CHIESA/RELIGIONE CONCILIARE
I titoli ecclesiastici usati nell’articolo vanno riferiti alla “chiesa conciliare” non a quella Cattolica (N.d.R.)
Pubblicato sul sito dell’Autore
Coppo di Marcovaldo, Inferno, Battistero, Firenze
Osservando subito dopo:
C’è seriamente da dubitare che papa Francesco voglia davvero liquidare i “novissimi” nei termini descritti da Scalfari.
C’è però nella sua predicazione qualcosa che inclina a un effettivo offuscamento del giudizio finale e degli opposti destini di beati e dannati.
Mercoledì 11 ottobre, nell’udienza generale in piazza San Pietro, Francesco ha detto che non c’è da temere tale giudizio, perché “al termine della nostra storia c’è Gesù misericordioso”, e quindi “tutto verrà salvato. Tutto.”.
Quest’ultima parola, “tutto”, nel testo distribuito ai giornalisti accreditati presso la sala stampa vaticana era evidenziata in grassetto.
Anche in un’altra udienza generale di pochi mesi fa, quella di mercoledì 23 agosto, Francesco ha dato della fine della storia un’immagine tutta e solo consolante: quella di “una immensa tenda dove Dio accoglierà tutti gli uomini per abitare definitivamente con loro”.
Immagine non sua, ripresa dal capitolo 21 dell’Apocalisse, ma di cui Francesco s’è guardato dal citare le successive parole di Gesù:
E ancora. nel commentare, all’Angelus di domenica 15 ottobre, la parabola del convito nuziale (Matteo 22, 1-14) letta quel giorno in tutte le messe, Francesco ha evitato con cura di citarne i passaggi più inquietanti.
Sia quello in cui “il re si indignò, mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città”.
Sia quello in cui, visto “un uomo che non indossava l’abito nuziale”, il re ordinò ai suoi servi: “Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”.
La domenica precedente, 8 ottobre, un’altra parabola, quella dei vignaioli omicidi (Matteo 21, 33-43), aveva subito lo stesso trattamento selettivo.
All’Angelus, nel commentare la parabola, il papa ha omesso di dire che cosa il padrone della vigna fa a quei contadini che gli hanno ucciso i servi e da ultimo il figlio: “Quei malvagi li farà morire miseramente”. Né tanto meno ha citato le parole conclusive di Gesù, riferite a se stesso come “pietra angolare”: “Chi cadrà sopra questa pietra si sfracellerà; e colui sul quale essa cadrà, verrà stritolato”.
Piuttosto, papa Francesco ha insistito nel difendere Dio dall’accusa di essere vendicativo, quasi a voler mitigare gli eccessi di “giustizia” ravvisati nella parabola:
Nell’omelia della festa di Pentecoste, lo scorso 4 giugno, Francesco ha polemizzato, come spesso fa, con “chi giudica”. E nel citare le parole di Gesù risorto agli apostoli e implicitamente ai loro successori nella Chiesa (Giovanni 20, 22-23) le ha troncate volutamente a metà:
Tacendo il seguito:
Che il troncamento fosse deliberato è provato dalla sua reiterazione. Perché un taglio identico a queste parole di Gesù Francesco l’aveva fatto anche il 23 aprile precedente, al Regina Coeli della prima domenica dopo Pasqua.
Anche il 12 maggio scorso, in visita a Fatima, Francesco ha mostrato di voler esonerare Gesù dalla fama di giudice inflessibile, alla fine dei tempi. E per questo ha messo in guardia dalla seguente falsa immagine di Maria:
Va aggiunto che la libertà con cui papa Francesco taglia e cuce le parole della Sacra Scrittura non riguarda solo il giudizio universale. Assordante, ad esempio, è il silenzio in cui egli ha sempre avvolto la condanna fatta da Gesù dell’adulterio (Matteo 19, 2-11 e passi paralleli).
Con sorprendente coincidenza, questa condanna era contenuta nel brano del Vangelo che si leggeva in tutte le chiese del mondo proprio la domenica d’inizio della seconda sessione del sinodo dei vescovi sulla famiglia, il 4 ottobre 2015. Ma né nell’omelia, né all’Angelus di quel giorno papa Francesco vi fece il minimo cenno.
E neppure vi ha fatto cenno all’Angelus di domenica 12 febbraio 2017, quando quella condanna è stata di nuovo letta in tutte le chiese.
Non solo. Le parole di Gesù contro l’adulterio non compaiono neppure nelle duecento pagine dell’esortazione postsinodale “Amoris laetitia”.
Così come non vi compaiono nemmeno le terribili parole di condanna dell’omosessualità scritte dall’apostolo Paolo nel primo capitolo della Lettera ai Romani.
Primo capitolo anch’esso letto – altra coincidenza – nelle messe feriali della seconda settimana del sinodo del 2015 (come anche nelle messe di pochi giorni fa). A dire il vero senza che quelle parole figurassero nel messale, ma in ogni caso senza che il papa o altri mai le citassero, mentre in sinodo si discuteva di cambiare i paradigmi di giudizio sull’omosessualità:
Inoltre, qualche volta papa Francesco si prende anche la libertà di riscrivere a modo suo le parole della Sacra Scrittura.
Ad esempio, nell’omelia mattutina a Santa Marta del 4 settembre 2014 a un certo punto il papa attribuì testualmente a san Paolo queste parole “che scandalizzano”: “Io mi vanto soltanto dei miei peccati”. E concluse invitando anche i fedeli presenti a “vantarsi” dei propri peccati, in quanto perdonati dalla croce di Gesù.
Ma in nessuna delle lettere di Paolo si trova una simile espressione. Piuttosto l’apostolo dice di se stesso: “Se è necessario vantarsi, mi vanterò delle mie debolezze” (2 Corinti 11, 30), dopo aver elencato tutte le traversie della sua vita, le incarcerazioni, le fustigazioni, i naufragi.
Oppure: “Di me stesso non mi vanterò, se non delle mie debolezze” (2 Corinti, 12, 5). O ancora: “Egli mi ha detto: ‘ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza’. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo” (2 Corinti 12, 9), con di nuovo cenni agli oltraggi, alle persecuzioni, alle angosce sofferte.
Tornando al giudizio finale, anche papa Benedetto XVI riconosceva che “nell’epoca moderna il pensiero del giudizio finale sbiadisce”.
Ma nell’enciclica “Spe salvi”, tutta scritta di suo pugno, ha riaffermato con forza che il giudizio finale è “l’immagine definitiva della speranza”. È un’immagine che “chiama in causa la responsabilità”, perché “la grazia non esclude la giustizia”, anzi, “la questione della giustizia costituisce l’argomento essenziale, in ogni caso l’argomento più forte, in favore della fede nella vita eterna”, perché “solo con l’impossibilità che l’ingiustizia della storia sia l’ultima parola diviene pienamente convincente la necessità del ritorno di Cristo e della nuova vita”.
E ancora:
Sandro Magister, dopo essere stato spesso a stretto contatto dei papi postconciliari, sembra aver aperto un po’ di più gli occhi, ed ora racconta i fatti che parlano da soli !