Le 67 parole da cui nacque Israele

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di Davide Maria De Luca

Le 67 parole da cui nacque Israele

Segnalazione Arianna editrice

Fonte: Il Post

Sono quelle della dichiarazione Balfour, un documento nato fra intrighi e ambiguità che contribuì in maniera decisiva alla creazione dello stato ebraico.

Il 2 novembre del 1917 il ministro degli Esteri del Regno Unito, Arthur Balfour, inviò una lettera a Lord Walter Rothschild, uno dei principali leader della comunità ebraica nel paese, in cui sosteneva che il suo governo si sarebbe impegnato per creare uno stato ebraico in Palestina. Era un testo brevissimo, 67 parole in tutto, che però ebbe enormi conseguenze. Con gli anni è diventato uno dei testi diplomatici più controversi della storia. Fu elaborato con grandi cautele in un periodo di difficoltà militari, prodotto da fitte trattative portate avanti da agenzie rivali all’interno del governo, da volenterosi dilettanti e da faccendieri truffaldini. Il risultato, fra l’altro, era in contraddizione con altri impegni che il governo britannico aveva preso in quegli anni. Per i sostenitori di Balfour e del sionismo, la data della dichiarazione è da decenni un giorno da festeggiare. Per i suoi critici, un atto di cinismo politico che produsse una delle più gravi ferite inflitte al Medio Oriente da una potenza occidentale.
Per comprendere come mai la dichiarazione di Balfour fu così importante e controversa bisogna prima avere un’idea del contesto internazionale dell’epoca. Nel tardo autunno del 1917 la Prima guerra mondiale era in corso ormai da tre anni. Milioni di soldati erano rimasti uccisi o feriti sul fronte occidentale nel tentativo di sconfiggere la Germania, senza ottenere grandi risultati. L’esercito tedesco continuava ad occupare alcune delle zone più ricche della Francia e non sembrava incline ad andarsene. Nel frattempo, lo zar – alleato di Francia e Regno Unito – era stato rovesciato e i nuovi padroni della Russia rivoluzionaria sembravano sul punto di uscire dalla guerra, liberando così centinaia di migliaia di soldati tedeschi. Ad aprile gli Stati Uniti avevano dichiarato guerra alla Germania, ma quasi nessuno credeva che avrebbero potuto addestrare e trasportare in Europa un esercito di dimensioni sufficienti a cambiare l’esito del conflitto (spoiler: ci riuscirono).
Insomma: la situazione era complessa e tutti i membri del governo britannico cercavano faticosamente una soluzione. I generali pensavano che l’unica cosa da fare fosse concentrarsi contro il nemico principale: la Germania. La prossima offensiva, promettevano sempre, avrebbe potuto essere quella decisiva per la vittoria. Ma era una posizione che dopo tre anni di sconfitte aveva perso molto del suo fascino. Una fazione all’interno del governo la pensava in maniera diametralmente opposta. Erano i cosiddetti “orientalisti”: uomini come il primo ministro Lloyd George, il ministro della Marina Winston Churchicll (quel Winston Churchill), e come i funzionari e gli ufficiali cresciuti alla scuola del ministro della Guerra, l’eroe coloniale Horatio Kitchener (morto l’anno prima, quando la sua nave affondò dopo aver urtato una mina). La fazione degli orientalisti comprendeva anche semplici parlamentari come Mark Sykes, che sarà molto importante nella nostra storia.

Gli orientalisti pensavano che la soluzione del conflitto non potesse arrivare dal fronte occidentale, dove gli eserciti erano incartati in un conflitto inconcludente da tre anni. Secondo loro, l’esito della guerra si poteva cambiare soltanto colpendo gli alleati minori della Germania che si trovavano in Oriente, facendo a pezzi la coalizione che la sosteneva. Il loro obiettivo principale era l’Impero Ottomano, un’antica potenza in declino. L’Impero Ottomano era alleato con la Germania e controllava l’attuale Turchia e tutto il vastissimo territorio compreso tra Egitto e Iran. Secondo gli orientalisti, far uscire la Turchia dalla guerra avrebbe innescato un effetto domino che avrebbe portato alla caduta della Germania.
La capacità degli orientalisti di ottenere truppe e risorse per i loro piani orientali ebbe alterni successi, ma spesso riuscirono a mettere in piedi complicate e lontane spedizioni militari, quasi nessuna delle quali andò a buon fine. Nel 1915 fu organizzata una spedizione navale per forzare lo stretto dei Dardanelli e bombardare Istanbul, la capitale dell’Impero, ma l’operazione fu interrotta per le perdite subite dalla flotta. Nel 1916 tentarono di sbarcare truppe di terra per distruggere i forti che sbarravano l’accesso allo stretto, ma le truppe rimasero bloccate sulle spiagge e dopo non molto dovettero essere evacuate. Cercarono anche di conquistare l’Iraq e attaccare la Turchia da sud, ma l’esercito britannico fu circondato dai turchi e costretto ad arrendersi.
Mentre i rovesci militari si susseguivano uno dopo l’altro, gli orientalisti tentavano anche di perseguire la via diplomatica, cioè cercare sudditi insoddisfatti dell’Impero da usare contro i turchi e potenziali alleati da attirare nella guerra offrendo loro un pezzo dell’Impero una volta vinta la guerra. Ad esempio, tra il luglio del 1915 e i maggio del 1916, un inviato britannico scambiò lettere con lo sceicco Hussein de La Mecca, uno dei più importanti leader religiosi musulmani e un potente capo tribale arabo. Nelle lettere, Henry MacMahon promise in termini estremamente ambigui che in cambio di una sollevazione degli arabi contro i turchi, Hussein sarebbe divenuto re di uno stato arabo indipendente dopo la guerra. La corrispondenza MacMahon-Hussein divenne uno dei controversi e contraddittori documenti prodotti dal governo britannico nel corso della guerra. Come il documento, ancora più famoso, elaborato quasi contemporaneamente da un altro inviato britannico, Mark Sykes: il Sykes-Picot, in cui il Medio Oriente veniva spartito tra territori sotto controllo diretto di francesi e britannici e territori sottoposti a un’indipendenza “nominale” degli arabi (che però erano obbligati ad accettare “consiglieri” delle due potenze le cui decisioni erano da considerare vincolanti).

In questo quadro di iniziative confuse e contraddittorie si inserisce la dichiarazione Balfour e la promessa di sostenere la creazione di uno stato ebraico in Palestina. La dichiarazione è figlia di molti fattori diversi. Da un lato c’era il desiderio britannico di affidare la Palestina a “mani sicure” (la Palestina era considerata, con un po’ di fantasia, una sorta di “primo gradino” di una lunghissima scala che portava all’India britannica). Affidarne una parte agli ebrei, che avrebbero invocato i britannici come loro protettori, era visto da molti come un modo di realizzare questo obiettivo. Inoltre, buona parte del merito fu di alcuni importanti esponenti del movimento sionista, la fazione – all’epoca minoritaria – secondo cui il popolo ebraico doveva ritornare ad abitare in Terra Santa. I sionisti iniziarono molto presto a fare pressioni sul governo britannico. E lo fecero in maniera astuta: sfruttando gli stessi pregiudizi anti-ebraici così diffusi all’epoca.
Nei primi anni del Novecento l’antisemitismo era molto diffuso. È l’epoca in cui circolavano ampiamente testi come i “Protocolli dei Savi di Sion”, un falso fabbricato dalla polizia segreta dello Zar in cui veniva descritto un complotto segreto degli ebrei per dominare il mondo. Anche senza arrivare a questi estremi, erano in molti all’epoca a credere che la finanza mondiale fosse manipolata dagli ebrei, che gli ebrei fossero dietro al comunismo e che fossero la principale forza che spingeva affinché la Russia abbandonasse la guerra (la pensava così lo stesso Sykes). Uomini come il leader sionista Chaim Weizmann sfruttarono con abilità e spregiudicatezza questi pregiudizi. Il governo inglese temeva che i rivoluzionari russi che volevano la fine della guerra fossero al soldo di un complotto ebraico? Weizmann disse loro che era vero, e che quindi era molto meglio avere gli ebrei dalla propria parte. Il governo inglese pensava che fossero gli ebrei a controllare la finanza mondiale e il governo degli Stati Uniti? Certo che sì, disse loro Weizemann, quindi meglio dare loro quel che chiedevano.

Naturalmente il governo britannico doveva soppesare queste offerte contro gli altri impegni che aveva già preso. Ad esempio quelli che aveva sottoscritto con Hussein e che avevano portato a una rivolta degli arabi (a cui partecipò un certo colonnello T. E. Lawrence, poi diventato noto come Lawrence d’Arabia). Ma la rivolta araba non era stata la spettacolare insurrezione che molti avevano sperato. A ribellarsi erano stati soltanto pochi pastori nomadi della Penisola arabica, mentre centinaia di migliaia di arabi continuavano a combattere con disciplina e coraggio nell’esercito turco. Fu quindi relativamente facile accantonare per il momento le ambigue promesse fatte ad Hussein e ai nazionalisti arabi e tentare di risolvere la guerra alleandosi con gli ebrei. Per prudenza, però, il governo britannico decise di affrontare la questione nel modo più vago possibile. Dopo infinite revisioni e dopo aver cesellato accuratamente ogni parola, il testo della dichiarazione suonava così:
Egregio Lord Rothschild,
È mio piacere fornirle, in nome del governo di Sua Maestà, la seguente dichiarazione di simpatia per le aspirazioni dell’ebraismo sionista che è stata presentata, e approvata, dal governo.
“Il governo di Sua Maestà vede con favore la costituzione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico, e si adopererà per facilitare il raggiungimento di questo scopo, essendo chiaro che nulla deve essere fatto che pregiudichi i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche della Palestina, né i diritti e lo status politico degli ebrei nelle altre nazioni”.
Le sarò grato se vorrà portare questa dichiarazione a conoscenza della federazione sionista.
Con sinceri saluti
Arthur James Balfour

Bisogna fare attenzione alla scelta delle parole: il governo – è scritto – “ha simpatia” per il sionismo e “vede con favore” la costituzione di un “focolare” (“home“) per il popolo ebraico. Da nessuna parte è scritto che il governo britannico “garantisce” la creazione di uno “stato”. Era un linguaggio volutamente vago, figlio della confusione all’interno delle istituzioni britanniche, che non vincolava il governo britannico a nessuna posizione precisa e che ricalcava appieno gli altri documenti controversi di quegli anni. La corrispondenza MacMahon-Hussein, ad esempio, era piena di queste ambiguità che dopo la guerra avrebbero portato ad anni di recriminazioni. E lo stesso accordo Sykes-Picot aveva molti punti piuttosto vaghi ed entrambe le parti contraenti erano più che pronte a rimangiarsi gran parte delle rispettive promesse.
I tempi però erano cambiati. Il 1917 non era più l’Ottocento, quando la diplomazia era un affare per pochi ministri chiusi nei loro congressi, quando per le grandi potenze era ancora possibile fare accordi segreti, in contraddizione l’uno con l’altro, e poi mantenere solo gli impegni più convenienti. All’epoca della Prima guerra mondiale l’opinione pubblica era ormai diventata una parte importante del dibattito mondiale. Mantenere accordi segreti e portare avanti con doppiezza la propria diplomazia, soprattutto quando influiva sulla vita di milioni di persone, non era più possibile.
Così, la dichiarazione Balfour, pubblicata sui giornali il 9 novembre, suscitò entusiasmo tra i sionisti di tutto il mondo. Quella che prima sembrava un’utopia irrealizzabile – la creazione di uno stato ebraico – sembrò improvvisamente un obiettivo a portata di mano. Nei trent’anni successivi quasi 400mila ebrei emigrarono da tutto il mondo in Palestina, anche a causa del crescente antisemitismo. Ma quando i leader arabi lessero il testo della dichiarazione si sentirono traditi: nessuno li aveva avvertiti che avrebbero dovuto rinunciare a una parte del loro regno per cederla agli ebrei. Poco dopo, il regime bolscevico in Russia pubblicò anche i testi dell’accordo Sykes-Picot, che sarebbero dovuti restare segreti, rivelando al mondo che Regno Unito e Francia avevano segretamente complottato per spartirsi il Medio Oriente.
Il risultato di questo pasticcio fu che dopo la guerra il governo britannico si trovò intrappolato in una serie di impegni che i suoi stessi funzionari descrissero come “inconciliabili”. Gli arabi di Palestina insorsero più volte contro i coloni ebraici. Di fronte alle pressioni degli arabi, il governo britannico cercò di fermare l’immigrazione ebraica in Palestina, prima in maniera poco convinta e poi più decisamente.
Ormai però era troppo tardi. Le persecuzioni dei nazisti avevano attirato sugli ebrei le simpatie di tutto il mondo, mentre gli immigrati ebrei arrivati in Palestina avevano raggiunto un tale numero e una tale forza che le loro rivendicazioni non potevano più essere ignorate. Dopo la Seconda guerra mondiale, i britannici si affrettarono ad abbandonare il ginepraio che avevano contribuito a creare. Nel 1948 lasciarono quello che avevano chiamato il “mandato di Palestina” e che avevano governato tra mille problemi fin dalla fine della Prima guerra mondiale. Lo stato di Israele nacque il giorno successivo, dando inizio a una lunga coda di sofferenze e conflitti che dura ancora oggi.

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