Sindrome cinese

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Di Marcello Veneziani

Il pericolo cinese ci accompagna ormai da una vita. Ci fanno paura ormai da troppo tempo, altro che coronavirus e razzismo anticinese. Ero bambino e già si temevano i cinesi di Mao Tse Tung in marcia con la loro rivoluzione culturale, i loro libretti rossi, i loro feroci campi di rieducazione, le loro esecuzioni sommarie in massa; e l’annuncio che avrebbero raggiunto anche noi e invaso il lontano occidente. Aiuto, la Cina è vicina, ripetevamo con Marco Bellocchio. “Arrivano i cinesi” cantò poi Bruno Lauzi. Sono tanti, militarizzati e si moltiplicano a vista d’occhio, dicevano, non hanno niente da perdere, sono irregimentati, nascono e muoiono come mosche o chicchi di riso, uccidono senza problemi, ti costringeranno a cedere la macchina e andare in bicicletta e ti spoglieranno del capo firmato per farti indossare la tutina di forza alla Mao. Ecco il libretto d’istruzioni di Mao, con le sagge idiozie del Grande Timoniere; da noi i filocinesi erano tanti, fanatici e armati.

Non avevamo fatto in tempo a tirare un sospiro di sollievo per la morte di Stalin e poi la fine della Guerra Fredda che le Guardie Rosse cinesi ci minacciavano. Quando Mao morì non si fece in tempo a dire pericolo scampato che la Banda dei Quattro, vedova inclusa, riprese le minacce. E una dependance dei cinesi ce l’avevamo, soprattutto noi pugliesi, a un tiro di schioppo, in Albania, e annunciavano l’imminente caduta dell’Imperialismo, del Capitalismo e l’arrivo degli albanesi come aperitivo dei cinesi.

Quando ero ragazzo diventò proverbiale il titolo di un film, Sindrome Cinese, con Jane Fonda e Michael Douglas che ci impauriva con un’esplosione nucleare che avrebbe creato bibliche contaminazioni nella popolazione californiana e in seguito planetaria. Ma ancor più terribile da giovane fu il filone dalla Cina con furore che ebbe come protagonista il mitico Bruce Lee, venuto dalla Cina d’esportazione, di Hong Kong, che nei suoi film ci mostrò le mazzate cinesi e le arti marziali, il Kung fu e una marea di violente crudità per nuocere al prossimo con pochi ma terribili colpi letali.

Anche il sesso in versione cinese era esagerato, mortale, eccessivo. Altro che Lanterne rosse. Da paura. Persino quando si divertono per il loro Capodanno e per il loro teatro, i cinesi inscenano mostruosi spettacoli, con dragoni, serpenti, maschere spaventose. Con loro non ti puoi mai rilassare un attimo.

Se vi assale il dubbio di vivere nel peggiore dei mondi possibili e sognate di lasciare il vostro paese, recuperate il film cinese Still Life, premiato anni fa alla Mostra del Cinema di Venezia: vi riconcilierete con la vostra vita e il vostro mondo. Il degrado delle nostre città vi sembrerà oro rispetto a quello cinese, mostrato dall’orrendo film. Vedendo quel film ambientato tra i terùn del sud cinese, riacquisterete fiducia e stima nell’Europa, nell’Italia, in Scampia. E perfino nel cinema italiano. Dateci Scamarcio.

Negli anni la Cina ha continuato a spaventarci per la crescita esponenziale della sua popolazione, il maocapitalismo, le fabbriche organizzate come eserciti, l’inquinamento pazzesco che accompagna la sua industrializzazione e ammorba le sue città. Nel frattempo l’incubo cinese diventò commerciale, fregavano i nostri prodotti perché loro li riproducono a prezzi stracciati; i grossisti compravano mille tappeti persiani made in China al prezzo di uno solo, le loro manifatture coi lavoratori pagati quasi niente e disposti a lavorare sedici ore al giorno stipati in un sottoscala dove producevano, mangiavano, dormivano, copulavano e defecavano. Aziende chiuse, lavoratori nostrani sul lastrico per via della concorrenza cinese che sbaraglia tutto e tutti. Prodotto cinese fu sinonimo di merce a prezzo basso, altamente tossica e nociva per la salute e i bambini ma imbattibile. Nei loro mercatini trovi tutto, seppur scadente. Cominciarono a fiorire da noi quartieri di China Town, dove la gente non moriva mai perché si tramandavano le carte d’identità, secondo una vulgata diffusa. E poi i ristoranti cinesi, su cui si narravano truculente storie di cani e gatti trucidati, carni avariate, igiene pessima.

Sotto casa mia c’era un cinesino che tutti chiamavano Eulo; era il suo nome d’arte perché vendeva tutto a un euro (in cinese eulo). Se vai a Prato, la città più cinese d’Italia, ti spaventi a vederli crescere a dismisura e la consideri una nemesi dello sconsiderato gesto del pratese Curzio Malaparte che regalò la sua esclusiva, spettacolare villa a Capri alla Repubblica popolare cinese.

La Cina detiene ancora i record mondiale d’inquinamento, pena di morte e comunismo totalitario. La Cina è sempre esagerata. Dopo la Sars, la sindrome respiratoria acuta, ora ci arriva dalla Cina il coronavirus, corredato d’inquietanti notizie, decessi e omertà, più serpenti, pipistrelli, virus nati in laboratori militari e altre leggende metropolitane raccolte e ingigantite dalla rete. Con tutti questi precedenti, il campo delle opzioni a nostra disposizione si restringe: arrendersi ai cinesi e consegnare loro chiavi in mano l’Europa; dichiarare guerra alla Cina ma sono troppi, sfuggono da ogni parte e non ce la fai ad accopparli. O più modestamente scappare appena vedi un cinese, seppure con la mascherina, o appena senti un suo starnuto letale. Barricarsi in casa, negarsi ai luoghi affollati, vivere da eremita per timor cinese. Lo fanno in molti.

Tutto questo lo dico non per giustificare la paura o come impropriamente si dice, il razzismo nei confronti dei cinesi, e nemmeno per maledire la Cina ma per dire che non da oggi abbiamo paura dei cinesi, del comunismo cinese, del contagio cinese, della violenza cinese, del commercio cinese, del sovraffollamento cinese, dell’inquinamento cinese. L’incubo cinese. Morale della favola? Non c’è: volevo sdrammatizzare il pericolo cinese ma alla fine l’ho aggravato.

MV, La Verità 9 febbraio 2020

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