di Wouter J. Hanegraaff
Fino a non molto tempo fa avevo la sensazione, da accademico e intellettuale, di dare il mio piccolo contributo a una grande storia che poteva essere descritta (nel bene o nel male, poco importa) come la storia della “Cultura Occidentale”, e non avevo motivo di credere che questa storia potesse interrompersi. La mia identità e i miei valori guida sono stati forgiati dalla storia culturale, intellettuale e spirituale dell’Europa. Quello è sempre stato il mio mondo. Ma ora questo mondo cambia. Nei momenti bui avverto la cupa sensazione che molto presto – e molto prima di quanto pensavo potesse accadere solo pochi anni fa – entreremo in un’era nella quale – per parafrasare la voce narrante di Galadriel nella scena iniziale del film Il signore degli anelli – buona parte di quanto oggi riteniamo abbia valore sarà perduta per sempre, perché “non sarà in vita nessuno che potrà averne memoria”.
Quali sono i cambiamenti fondamentali che stanno avendo impatto su di noi e che possono spiegare il mio senso di declino, la mia sensazione di trovarmi alla vigilia di una perdita irreparabile? Dagli anni Ottanta reaganiani e thatcheriani le nostre menti – progressivamente, ma fatalmente – sono state catturate dall’idea che ogni cosa che si dà al mondo può essere descritta in termini di “mercato”, e che i soli valori che contano sono valori esprimibili in termini economici. Ne è derivato un sistematico rovesciamento della normale relazione che si instaura fra mezzi e fini. Un tempo si dava la convinzione che il denaro fosse un mezzo per raggiungere i fini desiderati: ovviamente ci vuole denaro per creare buoni sistemi sanitari, ci vuole denaro per creare buone istituzioni nel campo dell’istruzione, e così via. Il denaro identificava un mezzo funzionale al perseguimento di obiettivi suscettibili di essere valutati nella loro autonoma consistenza. Quella logica è stata rovesciata. La sanità e l’istruzione (per restare agli esempi appena fatti) sono oggi definiti quali prodotti inseriti in un mercato. Come tali, non identificano più fini desiderabili da perseguire perché intrinsecamente dotati di valore, per quello che sono e significano. Sono diventati mezzi per perseguire un nuovo e differente scopo: la massimizzazione del profitto. La logica interna di questo sistema tende a dirci che, in realtà, noi non dobbiamo preoccuparci troppo della circostanza che la gente goda veramente di una buona salute o acquisisca una buona istruzione. Ciò che conta è se la gente compra sanità e istruzione, con costi decrescenti e profitti crescenti. In breve, la salute e la conoscenza non sono più valori fondamentali. L’unico valore che conta è il valore monetario o economico. L’istituzione si è trasformata in una fabbrica, concepita per produrre un prodotto che renda possibile il profitto. La qualità è divenuta irrilevante per come funziona il sistema. Il quale riconosce solo dati quantificabili, che si prestano all’analisi statistica e che possono essere tradotti in termini economici e finanziari. Ne segue che le università non sono più votate all’istruzione “superiore”. Esse sono calate in un sistema operativo che sovverte i fini (gli scopi, gli obiettivi) che un tempo si riteneva esse dovessero perseguire. Temo che un cambiamento di rotta reale e durevole risulterà impossibile finché il capitalismo neoliberista sarà chiamato a fungere da sistema operativo dell’istruzione superiore in Europa. Effettuare l’aggiornamento di quel sistema non basta. Anzi, perfezionare ulteriormente le sue funzionalità peggiorerebbe le cose. Abbiamo bisogno di un nuovo sistema operativo, fondato su un principio che agli occhi dei seguaci dell’attuale sistema rappresenta un vero anatema: la qualità nell’istruzione e nella ricerca non può essere quantificata e tradotta in termini economici, ma è un irriducibile valore fondante, interamente autonomo, e non misurabile con la logica del calcolo economico.
Il secondo cambiamento cruciale che è dato osservare nel contesto che viviamo, è l’eccesso di informazione, con i suoi effetti perniciosi. La rivoluzione dell’informazione ha preso piede ed è deflagrata con sempre maggior vigore a partire dai primi anni Novanta, in perfetta sincronia con l’ascesa del capitalismo neoliberista. Abbiamo una quantità illimitata di informazioni a portata di dita, ma non siamo più in grado di discernere il vero dal falso. E questo è vero anche in campi molto specializzati della conoscenza. C’è stato un tempo in cui potevo mettere assieme una disamina ragionevolmente accurata e completa della letteratura scientifica su un dato argomento. Oggi sono travolto, anche in aree che conosco molto bene, da un quotidiano tsunami di pubblicazioni online (le quali, quasi inevitabilmente, sono preferite alle tradizionali pubblicazioni cartacee per il semplice motivo che è già troppo difficile gestire l’informazione disponibile online). Nessuno ce la fa a stare dietro a questo processo, e la situazione è resa più grave dalla circostanza che i tradizionali criteri di selezione non hanno più nulla a che fare con la reale qualità della pubblicazione. Questo processo può in gran parte spiegarsi con le due dinamiche di cui si sta discutendo qui. L’impatto del capitalismo neoliberale sulle pubblicazioni accademiche ha significato che vendere un prodotto della ricerca è diventato molto più importante della reale qualità del prodotto. E inoltre che gli autori devono produrre ciò che il mercato sembra chiedere loro: se il tuo lavoro è troppo audace, originale, creativo, troppo fuori dal seminato, questo potrebbe diminuire le possibilità di veder accettato il lavoro nella rivista. Tutto ciò fa sì che gli studiosi non lavorino più come una volta. I più bravi fra noi avevano l’abitudine di studiare un certo tema a fondo e in modo sistematico, nel tentativo di andare al fondo delle cose, perché ancora ritenevano che esistesse un “fondo” da raggiungere. Ma quell’illusione è svanita e ci ritroviamo, invece, a collazionare dati, o a selezionarli in modo più o meno casuale. Troppo spesso avvertiamo la sensazione di non aver tempo per svolgere uno studio profondo e concentrato su una particolare fonte o su un lavoro specifico di un nostro collega. Perché, se no, che ne sarebbe di tutte quelle altre infinite fonti? Che ne sarebbe di tutti quegli altri studiosi i cui lavori si affastellano sulla scrivania o nel nostro computer in attesa di essere letti? Siamo sicuri di star leggendo l’articolo giusto in questo momento? Forse dovremmo leggere uno di quegli altri innumerevoli articoli che ci aspettano… Ma come scegliere? Come possiamo sapere quale fra loro merita la nostra attenzione e quale rappresenta solo una perdita di tempo, se non abbiamo preventivamente filtrato in qualche modo queste informazioni? E così continuiamo i nostri carotaggi, frettolosi e superficiali; oppure ci rassegniamo all’inevitabile e cominciamo a selezionare più o meno a caso. Negli ultimi decenni le riforme dell’istruzione sono state dominate dall’idea che gli studenti devono imparare le abilità e non devono acquisire conoscenza: ciò che sai non è così importante se è vero che puoi rintracciare l’informazione di cui hai bisogno nel momento in cui ti serve. Questa filosofia educativa si fonda su un errore fondamentale. Abbiamo trascurato il fatto che in assenza di conoscenza, l’informazione diventa priva di significato e la selezione dei dati (la scelta informata) diventa impossibile. Avendo messo il carro innanzi ai buoi, siamo indifesi di fronte ai nefasti effetti dell’eccesso informazionale. Nell’arco dell’ultimo decennio, grossomodo, sono stato testimone di come i miei studenti rimanessero sempre più straniti tutte le volte che facevo riferimento a cose come la “Tarda Antichità”, i “Medioevi”, il “Rinascimento”, la “Rivoluzione Scientifica”, l’”Illuminismo”, il “Romanticismo” e così via. La più parte di loro ha solo una vaga idea di quando queste periodizzazioni storiche presero luogo, di cosa significarono, dei fattori che li determinarono, e del perché loro dovrebbero interessarsene. In breve, stiamo rapidamente perdendo la nostra capacità di orientarci nei corridoi temporali della storia. Ma, se non sappiamo più da dove veniamo, questo significa che non sappiamo dove ci troviamo, e di conseguenza finiremo per perdere la cognizione di chi siamo. Questo perché gli esseri umani sono programmati per definire la loro identità attraverso la memoria: un’amnesia individuale significa non sapere chi si è, e perché si è, e l’amnesia storica produce il medesimo effetto sulla società in generale. Diventiamo senza senso, disorientati e privi di direzioni. Da dove prenderemo i nostri valori in una condizione di amnesia storica? Questo non è un problema risolvibile “cercando i dati giusti, ottenendo le corrette informazioni”. A parte alcuni valori molto immediati ed elementari che trovano fondamento nella biologia animale noi assumiamo i nostri valori non dall’informazione, ma dalla cultura e dalla memoria: i valori sono letteralmente coltivati da una generazione all’altra, sulla base di quanto è oggetto di ricordo. Eravamo soliti tramandarci i valori derivati dalla cultura europea, specialmente quelli dell’antichità classica, delle religioni ebraiche e cristiane, dalla razionalità illuministica, e dalla scienza moderna; ma, in luogo di tradizioni viventi, questi elementi sono divenuti mere opzioni sottoposte alla scelta di un consumatore, che si offrono a noi nella forma di una sconcertante massa di dati disparati, privi di criteri o direttive utili a sceglierli e a valutarli. Il nostro paradigma regnante (il capitalismo neoliberale), combinato con l’informazione rampante e l’amnesia storica, ci lascia totalmente ciechi sul da farsi. Siamo profondamenti insicuri sui nostri valori perché né il mercato né i dati ce li possono chiarificare. Questo ci rende incredibilmente vulnerabili di fronte a culture o ideologie che sanno benissimo perché siamo qui e che direzione dovremmo intraprendere.
E allora dov’è la luce in fondo al tunnel? Non ho la presunzione di avere una risposta, e di sicuro non posso guardare nella sfera di cristallo. Sto solo cercando di acquisire una prospettiva che ci consenta di vederla questa luce. Una cosa mi sembra chiara: di sicuro l’unica strada da percorrere è quella di spiegare le nostre vele verso ciò che oggi ci manca. Per scoprire questo qualcosa che ci manca, potremmo chiederci cosa tiene uniti i due fattori chiave del capitalismo neoliberale e dell’eccesso nefasto d’informazione. A me sembra che la risposta sia molto semplice: l’assenza di qualità. Il capitalismo neoliberale è incapace di gestire la qualità e la converte in quantità; e sostituire il perseguimento della conoscenza con l’eccesso d’informazione impone di sacrificare la qualità a vantaggio dell’accumulazione dei dati. Ciò che dobbiamo fare è rispondere alla domanda che Robert Pirsig si pose nel suo classico Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta (1974): cos’è la qualità? Non fatevi fuorviare dalle apparenze o dalle prime impressioni: non si tratta di una questione astratta o filosofica, di cui discettare sorseggiando un buon bicchiere di vino a sera. È una ricerca esistenziale, inseparabile dalla ricerca dei veri valori. Se presa davvero sul serio, e se meditata a un livello profondo (e non ho la pretesa di riuscire a farcela in entrambi i casi, perché è davvero molto difficile farlo) essa metterà in gioco l’intero senso della nostra esistenza e determinerà tutto ciò che facciamo. Possiamo porci questo problema esplicitamente o solo implicitamente, forse impiegando termini differenti, o possiamo cercare di analizzarlo attraverso le nostre azioni invece che impiegando parole. Ma sarà sempre la ricerca della qualità.
(traduzione di Umberto Izzo)
Fonte: Appelloalpopolo