di Luciano Garibaldi
Fra’ Ginepro da Pompeiana (foto dal sito Ragazzi del Manfrei)
Fu un sacerdote, don Ennio Innocenti, teologo e storico, famoso predicatore radiofonico (indimenticabili le sue trasmissioni dal titolo “Ascolta, si fa sera”), nonché fondatore della “Sacra Fraternitas Aurigarum in Urbe”, a ricostruire il cammino di Mussolini verso la fede. Lo fece con un libro, “Disputa sulla conversione di Benito Mussolini”, pubblicato a Roma a metà degli Anni Novanta, appunto dalla Fraternitas (via Capitan Bavastro 136, 00154 Roma). Don Ennio Innocenti aveva dedicato dodici anni di ricerche e investigazioni personali a questa insolita vicenda. In un primo momento, aveva rivelato quanto ebbe a confidargli Padre Eusebio OFM, al secolo Sigfrido Zappaterreni, cappellano capo delle Brigate Nere, trasferitosi in Argentina dopo la guerra e morto a Buenos Aires. Più volte – questo aveva rivelato Padre Eusebio al confratello – egli ricevette la confessione sacramentale di Benito Mussolini. In seguito, fu un altro francescano a somministrare al Duce, dopo averlo confessato a sua volta, l’Eucaristia. Il suo nome era Fra’ Ginepro.
Don Innocenti ricostruì, nel suo libro, la storia dei rapporti che legarono il Duce a Fra’ Ginepro da Pompeiana, al secolo Antonio Conio, nato nel 1903 e morto nel 1962, predicatore popolarissimo in Liguria, dove la città di Loano gli ha dedicato un monumento in bronzo.
Antonio Conio, diventato prete dopo aver discusso una tesi di laurea dal titolo “Francesco d’Assisi, il più italiano dei Santi”, partecipò alla campagna di Grecia come cappellano militare e, dopo essere stato gravemente ferito, fu fatto prigioniero e rinchiuso in un campo inglese in India. Tornato in Italia nel ’43, in seguito ad uno scambio di prigionieri feriti o malati, dichiarò ai giornalisti, accorsi ad intervistare i reduci a Taranto, che ogni giorno, nel campo di prigionia, benché fosse proibito, aveva celebrato di nascosto la Messa pregando per il Duce. Commosso, Mussolini volle conoscerlo. Lo convocò a Palazzo Venezia e gli affidò la presidenza del Comitato di assistenza agli ex prigionieri.
Ma il 25 luglio e il crollo del regime bloccarono tutto. Fra’ Ginepro rivide Mussolini il 14 dicembre 1943 a Villa Feltrinelli, sul Lago di Garda. Il Duce gli aprì il suo animo: “Da giovare ero un eretico, con la Conciliazione sono diventato religioso in politica, ora mi sento religioso anche nella mia vita intima”.
Ennio Innocenti racconta che padre Ginepro “colse immediatamente l’occasione e propose, per l’indomani, di portargli il Santissimo Sacramento. Il Duce accettò”. Quel mattino, alle 9,30 – secondo la testimonianza resa parecchi anni dopo la fine della guerra dallo stesso frate ligure – un tenente di alta statura, con la penna da alpino sul cappello, accompagnò Fra’ Ginepro per le scale e lo introdusse nella sala dove Mussolini lo aspettava. Alle 10 la Confessione era finita. Dopo aver ricevuto l’Eucaristia, Mussolini abbracciò il frate.
Padre Ginepro tornò dal capo della RSI il 30 luglio 1944 per celebrare la Messa nel suo studio. Stando alle ricerche di don Innocenti, tuttavia, l’intesa tra i due uomini si era incrinata, perché il frate, approfittando della sua condizione privilegiata, avrebbe preteso da Mussolini certe prese di posizione nei confronti dei tedeschi che il Duce non era in grado di porre in atto. Ciò raffreddò il loro rapporto e, poco tempo dopo, Mussolini tornò ad affidare i suoi problemi di coscienza alle cure di Padre Eusebio.
Rimasto fedele alla RSI, Fra’ Ginepro tornò a dedicarsi agli italiani internati in Germania, riuscendo ad alleviare in modo cospicuo le loro sofferenze. Dopo il 25 aprile ’45, fu arrestato come “criminale fascista” e rinchiuso per 11 mesi nel carcere genovese di Marassi, dove tuttavia divenne popolarissimo tra i detenuti per la Messa che recitava ad alta voce, cantando, dalla sua cella. Liberato, tornò a predicare nella sua Liguria, amato da tutti, ex fascisti, partigiani e persino comunisti, tanto era il bene che la sua figura sapeva irradiare.
Oltre Padre Eusebio e Fra’ Ginepro, due figure centrali nel cammino di Mussolini verso la fede, don Ennio Innocenti cita, nel suo lavoro, altri personaggi e altri documenti sulla conversione religiosa del Duce. Prigioniero nell’isola di Ponza, dopo essere stato arrestato dai carabinieri per ordine del Re, Mussolini chiese ed ottenne di poter tenere nella sua stanza – e questo è noto – il celebre libro “La vita di Gesù”, dell’abate Ricciotti. Meno noto – e di aver posto in luce la circostanza va dato merito a don Ennio – è che il 5 agosto il prigioniero inviò il libro in dono al parroco di Ponza, don Luigi Dies, unitamente a questa lettera autografa il cui reperimento è anch’esso merito di don Ennio Innocenti: “Molto Reverendo, sabato 7 ricorre il secondo annuale della morte di mio figlio Bruno, caduto nel cielo di Pisa. Vi prego di celebrare una Messa in suffragio della sua anima. Vi accludo mille lire di cui disporrete nel modo più conveniente. Desidero farVi dono del libro di Giuseppe Ricciotti. E’ un libro esaltante, dove scienza storica, religione, poesia sono fuse mirabilmente insieme. Con l’opera di Ricciotti, l’Italia raggiunge forse un altro primato. Il mio cordiale saluto. Mussolini”.
Don Innocenti accertò che don Dies chiese immediatamente di parlare con il prigioniero, ma ne fu impedito da un colonnello dei carabinieri, mentre, il giorno appresso, il Duce fu trasferito alla Maddalena. Qui ebbe quattro incontri con il parroco, don Salvatore Capula, che però porterà con sé nella tomba (morì in veneranda età nel luglio 2000) il segreto di quei colloqui. Si sono fatte soltanto ipotesi, tra cui quella che Mussolini si sarebbe confessato e comunicato.
E’ poi provata la proclamazione di fede cattolica fatta da Mussolini in un testamento sottratto tra le sue carte. La si ricava da una lettera manoscritta del Duce inviata alla sorella Edvige dalla prigionia, in data 31 agosto 1943, e riprodotta nel libro di don Ennio: “In una delle cartelle che tenevo vicino al lume sul mio tavolo a Palazzo Venezia e che ho invano chiesto di riavere”, scrisse il Duce alla sorella, “c’è di mio pugno un testamento, maggio 1943, che dice: “Nato cattolico, apostolico, romano, tale intendo morire. Non voglio onori funebri di nessuna specie”. Porto a tua conoscenza queste mie volontà”.
In effetti, il lento cammino di Mussolini verso la fede, dalle spavalde professioni di ateismo del periodo socialista, e addirittura dai sacrilegi compiuti con Pietro Nenni, quando, assieme, profanarono un tabernacolo, è contrassegnato da decine di episodi significativi, di cui il Concordato dell’11 febbraio 1929 non è che il più vistoso. Ennio Innocenti li ha rintracciati su vari testi e documenti e li ha elencati scrupolosamente.
Al di là dei comportamenti contraddittori dei primi anni del regime (Mussolini ripristina il Crocifisso nelle scuole, ma poi scioglie l’Azione Cattolica), dovuti alla lotta politica contingente, c’è un filone preciso che indica il cammino interiore. Nel discorso alla Camera del 21 giugno ’21 afferma: “Penso che l’unica idea universale che oggi esiste a Roma è quella che si irradia dal Vaticano”. Nel 1923, recuperando gli anni perduti nell’affermazione del suo ateismo, fa battezzare i figli. Nel 1924, a Vicenza, dice: “Se sono entrato in chiesa e mi sono inchinato dinnanzi all’altare, ciò non ho fatto per rendere un omaggio superficiale alla religione dello Stato, ma per un intimo convincimento”. Nel 1925 scrive a padre Semeria, il famoso barnabita ligure: “La bontà non può essere scettica, deve essere credente”. Lo stesso anno, il 29 dicembre, sposa la sua compagna, Rachele Guidi, nella chiesa di Santa Maria Segreta, a Milano, dinnanzi al parroco don Natale Magnaghi, che annota l’evento sul registro parrocchiale “con tutte le caratteristiche della regolarità”. Si è confessato? Don Innocenti non ne dubita, e individua in padre Tacchi Venturi SJ il confessore. La riprova? Qualche tempo dopo, il Duce fa restaurare a proprie spese la statua della Madonna del Fuoco, protettrice di Forlì, ch’egli aveva picconato in gioventù, e firma il decreto che riconosce civilmente la solennità del Corpus Domini. E’ la “penitenza” che gli è stata assegnata dal confessore.
Pochi giorni prima della firma dei Patti Lateranensi, confida alla nipote, Rosetta Mancini, figlia della sorella Edvige: “Quando leggerai sui giornali la notizia dei Patti tra lo Stato italiano e la Chiesa, ricordati del segno della Croce che mia madre, tua nonna, mi tracciava sul capo ogni sera, mentre io mi addormentavo nella nostra povera casa di Dovia”. Infine, nell’ultimo suo scritto, la lettera alla moglie Rachele, vergata all’alba del 26 aprile 1945 nella prefettura di Como prima di avviarsi verso la trappola mortale di Dongo: “Ti giuro affetto davanti a Dio. Bruno, dal Cielo, ci assisterà”.
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Luciano Garibaldi. (brevi note bio-bibliografiche tratte dal sito dell’editore Solfanelli). Nato a Roma nel 1936, è giornalista professionista dal 1957. Dal 1958 al 1968 è stato collaboratore fisso del settimanale “Tempo” con Raimondo Luraghi, Curzio Malaparte e Pierpaolo Pasolini. Nel 1964 ha pubblicato a puntate, su diversi quotidiani nazionali, la prima ricostruzione storica dell’attentato a Hitler del 20 luglio 1944, realizzata intervistando i superstiti di quell’evento.
Nel 1968 è stato il primo giornalista italiano a entrare in Cecoslovacchia il giorno dopo l’invasione sovietica. Dal 1969 è stato inviato speciale del settimanale “Gente”. Nel 1974 è stato tra i primi assunti dal “Giornale” di Indro Montanelli. Caporedattore centrale di “Gente” nel 1976, nel 1984 ha ricoperto lo stesso ruolo nel quotidiano “La Notte”.
Dal 1986 al 1994 ha collaborato alla terza pagina di “Avvenire”; tra il 1992 e il 1995 è stato editorialista dell’“Indipendente” e poi del “Giornale”. Attualmente collabora con vari quotidiani e riviste tra cui “Studi Cattolici” e “Storia in Rete”.
Ha pubblicato oltre trenta libri di argomento storico, gli ultimi dei quali sono: Fidel Castro: storia e immagini del lider Maximo (White Star, Vercelli 2007) tradotto in varie lingue tra cui il cinese; O la croce o la svastica (Lindau, Torino 2009) e Perché uccisero Mussolini e Claretta (Rubbettino, Soveria Mannelli 2010) insieme a Franco Servello.
Con le Edizioni Solfanelli ha pubblicato: Venti di bufera sul confine orientale (Chieti 2010) e Nel nome di Norma (Chieti 2010) con Rossana Mondoni; La vera storia dell’Uomo Qualunque (Chieti 2013) con Paolo Deotto.