I viaggi statici

Condividi su:

 

La quarantena imposta dal virus e la paralisi globale ci costringono a rinunciare ai viaggi e a riscoprire il fascino coatto dell’immobilità. Ma a pensarci bene la pelle del viaggiare è il movimento ma il cuore del viaggiare è l’immobilità. Noi che viviamo correndo, e viaggiamo divorando spazi, in un volo di dodici ore siamo costretti a riscoprire l’antica pazienza del tempo immobile, le ore interminabili dello stare, il prodigio di una lentezza del tempo mentre lo spazio scorre con una velocità prodigiosa. Tutto appare fermo nel lungo navigare tra i continenti di un Boeing, come se a pilotarci fosse Zenone di Elea; è come se fosse il mondo a muoversi, a mutare, per offrire al nostro sguardo immutabile emisferi per noi insondati.

Accade anche in terra, per strada, di scoprire che l’essenza del viaggio è l’immobilità. Mentre correte in autostrada, superate e siete superati da altri corpi viaggianti, dalla sfuggente identità; ad un tratto siete costretti a rallentare e poi a fermarvi, e restare bloccati per ore, in una di quelle code vacanziere ora frequenti, fino a passare dalle luci del giorno a quella della sera. Un paesaggio di oggetti e soggetti si rianima, riprende cuore e sembianze. Sagome di vita lambite in velocità diventano esistenze vere, schiudono i loro abitacoli, scendono dalla loro volatilità e prendono corpo. Nel Viaggio Immobile si rivedono gli uomini, affiorano cenni di convivialità prima negati dalla velocità, segni umani di disappunto e di sofferenza; si ritrovano affetti e bisogni. In quei momenti ti ripassa davanti la vita, velocemente, e ti sorpassa accennando un saluto; ti scorrono le cose che hai lasciato marcire nella scatola nera del tuo cervello. Mentre stai seduto nell’abitacolo o su un guard-rail, sfrecciano i grandi e piccoli eventi che hanno riempito e vuotato la tua vita, e tu cerchi inutilmente di inseguirli o di fermarli allo sguardo. Avevi fretta di arrivare, temi che ormai sia troppo tardi e ti struggi dall’ansia di non essere là; poi lentamente cadono le cataratte dell’apprensione, i pensieri ancheggiano acquistando una calma andatura e magari pensi che qualcosa o qualcuno abbia voluto sottrarti all’incontro, salvandoti. O forse per temprarti nella prigione di un’autostrada, incatenato a una fila di auto che ti costringe a riflettere, a confrontarti con altre impensate occasioni di vita.

Il viaggio che mi fece più sognare è quello che immaginai osservando una pittura sulla parete di fronte al mio letto: su una banchina pulsante di vita un bambino vestito alla marinara, con la mano alla madre, saluta una nave che salpa o che approda, non so, figurando la memoria di un luogo eccezionale, di Indie misteriose, offerta alla dolcezza domestica, quasi materna, di un porticciolo festoso. Il tranquillo molo di una domenica borghese e lo stupore esotico dell’avventura, un intreccio di prossimità e lontananza. Quel viaggio che non feci mi ha dato più emozioni di ogni altro realmente compiuto. Hanno ragione Salgari e Xavier de Maistre, viaggiatori statici.

Nell’attesa paziente che si aprano le porte di un vagone letto, si avvicinò un attore e raccontò che nonostante i disagi, ama viaggiare nella carrozza dei letti perché da bambino suo padre gli raccontava il mito di dormire viaggiando, di sognare cullati dal sussulto ritmico del treno, con i suoi passaggi di binari. E così pensando alla magica notte in treno, si addormentava vicino a suo padre e sognava viaggi dalla meta imprecisa a bordo di treni infiniti. Suo padre in vagone letto non c’era mai stato, modesti erano i suoi mezzi e più modeste le ragioni di spostarsi da casa; ascoltava quel sussulto di treno solo dal letto di casa, non lontano dalla ferrovia, e immaginava come dovesse essere bello addormentarsi in quella casa viaggiante. Per un sogno riflesso, a suo figlio era rimasto il piacere di viaggiare in vagone letto; per il mito d’infanzia che preludeva ad un sonno di favola, per il ricordo dolcissimo di una voce paterna che lo accompagnava nella carrozza del sogno; e per offrire a suo padre medesimo, a corsa finita, di accedere tramite il figlio a quel sogno mai realizzato. In quel tenero ricordo rividi le mie sere bambine nel lettone, quando mio padre raccontava le medesime cose al passaggio di un treno, col suo misterioso ondeggiare e sbuffare, e poi il suo lento disperdersi nel silenzio della sera. Anche lui non aveva mai viaggiato in vagone letto. Allora viaggiavo da fermo, nel letto di casa; ma ho conosciuto più mondi in quella onirica immobilità di un metafisico treno, che nei viaggi adulti compiuti davvero.

Ad uno sguardo bambino l’incanto del viaggio è anche un semplice finestrino che muta paesaggi, e ancora di più lo sguardo al mondo che lasciamo alle spalle dal lunotto di un’auto, dove la sorpresa del nuovo si unisce all’addio del paesaggio trascorso, che smoriva alla vista. Perfino un cruscotto di legno pieno di lucciole, come apparivano allo stupore infantile le spie luminose che brillavano la sera in una mitica topolino, accendeva la magia del viaggiare. O la pioggia che scroscia sulla lamiera e tambureggia sulla cappotta, e noi riparati a vedere il mondo che annega, a goderci lo spettacolo dell’universo che strepita e piange, seduti al sicuro nell’occhio del ciclone. O l’euforia ragazza di una notte di primavera passata all’addiaccio in attesa di un pullman per la gita scolastica; e poi il ritrovo, la partenza gioiosa, le azzurre luci discrete del pullman di notte, gli sguardi in penombra, gli approcci d’amore e il desiderio di non scendere mai da quel pullman e di non vedere mai spuntare l’alba del disincanto. Di queste immobilità è fatto il viaggiare. Viaggiare è un’illusione. Consoliamoci così ora che siamo carcerati.

MV, aprile 2020

DA

I viaggi statici

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *