Segnalazione Corrispondenza Romana
di Alfredo De Matteo
Storicamente il medico era chiamato a certificare con un atto ufficiale la morte del paziente, ossia a testimoniare ufficialmente un fatto già avvenuto. Negli ultimi decenni invece egli ha cambiato di ruolo: da semplice accertatore di un evento oggettivo e facilmente verificabile a vero e proprio arbitro della vita e della morte delle persone.
Infatti, con l’introduzione del criterio della morte cerebrale non solo si è preteso di fissare il momento esatto del trapasso ma anche di stabilirlo tramite l’utilizzo di sofisticati strumenti diagnostici. In altri termini, oggigiorno sono i soli addetti ai lavori che possono valutare quando un paziente è morto oppure no. La comunicazione massmediatica ha il compito di recepire il nuovo criterio di morte e di presentarlo acriticamente al grande pubblico come un dato di fatto acquisito.
Esemplificativo in tal senso un recente fatto di cronaca in cui un 47enne di Larino, in provincia di Campobasso, è stato dichiarato cerebralmente morto, a seguito di un malore, dall’ospedale San Giovanni Rotondo in provincia di Foggia, dopo che il malcapitato è stato trasferito da una struttura all’altra dapprima per l’assenza di un presidio di pronto intervento, poi per l’impossibilità di poterlo sottoporre ad una Tac.
Insomma, un caso classico di malasanità su cui il ministro della salute Grillo ha promesso di indagare per accertare eventuali responsabilità: «Vogliamo andare rapidamente a fondo in questa vicenda. Non è possibile morire per cattiva organizzazione e sostanziale mancanza di assistenza» (Il Secolo d’Italia, 18 luglio 2018).
Dunque, lo sfortunato signore sembra essere certamente deceduto, o quantomeno tale è la sentenza insindacabile pronunciata dagli addetti ai lavori. Già, perché nessuno è in possesso di altri elementi comprovanti l’avvenuto decesso, data la totale assenza, in caso di morte cerebrale, di tutti quei segni oggettivi che contraddistinguono la morte stessa; anzi, ad abbondare sono semmai i segni contrari: cuore e circolazione perfettamente funzionanti, efficiente funzione respiratoria (seppur supportata), normali funzioni renali, epatiche e digerenti.
Ma su quali basi poggia allora il criterio della morte cerebrale?
In realtà, esso si basa sull’assunto secondo cui la perdita irreversibile di tutte le funzioni cerebrali rappresenti di per se stessa la fine della vita dell’individuo, in quanto il cervello è considerato l’organo che ha il ruolo di integratore centrale dell’essere umano. Ossia, senza le funzioni cerebrali l’uomo altro non sarebbe che un agglomerato di cellule e organi dissociati tra loro. Ma da questo punto di vista le criticità sono molteplici.
Innanzitutto, come ha sottolineato il professor Seifert in un’intervista pubblicata dalla Nuova Bussola Quotidiana il 3 luglio scorso, «come si può attribuire al cervello, un organo che si forma relativamente tardi, preceduto per molte settimane dall’organismo vivente di cui sarà il cervello, il ruolo di integratore centrale della sola parte del corpo che porta la vita? Un alto livello di vita integrata precede chiaramente la formazione del cervello».
Inoltre, non è possibile ritenere che la sola sospensione protratta di una funzione sia l’espressione della distruzione irreversibile di un organo. Ad esempio, per quanto riguarda il cuore esiste una sindrome denominata “Tako Tsubo”, in cui il paziente presenta un quadro clinico di necrosi di un’estesa parte del muscolo cardiaco.
Eppure, del tutto inspiegabilmente, anche dopo diverse settimane dall’evento acuto la contrattilità cardiaca e la forma del cuore tornano perfettamente nella norma. Nel cervello esistono analoghe alterazioni funzionali, come la cosiddetta “penombra ischemica cerebrale”, che possono essere reversibili, se adeguatamente trattate.
Ma forse l’argomento più decisivo contro la pretesa scientificità della morte cerebrale è la relatività dei criteri atti a diagnosticarla: innanzitutto, perché variano da paese a paese (il caso più eclatante è quello degli Inglesi, i quali negano qualsiasi valore all’EEG perché a favore di una concezione della morte cerebrale che esclude l’esame dell’encefalo), poi a causa dell’estrema aleatorietà dei limiti fissati: la legge italiana, ad esempio, fissa al di sopra di 2 microvolts il limite di attività elettrica cerebrale oltre cui c’è la vita; mentre per una soglia più bassa, riscontrata dalle apparecchiature per un certo lasso di tempo, c’è la morte.
Non occorre essere degli scienziati per capire che quello dei 2 microvolts rappresenta un limite del tutto arbitrario che tra l’altro non corrisponde allo zero assoluto strumentale. Un pò come avviene con la legge 194 per cui l’aborto è libero entro i primi tre mesi di gestazione mentre è vincolato all’accertamento di eventuali anomalie del nascituro nei restanti mesi della gravidanza; come se improvvisamente, e solo allo scoccare del 91mo giorno, ci si trovasse di fronte ad un essere umano …
In realtà è palese come l’introduzione del criterio della morte cerebrale si rese necessario per risolvere i problemi etici legati alla nascente pratica degli espianti degli organi vitali, tanto che ad ammetterlo candidamente furono gli stessi membri della commissione di Harward che nel 1968 vararono il nuovo concetto di morte basato non più sulla cessazione di tutte le funzioni vitali ma solo quelle di un organo, giustappunto il cervello: «Criteri obsoleti di definizione di morte possono portare a controversie nell’ottenere organi a fine di trapianto».
Resta però il fatto che tale nuovo criterio di definizione della morte ha finito, giocoforza, per coinvolgere tutti, non solo dunque i potenziali donatori di organi. La materia è attualmente regolata in Italia dalla legge 29 dicembre 1993 n. 578 e dal D.M. 582 del 22 agosto 1994. Sulla base di tali disposizioni di legge sussiste l’obbligo da parte della struttura sanitaria dell’accertamento della morte cerebrale, indipendentemente dal fatto che il paziente sia un potenziale donatore oppure no.
Pertanto, una volta accertata la morte cerebrale egli viene trattato alla stregua di un cadavere e privato dunque di qualsiasi sostegno medico. È questa, verosimilmente, la fine capitata al signore di Larino, il quale è rimasto vittima non solamente della malasanità ma soprattutto della nuova e antiscientifica definizione di morte