Sembrano non avere fine i furti di armi all’interno delle basi militari israeliane. Soltanto nel 2017 la base di Tzeelim, nel deserto del Negev, ha subito più di cinquanta furti tra fucili, munizioni, esplosivi e perfino qualche veicolo militare. Secondo l’intelligence israeliana dietro queste azioni ci sarebbero bande di beduini che entrano indisturbati all’interno dei centri di addestramento dell’Idf travestiti da soldati. L’amministrazione israeliana si è detta “molto preoccupata per queste sottrazioni di armamenti che potrebbero finire in mano non solo a criminali ma anche a gruppi affiliati al jihadismo internazionale”.
Per contrastare queste bande di “predoni del deserto” il comitato ministeriale dell’esercito ha approvato lo scorso gennaio un disegno di legge che aumenterebbe drasticamente le pene detentive per coloro che vengono scoperti a rubare armi dalle basi dell’Idf.
“Chi ruba armi lo usa per il crimine e il terrorismo e costituisce un pericolo diretto per la sicurezza dei cittadini”, ha sostenuto Anat Berko, membro del Likud e promotore del Disegno di Legge.
Milioni di shekels sono quindi stati destinati alle forze armate per prevenire questa inquietante ondata di furti. Già da qualche mese alcune unità speciali della polizia di frontiera operanti sotto copertura (lo Yamas) hanno iniziato a smantellare la rete di criminali. Secondo il quotidiano israeliano The Times of Israel, nell’area desertica attorno a Beer-Sheva avvengono arresti quasi ogni notte. Il comandante in capo dell’Idf, Gadi Eizenkot stanno nel frattempo pensando a come migliorare la sicurezza della base militare di Tzeelim. Copn ogni probabilità verranno installate nuove recinzioni con cancelli e telecamere di sorveglianza; non si esclude, tra le altre cose, l’utilizzo di mezzi aerei come droni, per sorvegliare la zona e raccogliere informazioni sui campi beduini sparpagliati per tutto il deserto. La notizia dei furti all’interno delle basi militari è balzata agli onori della cronaca dopo che un gruppo di riservisti, stufi delle continue rapine, ha lanciato una campagna mediatica intitolata “Ending the Lawlessness in Tzeelim”. Il portavoce di questi riservisti, Arik Greenstein, ha denunciato al Ministero della Difesa della Knesset di come le regole di ingaggio imposte alle nuove reclute impediscano qualsiasi forma di difesa della base di fronte a questi attacchi.
“Le regole di ingaggio nel Sud di Israele sono identiche a quelle di Tel Aviv, per questo nessun riservista agirà mai per difendersi, perché non vuole mettersi nei guai. Chi viene qui (nei centri di addestramento) lo fa per prepararsi ad una guerra, non vuole una battaglia legale con tribunali e avvocati costosi”.
Le regole di ingaggio per i riservisti in addestramento sono infatti estremamente rigide e le problematiche che ne conseguono non riguardano soltanto i furti di armi. Nel corso del 2017 numerosi militari hanno denunciato molestie, insulti e lanci di pietre da parte di beduini nel corso di addestramenti in mezzo al deserto. I beduini avevano oltretutto istituito un complesso sistema di sorveglianza dei militari per assicurarsi che sapessero in qualsiasi momento che cosa stesse facendo ogni singolo plotone israeliano. Una volta fuori dalla base, nel corso di uscite di addestramento notturno, le reclute venivano seguite e circondate da dozzine di veicoli guidati da membri delle tribù beduine.
La situazione delle tribù beduine in Israele è un problema di cui nessuno pare preoccuparsi. Si stima che in tutto il Paese i beduini siano più di 240mila ma che meno della metà di questi vivano in città o villaggi legalmente riconosciuti. Il governo Israeliano ha più volte tentato di porre rimedio a questa spinosa situazione senza mai riuscirci del tutto. Nel 1965, la Legge Nazionale Israeliana di Pianificazione e Costruzione destinò le proprietà beduine presenti nel Negev e che non facevano parte delle nuove municipalità, a terreno agricolo, industriale o militare, impedendo così la costruzione di qualunque edificio e rendendo illegali gli insediamenti beduini esistenti. I villaggi beduini diventarono villaggi non riconosciuti dallo Stato in cui non è tuttora possibile ottenere licenze edilizie, non si possono avere strade di accesso né allacciamento all’acqua corrente, all’elettricità, o al sistema fognario; i loro abitanti sono però, a tutti gli effetti, cittadini israeliani. Nel 2007 il governo israeliano istituì la commissione Goldberg per risolvere la “questione” di questi villaggi “illegali” e, dal risultato del suo lavoro, è nata la prima bozza del piano Prawer (da Ehud Prawer, ex vicedirettore del Consiglio di Sicurezza Nazionale israeliano) approvato dal parlamento israeliano il 24 giugno del 2013.
Il progetto, che ha un costo previsto di 5,6 miliardi di dollari, prevede la confisca di 80mila ettari di terra e il trasferimento forzato di circa 80mila beduini nelle sette municipalità costruite dal governo, dove si registrano i tassi di criminalità più alti del paese e la mortalità infantile è quattro volte superiore rispetto agli insediamenti ebraici come evidenziato anche da un rapporto pubblicato a maggio 2013 dall’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione dei Profughi Palestinesi (Unrwa), in collaborazione con l’ong israeliana Bimkom. Lo studio evidenzia come l’urbanizzazione forzata abbia distrutto il loro stile di vita, basato sulla pastorizia, il tessuto sociale e la base economica e commerciale. I villaggi non riconosciuti vengono spesso distrutti da bulldozer scortati dall’esercito e la popolazione è costretta così a tornare a vivere nelle tende in mezzo al deserto. Non è difficile credere che, in una simile situazione, alcune di queste tribù abbiano fatto del furto e della vendita di armi la loro unica fonte di sostentamento.
Ciò che invece rimane inspiegabile è come queste armi riescano a finire in mano ad estremisti palestinesi o addirittura riescano a passare il confine. Numerosi fucili ed esplosivi di fabbricazione israeliana sono stati utilizzati dai ribelli islamisti in Siria. Per questa ragione alcuni osservatori hanno avanzato l’ipotesi che dietro a questi furti di armi ci possa essere anche la connivenza delle autorità statali o dei servizi segreti. Non è una novità che nella guerra in Siria Israele abbia appoggiato tutte quelle forze ostili al governo di Bashar al-Assad anche con modalità non proprio all’insegna della limpidezza. In un clima di tensione come è quello che si respira ai confini settentrionali con il Libano, non giova certamente alla tranquillità dello Stato ebraico il sospetto che diverse centinaia di armi possano essere finite nelle mani sbagliate.