di Alessandro Soldà Cristofari
Fonte: oltre la linea
Partiamo da un caso di cronaca: una ragazza statunitense pubblica sul suo profilo social alcune foto in cui lei indossa un bell’abito da sera ad una festa (il cui dress code richiede una certa eleganza).
Accanto ai complimenti sotto alle fotografie appaiono però alcuni commenti più critici, diciamo pure che viene insultata: la sua colpa è quella di indossare un vestito tradizionale cinese, simbolo dell’emancipazione femminile, senza sapere il significato, mancando di rispetto all’intero popolo cinese.
E per non farci mancare niente, viene pure accusata di appropriazione culturale e di piegare un abito simbolico al puro edonismo simbolo dalla società capitalista e consumista americana. Alla fine, nonostante l’attacco vile e senza senso, quelle foto rimangono sul suo profilo: perché quel vestito le piace, e non sarà certo quella cattiveria gratuita sui social a costringerla a cambiare idea.
Di fronte a questa vicenda si rimane perplessi; da parte sua non c’è stata alcuna palese o quanto meno volontaria mancanza di rispetto verso la Cina, vivendo in una società in cui il consumo è la cultura prevalente a discapito del retaggio tradizionale e storico anteriore – che è quello dei singoli e rispettivi popoli-, ed è dunque normale non essere a conoscenza che certi accessori e oggetti rimandino ad un evento o ad una vicenda di fondamentale e storica importanza per una nazione, com’è il caso dell’abito della ragazza.
Lei è rimasta vittima di due tipi di ignoranza: la sua, involontaria e di cui abbiamo appena parlato; e quella del popolo dell’etere che l’ha accusata di un non ben esplicito o implicito razzismo. Non si è voluto vedere il contesto in cui il vestito è stato indossato: un ballo, una festa, un prom (all’americana). Si voleva attaccare qualcuno, negando a priori il dialogo, facendo prima di tutto gruppo: è normale prassi accerchiare l’avversario, isolandolo, per poi sbranarlo.
È la vigliaccheria presente nel mondo moderno, è la voglia di negare il dialogo; la tragica ironia della società contemporanea che si dichiara e sventola la bandiera della democrazia e del liberalismo: accusare chiunque di razzismo, o di fascismo come di omofobia, è lo strumento migliore per delegittimare prima ed etichettare a vita poi chi non concorda con noi o chi non ci va a genio.
Soprattutto se non si dispone di argomentazioni o di tesi valide per controbattere; e per distruggere una persona senza un ben precisato motivo. Si parla spesso del bullismo e del cyber bullismo (La cronaca nostrana ne è piena di notizie sull’argomento, come pure quella estera), questo non lo è per caso? Il bullo umilia la persona che ha preso di mira senza una motivazione: lo fa per divertirsi, o per noia.
E spiace divergere dalla narrazione mainstream che vede nei bulli dei poveri cucciolo smarriti che hanno bisogno di essere compresi, e via dicendo: sono frasi che vengono pronunciate da chi non vuole prendersi la responsabilità del proprio ruolo, nella fattispecie pedagoghi ed educatori, insegnanti e genitori.
La cattiveria è insita nell’uomo per natura. Così come l’ignoranza. E anzi, l’una e l’altra sono collegate: Platone lo afferma bene nella sua Repubblica, solo i filosofi possono governare perché gli unici a conoscere il Bene in generale e anche della città. Chiaro che la Kallipolis platonica deve essere declinata anche in chiave metaforica: noi compiamo il bene solo se lo conosciamo, altrimenti agiamo nel male per ignoranza; la parte razionale o contemplativa -per semplicità, diciamo anche filosofica- deve prevalere sulle altre.
Sperare in una società di filosofi è certamente, allo stato attuale delle cose, pura utopia -ma ne riparleremo in un’altra sede-, e quindi dovrebbe rientrare nella normalità la cattiveria presente sui social network e nel mondo reale. Qui, però, casca l’asino: e cioè nel ventunesimo secolo una minima comprensione delle cose e di cultura generale dovrebbe essere la norma; con gli strumenti che tutti noi abbiamo a disposizione, persino e soprattutto concettuali, è quanto meno imbarazzante assistere ad un’incomprensione così ottusa, e ci riferiamo alle accuse di razzismo piovute da tutte le parti verso la protagonista della vicenda, tali da sbarrare ogni via di possibile tentativo di dialogo o mediazione tra le due parti.
Si può però trarre qualcosa di positivo, si fa per dire, dalla vicenda con cui abbiamo aperto: è un interessante termometro della situazione generale del nostro tempo; ci troviamo in un mondo pervaso dall’isteria e dall’estremismo radicale, la conseguenza è una sola e cioè l’impossibilità di pervenire ad un dialogo perché le posizioni di partenza, rimanendo immutabili, rifiutano la possibilità di un confronto a priori.
Chiaro, un confronto dialettico non implica la necessità che una delle due parti venga persuasa a cambiare idea: non è il fine ultimo del dialogo. Ma l’approfondimento e la conoscenza reciproci sì, è quella la meta a cui dovrebbero arrivare i dialoganti; invece, si scarta per principio il confronto, perché l’altro è di un’ideologia che, a mio avviso, è negativa e pericolosa o, peggio, criminale.
È quasi superfluo suggerire da quale parte provenga soprattutto questa posizione, per così dire, antidemocratica: l’antifascismo del terzo millennio, progressista e liberal è il primo ad opporsi ad un’analisi critica delle situazioni particolari, e del contesto generale; si urla al razzismo e all’omofobia, così alla chiusura mentale o come abbiamo visto all’appropriazione, indebita, culturale, senza alcuna prova concreta di quello di cui si accusa. Ne abbiamo parlato poco sopra.
Ma fateci spezzare una lancia anche verso gli accusatori della ragazza, pur tenendo presente che la violenza (in questo caso, verbale) non è di certo la soluzione: hanno paura che la cultura e il proprio patrimonio tradizionale venga divorato dal capitalismo moderno e dalla spinta multiculturalista che ne segue; la perdita della propria identità attanaglia come un incubo l’individuo e il popolo; e si vede nell’esibizione di un abito da sera che richiama una vicenda storica importante un affronto.
Diciamoci la verità: stiamo vivendo in un tempo in cui non è facile vivere o esprimere un’opinione. Né capire se ciò che ci troviamo davanti sia o meno razzista. Come tentare di conservare il proprio patrimonio culturale, per salvaguardare l’eredità storica ed identitaria personale, famigliare o territoriale. La modernità è multiculturale: non è incontro delle diverse culture o dialogo tra di esse. È una miscellanea di modi di vivere incompatibili tra loro, che si scontrano anche in modo violento; quello di cui abbiamo discusso all’inizio ne è un caso.
Il multiculturalismo diverge dalla conoscenza e dal rispetto reciproco dei popoli; provoca indifferenza, o indisposizione verso lo straniero; è un atteggiamento del tutto naturale e che non può essere biasimato. Una nazione in cui vi è il tanto blasonato melting pot perde la sua identità e la capacità di conoscerne altre: gli Stati Uniti ne sono l’esempio lampante. Si pensa che la globalizzazione ne sia la causa, e in parte è così.
Il progresso tecnologico ha contribuito al movimento di capitali, merci e persone; la facilità con cui oggi possiamo spostarci da Roma a New York non ha eguali con il passato, anche sotto l’aspetto economico. Ma non possiamo imputare la colpa solo alla tecnologia (altrimenti dovremmo rifiutare pure l’uso del telefono cellulare e di internet), ma è da rintracciare nell’idea che oggi è di moda, è cool, per cui tutti gli uomini sono uguali, e fino a qui possiamo pure condividere questa opinione -se ci riferiamo alla dignità e al rispetto dovuto-, e di conseguenza pure le culture; anche se sono dei costrutti che possono essere distrutti perché delimitano l’essere umano.
Ergo, fino a quando l’uomo non si emancipa dalla cultura, le stesse possono convivere -forzosamente- l’una accanto all’altra. Si devono tollerare a vicenda. E solo un uomo libero dalla gabbia della cultura è veramente libero ed emancipato; l’assenza del patrimonio culturale è libertà. Le conseguenze possibili sono due: un miscuglio di tradizioni e di modi di vivere senza capo né coda, grigio e senza senso, e l’annichilimento naturale delle culture; o l’intolleranza tra le diverse comunità che non riuscendo a sopportarsi e a soffrirsi a vicenda vivono in un’eterna tensione, che sfocia pure talvolta in scontri armati. O entrambe.
Non parliamo di volontà politiche o di complotti -questi trovano il tempo che trovano, tra il serio, il faceto e il folklore-. Piuttosto della realtà: una persona è tale finché rintraccia in sé stessa e nel gruppo di appartenenza un preciso nucleo identitario, che forgia lo spirito sia individuale sia collettivo; questo per ritornare, in parte, ad Aristotele: l’uomo è un animale politico, che per natura si riunisce in città e stati. Ed è chiaro che le stesse città e stati abbiano affrontato le proprie vicende e storie particolari, e che si sia creato un legame più che stretto tra i membri all’interno delle differenti comunità.
Così si creano i popoli e le culture, ciascuno con le proprie differenze e peculiarità; vi sono, è innegabile, delle contaminazioni dall’esterno. Ciò non pregiudica, d’altro canto, l’esistenza dei diversi patrimoni tradizionali e culturali: anzi, si rafforzano. Però, e ci avviamo alla conclusione, un conto è l’incontro e il dialogo; un altro è l’assembramento coatto, in virtù di una logica, quella no borders e quella capitalista, che è -scusateci il gioco di parole- illogica, poiché porta a tutta quella serie di conseguenze che abbiamo elencato poco fa. Bisognerebbe riprendere in mano la propria cultura, e conservarla; non si tratta di fascismo, di razzismo o xenofobia: ma di identità, di tradizione e di storia. Noi siamo quello che siamo perché abbiamo un’eredità sulle spalle, e perché abbiamo vissuto in un ambiente che ci ha materialmente e spiritualmente forgiati.
Certo, possiamo emigrare e immergerci in un ambiente totalmente diverso dal nostro nido. Ma alla fine, un italiano è un italiano e un francese un francese. Parlare di cosmopolitismo è possibile finché lo si intende come capacità di adattamento in un’altra nazione o da un contesto abituale; non siamo cittadini del mondo: siamo figli e cittadini della terra dove siamo nati, della terra dei nostri padri e dei nostri avi. Il multiculturalismo tende a sradicare questo concetto; lo elimina, in favore di cosa? Di un mondo meticcio, dove la differenza decade e nulla più distingue l’uno dall’altro.
Non è la via maestra per la tolleranza, né per il rispetto. Ciò si ottiene solo se vi è coscienza sociale e politica dell’importanza dell’esistenza delle diverse culture e dei diversi popoli, perché sì: siamo tutti uguali, sul piano della dignità umana e del rispetto dovuto. Ma non se guardiamo quello più strettamente antropologico e filosofico.
Arriviamo all’ultima, forse fondamentale domanda che ci rimane da porci: siamo ancora in tempo per invertire la rotta, oppure, com’è già successo e succederà, l’unica vera vittima accertata del razzismo e dell’antirazzismo sarà sempre e solo l’identità?