“Nove su dieci sono di colore” racconta un giudice. E con lo “svuotacarceri” i pusher non sono punibili
di Luca Fazzo
Dai quartieri della movida milanese alle stradine del centro di Macerata, dai quartieri spagnoli di Napoli alla campagna veneta: l’homo novus del crimine in Italia è lo spacciatore di droga venuto dall’estero, il pusher senza volto e senza storia che vende morte sulle piazze della Penisola.
Presenze ormai note, frammenti del paesaggio urbano. Tutti, o quasi, stranieri; e di questi tutti, o quasi, clandestini. Da Nord a Sud, ogni città ha il suo quartiere in mano alle bande della «roba», noto a tutti. Forze dell’ordine comprese.
Quanti sono, i colleghi di Innocent Oseghale, il nigeriano che ha fatto a pezzi Pamela Mastropietro, innescando il delirio nazista di Luca Traini? Quanti sono i «cavalli» maghrebini o centrafricani che come Oseghale vivono unicamente vendendo eroina, cocaina, marijuana, ecstasy, tutte le schifezze disponibili nei mercati a cielo aperto delle periferie italiane? Il numero è incalcolabile, ma certamente si parla di migliaia di persone: tutti maschi, tutti giovani. Per tre etnie, secondo l’ultimo rapporto Istat, vendere droga è al primo posto nei delitti preferiti: sono albanesi, marocchini e tunisini. Ma i primi hanno in mano le leve del grande traffico, mentre per gli arabi il vero affare è il retail, il commercio al minuto. E lo stesso vale anche per nigeriani, gambiani e senegalesi, che non compaiono nel rapporto Istat ma compaiono invece nelle gabbie dei processi per direttissima che giornalmente intasano i tribunali italiani. «Su dieci arrestati per droga che mi vengono portati davanti – racconta un giudice milanese – nove sono di colore». E i mattinali con gli arresti della Volante confermano: a finire in manette per droga sono solo extracomunitari.
A Milano le zone di spaccio sono divise rigidamente: a vendere eroina a Rogoredo, nel minimarket a ridosso del famigerato «boschetto», sono giovani arabi, lavorano protetti dai cancelli dell’alta velocità, maneggiano pochi grammi per volta, tengono i prezzi bassi per allargare la clientela; alle Colonne di San Lorenzo regnano invece gli africani, soprattutto gambiani, imboscano la roba negli anfratti dei monumenti, e aggrediscono chiunque – giornalisti o poliziotti – cerchi di disturbare i loro traffici.
È un’attività a rischio zero, e questa impunità ha un ruolo nell’aumentare l’esasperazione degli abitanti dei quartieri, che vedono riapparire in circolazione nel giro di manciate di ore gli spacciatori che vengono arrestati. Colpa di una legge voluta dal governo Letta, ultimo lascito prima della sua rottamazione nel 2014: il cosiddetto «decreto svuotacarceri», che impedisce ai giudici di emettere ordinanze di custodia cautelare per reati puniti con meno di cinque anni di carcere. E poiché il quinto comma della legge sugli stupefacenti, che punisce lo spaccio al dettaglio, prevede pene da sei mesi a quattro anni, il giudice non può che scarcerare. In teoria potrebbero scattare gli arresti domiciliari, ma essendo (o dichiarando di essere) senza fissa dimora, i pusher si vedono liberati con al massimo l’obbligo di firmare ogni tanto in commissariato. Ovviamente tornano subito a spacciare: anche in caso di nuovo arresto, in carcere non finirebbero comunque. La legge buonista vale anche per i recidivi.
Così si spiega il clima di sicurezza, di controllo del territorio, a volte di arroganza di queste bande. Che, inevitabilmente, le porta ad alzare la testa, a porsi nuovi obiettivi affacciandosi a piani più alti del business: così la sera di venerdì scorso la guardia di Finanza a Verona arresta un nigeriano con un chilo di droga e un gambiano con un altro chilo; a Massa un marocchino, da tempo ben conosciuto, viene beccato mentre fa il salto di qualità: in auto ha sette chili di cocaina. Un quantitativo da aspirante boss.