L’estate è costata 20 mila morti? Ecco perché è una balla

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Il televirologo Massimo Galli non ha dubbi: senza la pazza estate italiana, avremmo contato 20 mila morti in meno. La sortita di oggi ad Agorà, su Rai 3, è solo la più recente. Ed è forse anche la più irricevibile: perché il camice bianco a reti unificate, stavolta, non si limita a puntare il dito contro i “negazionisti”, per scagionare un governo incapace. No: dà pure i numeri.

E allora guardiamoli, questi numeri, professor Galli. Perché, se osserviamo la curva epidemiologica, cioè l’andamento dei casi di Covid e dei decessi registrati dall’estate a oggi, ci accorgiamo che l’aumento sensibile scatta a fine settembre. E che la vera impennata risale a dopo la prima decade di ottobre. Certo, durante l’estate, specie nel periodo che coincideva con il picco degli spostamenti, sono stati fatti relativamente pochi tamponi. Un’altra colpa imputabile ai commissari sovietici, che centralizzano i meriti (pochi) nella gestione dell’epidemia, ma poi scaricano le responsabilità degli errori su Regioni e comuni cittadini. Un tracciamento più capillare avrebbe aiutato a individuare precocemente eventuali focolai. I più maligni potrebbero pensare che tutto sia stato tenuto sottotraccia quando era necessario far rifiatare il popolo, per poi ricominciare con i domiciliari a singhiozzo dalla stagione autunnale.

Nondimeno, i dati sulla saturazione degli ospedali e sui decessi giornalieri ci descrivono una stagione estiva trascorsa in modo piuttosto tranquillo. Quindi, se anche qualche infezione fosse sfuggita, è però indubbio che le conseguenze cliniche, nei mesi caldi, sono state molto limitate. Di nuovo, i decessi decollano dopo il 10 ottobre, fino ai lugubri picchi di questi giorni. Che, ovviamente, vengono imputati ai “comportamenti” della gente: avete fatto shopping natalizio, siete andati a vedere le luminarie a viale Ceccarini…

Ma allora, professor Galli – e tutti voi, teorici dell’estate “allegra”  – ci spiegate com’è possibile che gli effetti dei balli dei primi 15 giorni di agosto si siano sentiti due mesi dopo? Non ci avete sempre detto che bastano due settimane per registrare miglioramenti e peggioramenti? Non sarà mica che, il 24 settembre, è scattata la riapertura delle scuole? Non sarà che la grande misura profilattica assunta dal ministro dei Trasporti, Paola De Micheli, sono stati gli scuolabus con i finestrini aperti? Non sarà che i banchi a rotelle sono arrivati in ritardo, a spizzichi e bocconi – e che, probabilmente, non sono serviti a nulla? Non sarà che il ministro Lucia Azzolina, come ha rivelato Il Tempo qualche giorno fa, ha nascosto persino al Cts i veri dati sui contagi in aula? Non sarà che le persone, che devono pur arrivare alla fine del mese, hanno ripreso a recarsi in massa a lavoro in presenza, affollando, loro malgrado, i mezzi pubblici?

Alla luce di tutto ciò, non è più probabile che l’epidemia sia riandata fuori controllo quando il Paese ha provato a rimettersi in moto, ma senza un piano preciso, senza organizzazione e senza manco una rete sanitaria di protezione finalmente adeguata? Non è più probabile che il crimine peggiore dell’estate, anziché le discoteche in Sardegna e sulla riviera romagnola, o i viaggi in Croazia e in Grecia, siano state le settimane sprecate tra Stati generali, libracci di propaganda del ministro Roberto Speranza e commissari governativi che si dicevano da soli “siamo straordinari”?

La verità – e i numeri lo dimostrano – è che il governo, anziché lavorare, impegnarsi, programmare, ha buttato all’aria mesi tra passerelle e litigi. Per l’autunno e l’inverno, l’unica strategia era un “io, speriamo che me la cavo”. Non so se tutto ciò sia costato 20.000 morti. E non voglio dire che la responsabilità diretta sia della classe dirigente. Ma se il “modello Italia” è il secondo peggiore d’Europa per la mortalità calcolata sui casi di Covid, e tra i peggiori al mondo per il numero di morti ogni milione di abitanti, evidentemente qualcosa non ha funzionato. E chi pensa di dare la colpa all’estate “allegra”, o è tonto o crede di poter fare ancora il furbo.

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