che lavorarono all’inchiesta fecero notare come Gheddafi, nel periodo precedente all’attacco, avesse inneggiato ad attacchi arabi contro gli interessi USA nel mondo, dopo uno scontro navale nel Golfo della Sirte. Il 17 agosto del 2003, poi, l’ammissione, quando la Libia comunicò al governo tedesco la volontà di indennizzare i feriti e i parenti delle vittime. Anche in questo caso ci sarebbe un governo straniero dietro l’attacco o l’onnipresente Isis, capro espiatorio di ogni botto?
Certo, se saltassero fuori legami con l’Iran, ci troveremmo di fronte al casus belli perfetto ma, essendo i militari britannici schierati pressoché ovunque nel mondo al fianco degli USA (Siria, Iraq, Afghanistan), l’elenco dei potenziali “mandanti” si allunga non poco. E facilita il lavoro, se dovesse trattarsi di un false flag. Restano i dati del contesto politico internazionale in cui è maturato questo attentato, inoppugnabili. Nel fine settimana Donald Trump ha dato vita al patto anti-terrorismo con la cosiddetta “NATO araba”, ovvero Paesi del Golfo ma anche l’Egitto di Al-Sisi, per combattere l’Isis, definito dai sauditi “una deviazione” dell’Islam ma, soprattutto, per contenere l’influenza iraniana nell’area. Iran che, dal canto suo, non ci ha messo molto, attraverso il suo ministro degli Esteri, a ricordare a Trump come stesse vendendo armi alla principale centrale di organizzazione e finanziamento del terrorismo nel mondo. Dopo Ryad, con il primo volo diretto nella storia, il presidente USA è volato a Tel Aviv, dove appena giunto ha rinnovato le accuse contro Teheran rispetto alle attività di supporto al terrorismo internazionale, di fatto scomodando indirettamente Hezbollah. Parlando in Arabia, il capo della diplomazia USA, Rex Tillerson, aveva detto che l’Iran doveva uscire da Siria e Libano, facendo quindi riferimento proprio alle milizie sciite, nemico giurato di Israele.
Di più, Donald Trump è stato il primo presidente USA a recarsi al Muro del pianto, con tanto di kippah in bella vista: un gesto simbolico molto forte, soprattutto alla luce delle accuse mosse dalla stampa USA verso il genero, Jared Kushner, ebreo ortodosso, di essere l’agente infiltrato del Cremlino alla Casa Bianca. Di più, in perfetta contemporanea con le immagini di Manchester che rimbalzavano sulle tv di tutto il mondo, Donald Trump incontrava Abu Mazen e la mente andava alle parole pronunciate ieri dal presidente USA, il quale ha ribadito come Hamas vada considerata un’organizzazione terroristica a tutti gli effetti. Insomma, la strada per la nuova pax mediorientale, senza Iran e con il conflitto israelo-palestinese pacificato, passa dal sangue innocente di Manchester? Difficile escluderlo. Ma non basta. Dopo l’attentato, il primo ministro Theresa May ha immediatamente sospeso la campagna elettorale nel Regno Unito in vista delle elezioni politiche del prossimo 8 giugno, con l’approvazione del leader laburista Jeremy Corbyn. Insomma, dibattito politico congelato e terrorismo come unica urgenza del Paese, lo richiedono emotivamente quei volti di teenagers terrorizzati che chiedono di essere protetti. E l’effetto psicosi è già partito, visto che poco fa è stata evacuata la stazione dei pullman di Victoria a Londra per un pacco sospetto: da oggi, la priorità sarà una sola. Prima del referendum sul Brexit, fu Jo Cox a diventare – il giorno prima del voto – l’agnello sacrificale che doveva riunire un Paese diviso in due e che si guardava in cagnesco: questa volta, invece, si è reclamato il bottino emotivo grande, stroncando due settimane di acceso dibattito interno.
Stranamente, poi, nel weekend la stessa May aveva rivolto un duro attacco contro l’UE riguardo le compensazioni economiche che Bruxelles richiederebbe per il Brexit, dicendo chiaramente che se la cifra sarà quella che circola – 100 miliardi di euro -, il Regno Unito abbandonerà i negoziati. Parole che hanno avuto enorme eco in Gran Bretagna. Parole che, alla luce di quanto accaduto, rientreranno probabilmente nella categoria di quelle “dal sen sfuggite”, con buona pace di tutti. Insomma, un timing perfetto anche questa volta: il mondo intero ha appena visto l’Arabia Saudita ergersi a baluardo anti-terrorismo al fianco di Donald Trump e subito la cronaca ci offre un esempio eclatante di quanto spietati i terroristi possano essere, colpendo adolescenti che escono entusiasti dal concerto del loro idolo, in un lunedì sera anonimo e senza “Monday night” di calcio a Manchester.
Il premier israeliano, poi, parlando accanto al presidente USA, ha sottolineato come Israele da sessanta anni contrasti quotidianamente la minaccia dell’estremismo. Di più, Benyamin Netanyahu, che ha ringraziato Trump “per il cambio della politica Usa verso Teheran”, ha aggiunto: “Per la prima volta nella mia vita, vedo una reale speranza per il cambiamento del mondo arabo verso Israele… Spero che anche un giorno il premier di Israele possa volare da Tel Aviv a Riad con un volo diretto”. Insomma, gli stronzi che confezionano bombe con dentro i chiodi, cercateli altrove, noi siamo i buoni. Magari tra gli sciiti. O tra qualche sunnita divenuto ormai troppo imbarazzante e, quindi, sacrificabile prima che la caduta di Mosul porti a galla verità inconfessabili. D’altronde, se era un kamikaze – e nessuno ancora lo sa – di lui è rimasto poco, gli si può attribuire qualsiasi identità e nazionalità.
E, cosa più importante, è morto. E i morti non possono parlare. Vero kamikaze? Kamikaze “forzato” come a San Pietroburgo, dove la bomba fu azionata a distanza? Oppure nessun kamikaze ma un ordigno abbandonato all’uscita del concerto, da chiunque, magari in una borsa di cui nessuno si è accorto, vista la confusione? Non a caso, l’ultima ipotesi parla di due bombe sincronizzate, una delle quali non sarebbe esplosa, piene di chiodi e pezzi di vetro. Insomma, straziare, non solo uccidere. E in favore di telecamera e smartphone. Altrimenti, attendete qualche ora e cercate su “Site”: lì la verità su questo tipo di eventi è sempre di casa. Nel vero e più pieno senso del termine.
Mauro Bottarelli
Fonte: www.rischiocalcolato.it