Taiwan ha sconfitto il Covid-19. Ma il suo modello imbarazza l’Oms

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Un successo che imbarazza il mondo. È questo il peso che Taiwan è costretto a sopportare da quando ha iniziato la sua battaglia contro il nuovo coronavirus. La piccola isola, considerata dalla Cina una “provincia ribelle”, ha dato una lezione al pianeta intero. Anche a quei governi che non la riconoscono da un punto di vista diplomatico preferendole Pechino.

I numeri d’altronde parlano chiaro. L’ultimo bollettino dei contagi è emblematico: appena tre nuovi casi per un totale di 385 e appena 6 decessi. Come ha fatto Taiwan a ottenere simili risultati? Innanzitutto Taipei si è mossa subito con prontezza, senza perdere tempo in inutili formalismi burocratici. Dopo di che la sua macchina organizzativa ha funzionato alla perfezione, ricordando, per efficienza, il modus operandi sudcoreano.

Repubblica ha sottolineato come Taiwan abbia 24 milioni di abitanti (cioè poco meno del Nord Italia) e soltanto pochi centinaia di pazienti infetti. Come se non bastasse, l’isola si trova a due passi dalla Cina, Paese dal quale è partita l’epidemia di Covid-19. Dulcis in fundo, Taipei ha saputo gestire la crisi sanitaria senza ricorrere ad alcun lockdown.

La ricetta di Taiwan

Scuole, negozi, aziende. Niente si è fermato a Taiwan, il cui modello di contenimento dovrebbe essere analizzato al pari di quello messo in campo da Corea del Sud e Cina. Eppure il successo di Taipei è eclissato dalla storia di questo stesso Paese. Taiwan è la Cina democratica, la stessa la cui indipendenza non è riconosciuta dalla Repubblica Popolare cinese e da quasi tutte le nazioni, a eccezione di una ventina di governi. La “provincia ribelle”, inoltre, non fa parte neppure dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), sempre per i veti di Pechino.

Tralasciando la geopolitica, vale la pena concentrarsi sulla ricetta del successo costruita da Taiwan. Lo scorso 31 dicembre il Paese ha iniziato a monitorare i viaggiatori provenienti da Wuhan; l’8 febbraio ha invece chiuso i confini ai cittadini cinesi. Taipei ha poi delegato il tutto a un Centro di comando anti epidemia, che ha avviato i protocolli creati dopo l’emergenza Sars, epidemia scoppiata a cavallo tra il 2002 il 2003.

Senza indugi, le misure sono state comunicate ai cittadini. Le aziende hanno ricevuto l’ordine di incrementare la produzione di mascherine; applicazioni e big data hanno fatto il resto, tracciando i soggetti contagiati e controllando che i pazienti a rischio restassero chiusi in casa. Morale della favola: pochi casi e niente quarantene di massa.

L’imbarazzo dell’Oms

Di fronte al successo sanitario di Taiwan, l’Oms è sembrata in imbarazzo. Come riconoscere di fronte al mondo intero gli ottimi risultati conseguiti da Taipei nella lotta contro il Covid-19 senza scatenare le ire di Pechino? Difficile se non impossibile. E allora giù il sipario sulla “provincia ribelle”.

Nel frattempo l’Oms è finita nel mirino dei media americani e degli stessi Stati Uniti. Il motivo? Essere troppo sinocentrica. Tra le tante accuse mosse nei confronti di questa organizzazione c’è il peccato madre di non aver dichiarato all’istante l’epidemia di nuovo coronavirus un’”emergenza sanitaria internazionale”. A detta di molti esperti, così non è stato fatto “per non fare un torto a Pechino”.

Dal canto suo il governo di Taiwan ha accusato l’Organizzazione mondiale della sanità di non aver risposto tempestivamente alle sue richieste di chiarimento. Per Taipei, l’Oms “gioca sulle parole” e non ha fornito le risposte sulla trasmissibilità del virus fra le persone. Secondo Taiwan, questo approccio l’ha privata delle informazioni indispensabili. Ricordiamo che a marzo Taipei ha detto di non aver ricevuto alcuna risposta dall’OMS a una richiesta di informazioni sull’epidemia di Wuhan, il 31 dicembre, compresa la possibilità di trasmettere il virus tra le persone. L’Oms si è difesa dicendo che l’e-mail ricevuta non menzionava la trasmissione da uomo a uomo.

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