di Nicola Porro
Proprio in questi giorni sono arrivati i primi 25 miliardi del Recovery fund dall’Europa, e mai come ora conviene rinfrescare la nostra memoria, davvero corta, su come li abbiamo ottenuti. Si incarica di fare questa opera di pulizia mentale, con il rigore del cronista e senza sbavature ideologiche, Leonardo Panetta, corrispondente a Bruxelles per Mediaset.
Il suo libro è Recovery Italia. Perché siamo il malato d’Europa? (edito da Mimesis e con la prefazione dell’economista Carlo Alberto Carnevale Maffè). Il punto di partenza è che l’Italia è il «malato d’Europa da tempo» e che «se è vero che la crisi innescata dal Covid è in sostanza simmetrica, nel senso di colpire tutti i Paesi europei allo stesso modo e alle stesse condizioni, per l’Italia lo shock è ancora più acuto, date le difficoltà pregresse certificate dai numeri di crescita, sviluppo e dallo stato dei conti pubblici». C’è un partito europeo che non ce lo perdona. E Panetta, senza fronzoli, ci racconta dei tanti inciampi dei vertici europei: dalla prima imbarazzante conferenza stampa della nuova presidente della Banca centrale europea che fece crollare la Borsa italiana del 17 per cento, alle improvvide dichiarazioni della presidente della Commissione che escludeva l’utilizzo dei coronabond.
Tutto cambia quando Francia e Germania, isolate e autonome, decidono in una frettolosa conferenza stampa che qualcosa si sarebbe dovuto fare: un piano da 500 miliardi e tutto a fondo perduto. Conte, all’epoca premier ed esagerato, ne chiedeva 1500, i cosiddetti frugali, non ne volevano sentir parlare. Si è arrivati dopo un lunghissimo vertice dei capi di Stato (che Panetta descrive nei dettagli) ai 750 attuali, di cui solo 390 a fondo perduto e con lo sconto sui bilanci comunitari per i frugali. L’Italia è tra i primi beneficiari, anche se superata dalla Spagna sui fondi da non restituire. La storia di questo accordo è quella di una lunga ed estenuante mediazione politica.
D’altronde su questo il corrispondente d Bruxelles che conosce fatti e persone è esplicito: sebbene «l’Europa ami proiettare un’immagine tecnica di sé, con decisioni prese solo in base a regole chiare, numeri, parametri, la dimensione politica permea le pareti delle istituzioni comunitarie. Da una parte ricordiamo che la Commissione europea è formata da 27 commissari, diciamo dei ministri europei, che vengono proposti dai singoli Stati membri, su indicazione del governo in carica nelle diverse nazioni al momento della nuova legislatura europea. Dall’altra, molte delle persone che lavorano dietro le quinte nelle istituzioni Ue hanno, in origine, uno sponsor politico».
Questo è l’insegnamento più importante di un libro pieno di notizie (a proposito, forse sarebbe valsa una piccola appendice con i calcoli esatti delle richieste finali dei fondi): dietro ai tanti tecnicismi comunitari, il lato politico delle scelte non è sempre messo nella giusta luce.
Fonte: Il Giornale 15 agosto 2021