“It’s the economy, stupid”. Il segreto del successo di Donald Trump che nonostante gaffe e idee assurde piace all’America

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di Alberto Negri

“It’s the economy, stupid”. Il segreto del successo di Donald Trump che nonostante gaffe e idee assurde piace all’America

Fonte: Alberto Negri

A un anno dall’insediamento alla Casa Bianca, The Donald, “the very stable genius”, strafamoso per le gaffe e per le idee balzane, sta per arrivare da noi e diventano bollenti persino le nevi di Davos. Con il discorso di Donald Trump il 25 gennaio al World Economic Forum si preannuncia l’edizione più agitata del vertice negli ultimi anni. Agli europei, e non solo a loro, il presidente americano non piace eppure, mentre l’Europa è ancora l’unico continente a non essere uscito dalla crisi, l’economia degli Stati Uniti vola. Certo non è tutto merito di Trump ma in questo momento per lui vale lo slogan coniato per la campagna presidenziale di Bill Clinton nel 1992: “It’s the economy, stupid”. E l’economia Usa viaggia come non mai negli ultimi anni.
Da quando Trump è stato eletto i principali indici azionari statunitensi sono cresciuti. E non di poco. Il Dow Jones è passato da 18mila a oltre 25.000, lo Standard & Poor’s 500 da 2.085 punti a quasi 2.800, e il Nasdaq da 5.046 a oltre 7mila punti. Numeri importanti, giustificati dagli utili delle società americane, in crescita costante dopo il collasso di Lehman Brothers nel settembre 2008, il punto più buio della crisi immobiliare che con i “titoli spazzatura” travolse gli Usa e poi anche noi. Mentre l’America però tornava a essere il motore economico globale, l’Europa invece continuava a combattere con la crisi del debito che ha investito anche l’Italia.

Soprattutto colpisce il dato sul lavoro: negli Usa, con un tasso di disoccupazione intorno al 4 per cento (più del doppio in Europa e oltre l’11 in Italia), negli Stati Uniti le imprese sono alla ricerca disperata di lavoratori. Lo scrive anche il New York Times, quotidiano anti-Trump e di evidenti simpatie democratiche.

Il tasso di disoccupazione negli States è così basso che un numero sempre maggiore di imprese sta assumendo forza lavoro tra i detenuti. Il quotidiano americano spiega come in certe zone la disoccupazione arrivi a malapena al 2% e le aziende stiano fornendo opportunità lavorative a persone che per molto tempo sono rimaste escluse dal mercato del lavoro, come appunto i detenuti ma non solo: chi è affetto da qualche forma di disabilità o ancora chi è stato a lungo disoccupato. Come esempio è citato il caso della contea di Dane, nel Wisconsin, dove, con la disoccupazione al 2%, l’offerta di lavoro era talmente alta e la domanda talmente bassa che le imprese manifatturiere hanno messo a lavorare nelle loro fabbriche detenuti che stanno ancora scontando la pena dietro le sbarre.

Era dalla fine degli anni ’90 e l’inizio degli anni Duemila che l’economia americana non sperimentava una competizione così spietata per assicurarsi forza lavoro, ovvero dall’ultima volta in cui il tasso di disoccupazione (attualmente al 4,1%) è stato così basso. Chiaro che una situazione di questo genere porta anche a un aumento dei salari. Nell’ultimo anno c’è stata un’escalation estrema: se qualcuno fa domanda per un posto di lavoro e l’azienda non risponde entro 24 ore, quella persona avrà già trovato un altro lavoro. I redditi delle famiglie sono aumentati rapidamente e ci sono segnali che con questo mercato del lavoro “bollente” si stia finalmente cominciando a spostare il potere contrattuale dalle aziende ai lavoratori.

Eppure The Donald non ha fatto tutti questi miracoli. La misura più significativa dell’amministrazione Trump, in ottica futura (ma non ancora effettiva) è stato il piano fiscale per le imprese che prevede sgravi e risparmi per le società americane. Ma questi tagli fiscali saranno cruciali per Trump, perché potrà rivendersi il risultato durante la prossima chiamata al voto sull’onda dei dati della crescita economica e dell’occupazione.

Manca invece ancora uno dei capisaldi della campagna elettorale di Trump, il programma di investimenti infrastrutturali. Non è ancora chiaro se e quando sarà lanciato. Ed è stata anche accantonata l’introduzione di una politica commerciale protezionistica, in particolare i dazi sulle merci cinesi.

La guerra commerciale deve ancora cominciare mentre Trump ha mantenuto la promessa di agevolare le imprese del petrolio e del gas: gli Usa sono oggi i maggiori produttori mondiali e praticamente non hanno più bisogno del greggio del Medio Oriente. Un dato da cui si può trarre anche qualche indicazione politica: designare Gerusalemme capitale di Israele, la mossa più “scandalosa” di Trump in politica estera, non avrà conseguenze economiche per Washington come l’avrebbe avuta qualche decennio fa.

Ma forse la mossa più importante di Trump in economia è la scelta di nominare Jerome Powell come successore di Janet Yellen alla guida della Federal Reserve: come la Yellen, Powell è il più indicato per garantire, facendo la guardia sulla politica monetaria, che non ci saranno “bolle” nell’economia americana.

Ma c’è qualche cosa che sfugge a Trump. Dopo avere deciso di abbandonare la Trans-Pacific Partnership (Tpp) la vertice Asean di Da Nang in Vietnam, gli asiatici si stanno convincendo che la grande nazione del libero mercato sta lasciando alla deriva un pezzo enorme del sistema commerciale globale. Con la crescente influenza economica della Cina sull’Asia-Pacifico, i Paesi della regione stanno arrivando alla conclusione che gli Usa siano destinati a essere sempre meno rilevanti. Le istituzioni finanziarie americane continueranno a rimanere importanti ma i flussi di capitale stanno cambiando direzione con conseguenze economiche e geopolitiche rilevanti. Altro che lo slogan “America First”.

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