di Marco Tarchi
Fonte: Diorama letterario
Si intitola “La guerra delle ombre” l’ultimo editoriale di Diorama Letterario, rivista diretta da Marco Tarchi, accademico dell’Università di Firenze: è una riflessione profonda sui rischi generati dalle tendenze liberticide che permeano lavori parlamentari e dalle strumentali visioni storico-politiche dei media mainstream
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L’ultimo episodio è stato certamente il più grottesco – lo scandalo di portata nazionale nato dalle trovate tra il goliardico e lo psicopatologico del bagnino nostalgico di una spiaggia di Chioggia, desideroso di esternare le sue opinioni sull’Italia in camicia nera con espedienti degni del Catenacci di “Alto gradimento”, trasmissione radiofonica cult dell’Italia anni Settanta – e lo si potrebbe a buon diritto giudicare, in sé, indegno di ispirare qualunque commento che varchi i confini della piccola cronaca del periodo balneare. Eppure, anche un episodio di così minuscola portata può, e deve, servire ad aprire una riflessione su un fenomeno ben più rilevante ed inquietante che è sotto i nostri occhi da molti anni, e non accenna a ridimensionarsi: quella vera e propria guerra delle ombre che si è insinuata nell’odierno scenario politico e metapolitico, quel revival di fantasmi di epoche trapassate che da più parti ci si sforza di riportare sulla scena per oscurare o sostituire i veri conflitti di fondo che attraversano la nostra epoca. Quel teatro degli spettri i cui protagonisti sono il fascismo e l’antifascismo.
Non è la prima volta che la questione si impone all’attenzione. Già una quindicina abbondante di anni fa qualche osservatore più attento della media si chiese come mai riaffiorassero alla superficie del dibattito pubblico, con un carico di veleni sorprendentemente elevato, tematiche che, affrontate a caldo cinquant’anni prima, non avevano mai suscitato altrettanti furori – se non nella ristretta platea di coloro che, dall’esserne coinvolti direttamente, avevano subito gravi torti – e si erano in breve tempo acquietate. Ci riferiamo alle vicende dalla guerra civile italiana del periodo 1943-1945, alle “colpe” della Rsi e alla conseguente “indegnità” dei suoi combattenti e sostenitori, nonché alla complicità del governo di Salò nella persecuzione degli ebrei, e, sul versante simmetrico, al furore repressivo delle vendette antifasciste (il “sangue dei vinti” evocato da Giampaolo Pansa in un libro destinato a uno straordinario e imprevedibile successo di vendite) e ai regolamenti di conti contro “fascisti e padroni” nel triangolo rosso emiliano. Non si trattava di vicende sconosciute, ma di fatti tragici su cui esistevano numerose inchieste giornalistiche e giudiziarie, atti di processi, volumi di memorie, dibattiti arroventati tra i sostenitori delle opposte parti che erano comunque passati in giudicato negli anni Cinquanta – e che erano tornati alla ribalta solo per un breve periodo quando il famoso caso Tambroni, con il determinante sostegno del Msi all’esecutivo e lo sconsiderato tentativo dello stesso partito di tenere il proprio congresso nazionale in una “città medaglia d’oro della Resistenza” avevano provocato i tumulti di Genova e i morti di Reggio Emilia. Perché quelle pagine venivano riaperte dopo mezzo secolo, e con toni immediatamente aspri?
Si poteva, allora, collegare quella resurrezione all’inaspettata fuoriuscita missina dal ghetto in cui lo aveva costretto la formula dell’arco costituzionale a seguito di Tangentopoli e, soprattutto, della decisione di Berlusconi di includere Fini e i suoi nella propria coalizione, trascinandoli al governo. Non potendo gli ex comunisti spingere più di tanto sul pedale dell’antifascismo, per non subirne, nell’immediato indomani del crollo dell’impero sovietico, l’effetto boomerang – ed anzi, non volendo farlo, essendo funzionale al loro accreditamento in prospettiva governativa il superamento delle opposte memorie –, si era aperta una finestra di opportunità per gli intellettuali di matrice azionista, i custodi dell’antifascismo più genuino e umorale per prenderne il posto e schierarsi all’avanguardia. Così come si erano create le condizioni, sul fronte avversario, per rispondere al tiro (pur con un arsenale assai più sguarnito) rispolverando le accuse a vecchi nemici che, all’epoca, non si erano risparmiati in ferocia, come i libri di Pansa, non certo un nostalgico, dimostravano ampiamente.
Il gioco aveva così innestato sottotraccia, nella “seconda repubblica”, quella retrodatazione dello scenario di scontro che tuttavia, stante l’ascesa di ex comunisti ed ex (neo)fascisti ad alcuni dei più alti scranni istituzionali, si era manifestata solo episodicamente in primo piano, e coinvolgendo per di più quasi solo ambienti marginali. Anche se – dato da non sottovalutare – l’immaginario della lotta antifascista, sia pur orientata contro un fantasma, molto più accattivante dell’opposizione ad un magnate della tv e delle costruzioni affetto da tardive ossessioni sessuali, si era diffuso e radicato nella galassia dei centri sociali, centri di raccolta di rabbie, frustrazioni e vocazioni alla violenza sempre pronti ad accendersi e a fornire squadre d’azione a gruppi in stile black bloc. Questo per parlare dell’Italia, perché all’estero l’antifascismo era rimasto all’interno del perimetro cerimoniale e giuridico definito dall’esito della seconda guerra mondiale, poiché il suo contraltare era ridotto quasi a presenza virtuale, sopravvivendo esclusivamente in gruppuscoli magari a tratti feroci nelle manifestazioni, come gli skinheads, o patetici nelle manifestazioni coreografiche, come le lillipuziane fazioni in divisa di ascendenza neonazista, ma politicamente del tutto ininfluenti.
Le cose sono di nuovo cambiate, però, quando su diversi scenari europei hanno fatto ritorno, in vesti meno dimesse e abborracciate del passato, movimenti che si è convenuto – non senza valide ragioni – di chiamare populisti. Liquidate come bizzarrie le prime manifestazioni del fenomeno in Danimarca e in Norvegia, paesi considerati troppo benestanti, pacifisti e socialdemocratici per dar corpo a incubi, il campanello d’allarme è scattato con le prime esplosioni elettorali di metà anni Ottanta: il Front national nelle europee del 1984, sopra l’11%, la Fpö in Austria. Con l’ingresso di Jean-Marie Le Pen e Jörg Haider nel serraglio dei nuovi “uomini neri”, le presunte reincarnazioni di Hitler e Mussolini, si è aperto il capitolo di cui gli anni recenti ci stanno mostrando le pagine più sconcertanti.
In una prima fase, la trasformazione del conflitto tra populisti e sostenitori del quadro politico vigente (l’establishment) in revival degli “oscuri” anni Trenta ha visto in campo soltanto i secondi, dalle cui fila sono partiti gli strali e gli slogans miranti ad equiparare gli scomodi concorrenti alle formazioni fasciste dei tempi che furono. L’appetibile bersaglio ha offerto alle disperse schegge di un’ultrasinistra rapidamente disillusa dalla speranza di far breccia attraverso l’agitazione di piazza no global la possibilità di ritrovare un nemico identificante e costituire un fronte internazionalista, gli antifa, sfogandogli contro la mai sopita voglia di menar le mani e ribadire che Carl Schmitt, nel suo legare inscindibilmente la politica alla coppia amico/nemico, ha avuto piena ragione. Ma, molto più ampiamente, ha consentito a chi ne prosperava di ribadire la centralità dell’asse sinistra-destra, sovraccaricandolo di contenuti emotivi con l’evocazione di una minacciosa estrema destra, depotenziando l’intenzione populista di sostituirlo con l’asse alto/basso, cioè popolo contro classi dirigenti oligarchiche, considerato molto più aderente alla realtà dei fatti.
Non si può dire che questa mossa strategica abbia avuto pieno successo, perché parti cospicue degli elettorati di varie nazioni non sono cadute nella trappola e hanno orientato il proprio consenso verso i guastafeste populisti e i loro programmi rivendicativi. Tuttavia, su altri settori del potenziale ambito di sostegno delle formazioni populiste l’agitazione dello spauracchio di un nuovo fascismo ha avuto qualche presa, soprattutto là dove qualcuno dei partiti tradizionali non ha esitato ad impossessarsi di temi di campagna e proposte di soluzione branditi dagli avversari, annacquandoli e riproducendoli in versioni edulcorate, più digeribili per queste frange timorose della popolazione. La reazione di una quota non trascurabile degli elettori che nei sondaggi si dicevano intenzionati a votare Wilders o Le Pen al battagepolitico-mediatico che ha presentato la Brexit e il successo di Trump come pericolosissime aperture ad un’apoteosi dell’estremismo di destra sta a dimostrarlo.
Malgrado la costante e talvolta esasperata strategia di dé-diabolisation condotta ormai da oltre sei anni, Marine Le Pen ha visto scattare di nuovo, pur se in proporzioni decisamente ridotte, il meccanismo del richiamo antifascista che aveva travolto il padre nel secondo turno dell’elezione presidenziale del 2002. Tutti gli altri candidati, ad eccezione del sovranista Dupont-Aignan, le si sono schierati contro evocando la necessità di battere, ad ogni costo, l’“estrema destra”. E il grosso delle truppe li ha seguiti. C’è da prevedere che in Austria e in Germania l’espediente produrrà nel prossimo futuro frutti analoghi.
Il momentaneo arresto del ciclo ascendente dei movimenti populisti, però, non ha prodotto solo la compiaciuta constatazione del blocco di potere oggi egemone che le scelte fatte hanno pagato. Ha simmetricamente evocato delusioni e frustrazioni nelle frange più radicali della loro base di sostegno, già probabilmente a disagio di fronte allo stile dichiaratamente non violento (se non, a volte, sul piano verbale) di tali movimenti, rendendo probabili scissioni e creazioni di nuovi gruppuscoli estremisti. Già si vedono centinaia di attivisti prendere le distanze dall’“imborghesito” Jobbik, si leggono propositi oltre le righe negli scambi social fra delusi della piega presa dal Front national, si colgono qua e là altri segni di sconforto e compaiono su giornali e siti video e fotografie che ritraggono decine di ragazzi e ragazze in divise e pose paramilitari, inquadrati e schierati, intenti ad esibire in rituali di altra epoca la loro voglia di contestazione del clima culturale e sociale del mondo in cui vivono.
Il danno che queste manifestazioni di infantilismo possono recare, non solo e non tanto ai partiti e movimenti populisti quanto alla già ardua causa del contrasto dell’odierno “spirito del tempo” sul piano metapolitico della penetrazione delle idee nella mentalità collettiva, è potenzialmente enorme. Già in passato, in varie occasioni, la riattivazione strumentale del binomio conflittuale fascismo/antifascismo ha servito gli interessi dei fruitori dello status quo. Ha attizzato guerre per procura, suscitato odi, fatto versare sangue a profitto degli spettatori interessati degli scontri. E ha tenuto in vita la residua capacità di attrazione di quegli ambigui contenitori, svuotati ormai di contenuti in sintonia con le dinamiche del tempo presente, che sono le varie “destre” e la varie “sinistre”. Chi si presta a questo torbido gioco, foss’anche con le intenzioni più pure, e, cedendo al ricatto delle memorie, si presta alla penosa riproposizione sotto forma di farsa di eventi e soggetti che hanno già fatto la loro parte nella storia in un’epoca di tragedie, è un inconsapevole ma oggettivo complice degli odierni padroni delle coscienze. Gli unici ai quali la guerra tra spettri del passato che si va profilando può apportare sostanziosi utili.