Io credo che la verità dei fatti, anche ammesso che si accerti in quanto tale, non sia la verità. (…) La verità di quegli anni è una verità che può essere taciuta in pubblico”.
(Adriano Sofri)
Sergio Ramelli, anni diciotto, morto all’Ospedale Maggiore di Milano il 29 aprile del 1975. Il 13 marzo era stato aggredito da un commando di Avanguardia Operaia che gli aveva spaccato la testa a colpi di chiave inglese, la funesta Hazet 36. Negli Anni Settanta, tutti i militanti di destra hanno rischiato di finire così. Anch’io. Anch’io ero un fascista del Fronte della Gioventù. Anch’io entravo a scuola quando c’erano i picchetti dei katanga. Anch’io, quando sentivo urlare ”Hazet 36, fascista dove sei?” pensavo che cercassero me. Anch’io, come Ramelli, mi ero ingenuamente autodenunciato con un tema anticomunista nel compito in classe di italiano.
A me andò bene perché la professoressa mi chiamò alla cattedra e mi disse che l’avrebbe nascosto dove sapeva solo lei. Non in sala professori. Voto sette e mezzo, ma fu tutto merito di Giorgio Pisanò, di cui copiai quasi alla lettera un articolo uscito su “Candido”. Era la primavera del 1976.
L’anno prima, per un tema simile finito in mano agli studenti dell’Istituto Molinari di Milano, uno dei covi del peggior estremismo di sinistra della città, Ramelli era stato processato pubblicamente, più volte picchiato, insolentito, vessato, tanto da dover cambiare scuola. Venne aggredito assieme a suo padre persino quando andò a ritirare i documenti necessari al passaggio in un nuovo istituto. Se la videro brutta anche i pochi professori e il preside che tentarono una minima difesa di quel fastidioso alieno che finalmente toglieva il disturbo. Se uccidere un fascista non era un reato, e per molti probabilmente non lo è ancora, figuriamoci picchiarlo.
Non ho mai smesso di pensare alla coincidenza del tema scritto in classe, della necessità di cambiare strada per andare a scuola, per tornare casa o per andare al “Fronte” in via Locatelli a Bergamo. Ricordo il timore dei miei genitori, in particolare di mio padre, che però non poteva lamentarsi più di tanto perché era stato lui il primo a farmi leggere il “Candido” e il “Borghese”.
Il 29 aprile 1976, primo anniversario della morte di Sergio, entrai a scuola durante l’ennesimo sciopero e l’ennesimo picchetto per farmi interrogare in fisica. Uscii prima del tempo perché le lezioni furono sospese e, alla stazione delle corriere, trovai mio padre che mi caricò in auto e partì subito per tornare a casa: “A Milano hanno ucciso un consigliere provinciale del Movimento Sociale”. Questa volta non si trattava di un ragazzo, il morto era l’avvocato Enrico Pedenovi, che nel pomeriggio avrebbe dovuto partecipare alla commemorazione di Ramelli. Appena avuta la notizia, mio padre aveva lasciato l’officina per venire a cercarmi e portarmi via. Questi erano gli Anni Settanta, anni di piombo in cui morirono anche tanti giovani di sinistra. Ma uccidere uno di noi non era un reato.
Ho parlato di me, ma questa era la vita di tutti i militanti di destra, per i quali non era previsto il rispetto perché non erano uomini: erano solo topi di fogna. Era la vita di Sergio Ramelli ed è stata anche la sua morte, come quella di tanti altri camerati. Uso la parola “camerati” senza prenderne le distanze neanche tanti anni dopo. Per lui, dopo la persecuzione quotidiana, si è compiuto tutto fra il 13 marzo, quando lo assalirono sotto casa in via Paladini, e il 29 aprile 1975, quando morì nell’ospedale milanese. La banda assassina era formata da studenti della facoltà milanese di medicina: otto a presidiare la zona e due a picchiare fino a quando la vittima rimase a terra senza più muoversi.
Naturalmente non fu concesso il corteo funebre, naturalmente non ci fu il minimo segno di cordoglio da parte del cosiddetto “arco costituzionale”, naturalmente fu tutto considerato come una legittima azione antifascista negli ambienti della sinistra estrema e non. Naturalmente, uccidere un fascista non era un reato: “Hazet 36, fascista dove sei?”
Ma la persecuzione non terminò con la morte del topo che aveva osato uscire dalla fogna. I muri di Milano e di tutta Italia si riempirono di scritte che dicevano, “1, 10, 100 Ramelli” a cui molti aggiungevano “Con la riga rossa tra i capelli” facendo sobrio riferimento al cranio che gli avevano rotto. Per anni la famiglia ricevette telefonate e lettere anonime nelle più delicate delle quali si diceva alla signora Anita, la madre di Sergio, che una scrofa poteva solo partorire un maiale. Il fratello, Luigi, che non si occupava di politica, fu terrorizzato da aggressioni e minacce e costretto ad allontanarsi da Milano. La sorella di nove anni poteva andare a scuola solo con la scorta. Il padre morì per infarto.
Tutto senza che la cosiddetta società civile avesse da eccepire, perché uccidere un fascista non era un reato. Tutto nel silenzio omertoso di una sinistra in cui tutti sapevano, ma nessuno parlava, come per decenni è avvenuto nel triangolo della morte in Emilia. Però qui si era nella civilissima Milano, capitale morale di un’Italia marcia, dove la sinistra che conta coincideva con la buona, buonissima borghesia, fatta di medici e giornalisti in carriera, avvocati e architetti di grido, ingegneri e magistrati in voga. Ovviamente democratici, antifascisti e intoccabili.
Solo dieci anni dopo, in seguito alle rivelazioni di Sergio Martinelli, Michele Viscardi e Maurizio Lombino, tre pentiti della colonna bergamasca di Prima Linea che in città conoscevamo fin troppo bene, vennero a galla i nomi dei partecipanti all’agguato. I primi arresti furono disposti dai giudici istruttori Guido Salvini e Maurizio Grigo nel 1985. Il processo, che si occupava anche del sanguinoso assalto al bar milanese di Largo di Porto di Classe, iniziò nel 1987 e vedeva imputati persone divenute importanti in città, quasi tutte passate da Avanguardia Operaia e Democrazia Proletaria: i medici Marco Costa, Giuseppe Ferrari Bravo, Claudio Colosio, Franco Castelli, Luigi Montinari, Walter Cavallari, Claudio Scazza, la ricercatrice Brunella Colombelli, Giovanni Di Domenico e Antonio Belpiede, divenuto capogruppo del Pci a Cerignola. Di Domenico fu assolto per insufficienza di prove e Cavallari dichiarato estraneo ai fatti. Costa e Ferrari Bravo, riconosciuti come coloro che materialmente colpirono a morte Ramelli, vennero condannati a 15 anni di reclusione e gli altri a pene minori, tutti per omicidio preterintenzionale. In appello fu accolta la richiesta di mutare l’accusa in omicidio volontario, ma le pene furono sensibilmente ridotte, sentenza confermata dalla Cassazione.
Dopo l’arresto dei colpevoli e per tutta la durata del processo, la famiglia Ramelli tornò in un nuovo girone infernale di persecuzioni e minacce. Ma per comprendere quale fosse il clima di quegli anni e quale fosse l’ambiente che lo manipolava, è bene lasciare la parola al giudice Salvini, uomo di sinistra, intervenuto nel 2015 a un ricordo di quei fatti organizzato dal circolo “Ordine Futuro” di Milano.
“Quando il collega Maurizo Grigo ed io riprendemmo in mano quell’indagine semi-abbandonata l’unica pista presente negli atti svolti, assai pochi, portava a quello che si poteva definire un episodio pre-terroristico. (…) Non fu un’indagine facile e non fu facile rompere il muro di omertà che si era creato intorno a quell’omicidio. Quegli studenti, divenuti ormai col tempo medici affermati, appartenevano quasi tutti alla buona borghesia milanese. Uno di essi era addirittura il fratello del segretario milanese di Magistratura Democratica che si trovava accanto a lui, in casa, al momento dell’arresto. (…)
Capimmo solo dopo aver scoperto i colpevoli il significato di qualche ‘vocina’ che ci aveva suggerito di ‘lasciar perdere’ quel vecchio caso irrisolto. E, dopo gli arresti, io e il collega fummo accusati dal mondo di cui avevano fatto parte quei giovani di aver condotto un’azione ‘repressiva’ come se gli omicidi dovessero distinguersi per il colore politico della vittima. Eravamo dei giudici ‘reazionari’ che pretendevano di processare il ’68.
Nessuno dei suoi coetanei che avevano ucciso Sergio Ramelli aveva avuto, dopo quello scempio, una crisi di coscienza che lo portasse a costituirsi. Nessuno di essi si consegnò e tutti fecero prevalere una scelta ideologica di protezione del proprio mondo di riferimento, un mondo che avrebbe riportato un danno politico dalla scoperta degli autori dell’agguato. Se si fossero invece consegnati la confessione in quel momento storico e l’attenzione che ne sarebbe seguita sulle conseguenze della scelta della violenza come metodo di lotta politica avrebbero contribuito a far riflettere e forse a limitare nuove violenze che invece per anni proseguirono. (…)
Del resto l’omicidio di Sergio Ramelli non fu un ‘errore’ enemmeno fu giudicato tale dall’area politica che ne era stata l’istigatricee la responsabile. Sui muri di Milano anzi comparvero per anni a vernice rossascritte con espressioni, che non voglio qui ripetere, che inneggiavano alla fine di Ramelli e nei cortei, ritmato da centinaia di voci, si udiva lo slogan ‘1-10-100 Ramelli’. Non vi fu quindi alcuna riflessione ma piuttosto una lugubre rivendicazione collettiva da parte dell’estrema sinistra.
Qualche mese dopo gli arresti per l’omicidio di Sergio Ramelli, nel dicembre 1985, fu scoperto, del tutto casualmente, in un abbaino di viale Bligny l’archivio della struttura di ‘informazione’ di Avanguardia Operaia, aggiornato costantemente a partire dall’inizio degli anni ‘70 e abbandonato all’inizio degli anni ‘80. Accanto a documenti contenenti informazioni anche di prima mano sull’eversione di sinistra e quella di destra vi erano, in cartelle e contenitori, migliaia di schede su giovani e militanti di destra, le loro fotografie e i loro indirizzi, tra cui quelli del fratello di Ramelli (che non faceva politica) le loro abitudini e i luoghi frequentati, documenti d’identità e agendine sottratte durante aggressioni e addirittura i verbali di alcuni ‘interrogatori’ condotti all’interno di alcune scuole da militanti del servizio d’ordine dell’organizzazione su giovani ritenuti di destra. L’archivio, allegato agli atti del processo faceva capire, qualora ve ne fosse ancora bisogno, che azioni simili a quella consumata nei confronti di Ramelli non erano frutto di una decisione occasionale o istintiva ma di un capillare controllo sul territorio attuato, in forma sempre violenta, da quella già ho già chiamato una ‘polizia parallela’ che agiva in nome dell”antifascismo’: ovunque fosse possibile l’obiettivo era quello di una ‘pulizia ideologica’ condotta nei confronti del ‘nemico’, molto spesso rappresentato non da estremisti pericolosi ma da semplice ragazzi con idee ‘non consentite’”.
Per completare il quadro, non ci si può esimere dal riascoltare questo brano dell’arringa dell’avvocato Gaetano Pecorella, che in seguito diventerà presidente della Commissione Giustizia alla Camera per conto di Forza Italia. Pecorella difendeva gli imputati dell’assalto al bar i Largo Porto di Classe nello stesso processo per l’omicidio Ramelli e giustificò così l’azione del commando rosso: “Quando i diritti di una comunità non vengono realizzati, la comunità ha il diritto di riappropriarsi di quei diritti: in quel caso togliere spazio e agibilità ai fascisti non è un reato, ma la legittima applicazione di un principio costituzionale. Come si vede, dunque, in questo contesto anche assaltare un bar poteva avere un fine di alto valore sociale”.
In un’intervista rilasciata a Gad Lerner per “L’Espresso” del 6 ottobre 1985, il segretario di Democrazia Proletaria Mario Capanna diceva: “L’assassinio del giovane fascista fu un tragico errore. Di fronte a tutte le stragi e agli assassini rimasti impuniti, un magistrato vuol far luce dieci anni dopo. Mi chiedo se l’inchiesta non sia destinata a produrre più ingiustizia che giustizia. Penso anzitutto agli arrestati e alle loro famiglie, e penso all’attacco portato a Dp, l’ultima rimasta a disturbare il manovratore. Ma la storia non si scrive con il codice Rocco e le leggi speciali”.
Per rispondere al processo agli assassini di Ramelli, Democrazia Proletaria, organizzò un convegno a Milano intitolato Le vere ragioni, i cui atti furono pubblicati dall’editore Mazzotta. Tranne Miriam Mafai, Claudio Petruccioli e il deputato radicale Gianluigi Melega, tutti furono completamente solidali con gli accusati. Adriano Sofri, come sempre il più sulfureamente lucido, disse tra l’altro: “Io credo che la verità dei fatti, anche ammesso che si accerti in quanto tale, non sia la verità. Vorrei fare un piccolo elogio del linguaggio allusivo e dell’ambiguità: io credo che senza l’ambiguità si elimina la possibilità della comunicazione reale tra le persone e resti solo la comunicazione giudiziaria. La comunicazione giudiziaria è in grado di accertare la cosiddetta verità dei fatti, però la verità di quegli anni è una verità che non può essere afferrata univocamente e in alcun modo. La verità di quegli anni è una verità che può essere taciuta in pubblico – infatti fatico molto a parlare di questi argomenti, è un vero problema – oppure espressa in altre forme; può essere espressa da un romanzo, se arriverà”.
Ancora una volta, l’ex leader di Lotta Continua stava un passo avanti a tutti e aveva dato forma compiuta al modo in cui Milano, che ormai era divenuta quella da bere mantenendo sempre la sua anima di sinistra, maneggiava l’omicidio di Sergio Ramelli: la verità non può esistere e, se anche esistesse, non direbbe veramente il vero e dunque va pubblicamente taciuta. Alla radice di questo pensiero ci sono una inequivocabile pulsione gnostica, un tratto esoterico e iniziatico così potenti da governare il silenzio collettivo di una città e poi di un intero Paese che è difficile chiamare Nazione.
Questo pensiero e la prassi che ne segue non sono stati sconfitti dalle confessioni degli assassini e dalle sentenze. Ancora oggi, a 45 anni di distanza, ci si sente in dovere di non ascrivere alla storia l’omicidio di un ragazzo inerme, che mai aveva commesso un gesto di violenza. La sua morte deve essere ancora interpretata e i suoi carnefici non debbono più essere legati alla memoria di quei fatti.
È notizia di nemmeno due settimane che il dottor Claudio Colosio, responsabile dell’unità operativa ospedaliera di medicina del lavoro all’ospedale San Paolo di Milano, è stato escluso dal comitato tecnico scientifico per il rilancio della Lombardia dopo il Coronavirus in quanto condannato per l’omicidio di Ramelli. Commentando il fatto su “Libero” del 18 aprile, Renato Farina riesce obliquamente a dire che, sì, una volta appurata la questione era opportuno rimuovere il dottor Colosio dal comitato. Ma solo per per evitare inutili gazzarre, perché in realtà si tratta di un’ingiustizia: “un uomo non può essere marchiato per sempre, fin nel fondo della sua anima, da un atto efferato ma per cui ha pagato il conto con la società. Come molti altri più di me (ricordo Italio Pilenga che ebbe i suoi cari sterminati gratuitamente dai partigiani) ritengo debba prevalere il desiderio di riconciliazione”.
Renato Farina dimentica che, per quanto abbia pagato il suo debito con la società, un uomo che ha ucciso un suo simile rimarrà per tutta la vita un assassino proprio “fin nel fondo della sua anima”, perché lì non c’è nessun giudice terreno che lo possa assolvere. E, in ogni caso, chiunque è titolato a chiedergliene conto: qui sulla terra e persino il Buon Dio nel giorno del Giudizio, anche se il dottor Colosio, non so Renato Farina, magari non ci crede. La pacificazione non passa attraverso l’oblìo, ma attraverso il ricordo, che può essere abbandonato al tempo soltanto dalle vittime. Mai dai carnefici.
Proprio a questo proposito, nel suo articolo, Renato Farina riesce a dare il peggio. Con fare ancora più obliquo e melmoso, lascia intendere che la signora Anita Ramelli non ha fatto cosa buona negando il perdono agli assassini del figlio. Colosio, ci informa Farina “chiese perdono senza ottenerlo dalla signora Anita, mamma di Sergio, che dopo l’agonia di 48 giorni del figlio non smise mai di battersi per ottenere giustizia, ed è deceduta il 23 dicembre del 2013. È un diritto individuale non perdonare”.
Nel 1997, Anita Ramelli disse in un’intervista: “Io non ho mai chiesto vendetta, ma giustizia. Ho avuto fiducia, nonostante tutto, nella magistratura. Ho sofferto in silenzio aspettando che un giorno mi portassero la notizia ‘Anita, li hanno presi’. Sergio ormai è morto, nessuno può ridarmelo, ma sono andata in aula, al processo, anche per lui, perché fosse fatta giustizia fino in fondo. Un delitto così non poteva restare impunito anche dopo tanti anni. Insomma, non fu una baruffa tra ragazzi, ma un agguato premeditato. Lo ammazzarono in pieno giorno, qui davanti a casa”. E poi, la signora Anita doveva difendere il figlio dalla macchina del fango messa in moto per sporcarne la memoria e attenuare di conseguenza la colpa dei suoi assassini. Salvo rare eccezioni Sergio venne dipinto da tutta la stampa, “Avvenire compreso” si stupì il giudice Salvini, come un picchiatore nero, una sorta di terrorista senza pietà che raccoglieva quanto aveva seminato. Pochi ebbero il coraggio di dire che la sua militanza consisteva nel distribuire volantini e attaccare manifesti e che la domenica faceva servizio all’oratorio.
La richiesta di perdono a cui si riferisce Farina è una lettera del 1986 firmata da Franco Castelli, Luigi Montinari, Claudio Colosio, Claudio Scazza e Walter Cavallari in cui si dice, tra l’altro: “Lo scopo di questa lettera è quello di aprirci con Lei e con i Suoi familiari, con quanti sono stati vittime del nostro gesto. Molti di noi oggi hanno figli e quindi possono ancora meglio capire la Sua sofferenza di allora e di adesso nel ricordo di quei tragici momenti. Può capire il bene che ci lega ai nostri familiari e ai nostri figli; la loro lontananza, che pure abbiamo accettato, e che alcuni di noi tuttora accettano, la separazione dai nostri figli, che pure sappiamo sani e speriamo ingenuamente sereni, ci fanno ancora più comprendere, pur con le dovute differenze, l’abisso di disperazione che l’ha accompagnata in questi anni”.
Chi sono io per giudicare? Non certo Renato Farina e non giudico la sincerità di quella lettera. Prendo atto che venne scritta dopo undici anni di silenzio corrotto dalla collusione soltanto quando la verità, nonostante Adriano Sofri, aveva almeno fatto capolino. “Colosio non si nascose più”, dice Renato Farina con tratto quasi comico se non fosse tragico. Ma prima cosa aveva fatto? Prima cosa avevano fatto gli altri della banda e tutto l’ambiente che li proteggeva?
“Avessi ricevuto prima quella lettera,” ha detto la signora Ramelli “una lettera anche anonima, anche solo due righe in dieci anni, anni di ferite, mi avrebbe aiutato molto… mi avrebbe aiutato a tirare avanti… Ma l’hanno scritta dieci anni dopo che erano stati arrestati e che la verità era venuta alla luce. (…) Poi arrivò la raccomandata con l’offerta di risarcimento danni. Quando l’ho ricevuta ho sofferto tanto, sono tornata indietro nel tempo. Ho pianto per tre giorni quando l’ho letta. Non so, forse è una prassi offrire soldi ai familiari di qualcuno che è stato ammazzato, ma io quei soldi non li ho voluti”.
Queste non sono le parole di una una donna che rifiuta il perdono, sono le parole di una madre che accetta la sofferenza con dignità. E poi non si trattava semplicemente di perdonare le persone che le avevano ucciso il figlio. Alla signora Ramelli veniva chiesto di perdonare l’aggressione collettiva a cui Sergio e la sua famiglia sono stati sottoposti per anni. Veniva chiesto di perdonare l’idea di occultare la verità teorizzata da Sofri. E questo nessuno lo può e lo deve fare. Ma tutto questo Milano non lo sa.
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