Rastrellamenti, lager, cavie umane: le vittime italiane di Churchill

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Segnalazione del Centro Studi Federici
A partire dall’unità d’Italia, migliaia di famiglie della Penisola dovettero cercare un lavoro (non un soggiorno a carico del paese ospitante) all’estero con la speranza di vivere decorosamente. Molti di coloro che si trovavano nel Regno Unito all’inizio della seconda guerra, furono vittime dei rastrellamenti ordinati da Churchill, destinati ai lager nelle isole britanniche o usati come cavie nei lager in Australia; 450 di questi prigionieri morirono nell’affondamento della nave “Arandora Star”.
A differenza di altri casi simili (rastrellamenti, lager, cavie umane) queste vittime delle atrocità belliche non hanno ottenuto una memoria storica per essere adeguatamente commemorati. Il 60° anniversario dell’affondamento della nave ha permesso di ricordare questa pagina criminale della storia britannica.
 
“Tutti i maschi tra i 17 e i 70 anni, per ordine di Churchill, devono finire dietro al filo spinato dei campi di concentramento. Li rastrellano nelle case, nei negozi, nei ristoranti dive lavorano. Ne prendono a migliaia, a Londra, in Galles, in Scozia, che già allora erano le comunità più numerose. Li conoscevano, sanno dove stanno, sono cresciuti con gli inglesi. Spesso ad arrestarli sono poliziotti amici, che a volte piangono, portandoli via. Sono andati nelle stesse scuole, frequentato le stesse chiese” (La Stampa del 2 luglio 2020)
Gli ottocento italiani deportati da Churchill 
Il premier inglese caricò su una nave centinaia di nostri connazionali innocenti sospettati di essere spie del Duce. I tedeschi silurarono il vascello diretto in Canada e morirono in 450. Gli altri usati come cavie
Fu la prima grande strage di italiani dall’inizio del conflitto e uno dei maggiori eccidi di civili del nostro Paese in tutta la guerra. Eppure è rimasta a lungo relegata nel silenzio, inabissata nei fondali dell’oblio, oltreché in quelli del mare, dove si compié il massacro. Chi oggi sentisse parlare di “tragedia dell’Arandora Star” farebbe una faccia perplessa chiedendosi di cosa si tratti. A rimediare a questa rimozione giunge il docufilm di Pietro Suber «Lili Marlene – La guerra degli italiana». Il giornalista e regista, a 80 anni dall’ingresso dell’Italia nella guerra, racconta il periodo bellico attraverso un quadruplice approccio: raccoglie le voci e i volti di cittadini comuni, testimoni diretti o parenti di quanti hanno sperimentato sulla propria pelle le brutalità del conflitto; fa emergere i ricordi di personaggi della politica e dello spettacolo, da Napolitano a Gianni Letta, da Baudo ad Avati, da Arbore alle gemelle Kessler, che narrano aneddoti in cui sono stati coinvolti in quegli anni. Ancora, documenta, con onestà intellettuale, le ragioni di tutti, vincitori e vinti, illustrando errori e responsabilità individuali sull’uno come sull’altro fronte. Da ultimo, recupera, con un preziosissimo lavoro di scavo, vicende poco note al grande pubblico, volutamente rimosse o colpevolmente trascurate. Tra queste spicca la storia dell’Arandora Star. Il nostro Paese è da poco entrato nel conflitto, quando Churchill inizia a dare la caccia agli italiani trasferitisi in Gran Bretagna, al suon di «Acciuffateli tutti». Per il primo ministro britannico i nostri compatrioti che vivono Oltremanica sono tutti potenziali spie, fascisti occulti. In realtà, a parte le dovute eccezioni, moltissimi di loro sono ebrei e antifascisti. Ma Churchill preferisce fare di tutta l’erba un fascio: gli italiani, in quanto tali, rappresentano minacce per il regno di Sua Maestà. E, come tali, vanno arrestati e internati.
PRIGIONIERI
Già nei primi giorni dopo il 10 giugno 4.000 nostri connazionali vengono privati della libertà. Il 1° luglio è la svolta: oltre 1.500 persone, di cui 815 italiani, vengono caricate a bordo della Arandora Star, un’ex nave da crociera trasformata in vascello per il trasporto prigionieri. L’imbarcazione si muove da Liverpool in direzione decampo di internamento per gli “stranieri nemici”. Il giorno seguente tuttavia, quando è allargo delle coste irlandesi, la nave viene intercettata da un sottomarino tedesco che sferra un siluro in sua direzione. È la tragedia: vengono centrati a pieno i motori e la Arandora cola a picco. Riesce a salvarsi solo la metà delle persone, dato che la nave dispone di appena 14 lance di salvataggio. Moriranno in quasi 800, di cui 446 italiani. I sopravvissuti verranno trasferiti in Scozia e poi di lì, in buona parte, in Australia, dove saranno internati e usati come cavie per testare farmaci contro la malaria.
L’INGIUSTO OBLIO
Quell’orrore a lungo è rimasto sepolto come strage indicibile: non conveniva renderla pubblica alla Gran Bretagna, che avrebbe gettato un’ombra sulla propria fama di Paese della libertà e del rispetto dei diritti civili; né conveniva raccontarla all’Italia fascista, che a meno di un mese dall’entrata nel conflitto avrebbe incrinato il mito di un regime invincibile. Anche nel Dopoguerra la tragedia è stata sottaciuta, evidentemente perché i Vincitori la ritennero storia scomoda, e come tale da rimuovere. Fortuna che, a ridarle vita, nel lavoro di Suber, ci sono le parole dei parenti delle persone coinvolte: ad esempio quelle di Graziella Feraboli, figlia di Ettore, deportato a bordo dell’Arandora dove avrebbe trovato la morte. Colpiscono le frasi secche, di sferzante verità, che lei pronunciò allora, bambina, e ripete oggi che è un’anziana signora. Appena saputo che il papà figura tra i “dispersi presunti annegati”, grida il suo dolore davanti ai funzionari del War Office britannico: «Mi state dicendo che l’avete ammazzato?». E anche adesso riconosce: «Penso che il governo inglese si sia comportato in modo indegno». Così come colpiscono le parole di Giuseppe Conti, nipote di Guido, anche lui vittima, e originario di Bardi, un paesino in provincia di Parma da cui provenivano ben 48 delle persone uccise nella strage dell’Arandora. È proprio lì che ogni anno il 2 luglio si commemorano i martiri dell’eccidio. (…)

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