Terra Santa – I santuari della Passione di Cristo

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Segnalazione del Centro Studi Federici

Il Santuario della Flagellazione
 
Fra i più venerandi Luoghi che ricordano a Gerusalemme i tratti principali della Passione di Nostro Signore è da annoverarsi il Pretorio dove il divin Maestro per una inesplicabile contraddizione di Pilato, il quale, quantunque poco prima lo avesse dichiarato innocente, tuttavia sperando forse che i Giudei si sarebbero mossi a pietà alla vista di tanto sangue e ferite, assoggettò Gesù alla flagellazione, pena la più crudele e vergognosa, disonorante ed infame che s’infliggeva ai soli schiavi, giacché le verghe dei littori non percuotevano mai un uomo libero.
Nella flagellazione, il paziente, spogliato delle sue vesti veniva legato ad un tronco di colonna e sotto i colpi ripetuti dei carnefici il suo corpo si ricopriva tosto di ammaccature e di piaghe profonde.
Gesù, contro ogni sentimento di giustizia e di pietà fu condannato a questo terribile supplizio da un pagano, che, pur non avendone il minimo sentore, eseguiva a puntino le profezie riguardanti la passione del Messia.
La flagellazione sul Redentore fu eseguita dai suoi nemici più spietati onde non vi sono parole per esprimerne l’atrocità.
Non è scopo di questi brevi cenni ricordare l’antichissimo culto di questo Santuario, che insieme agli altri cadde in mano dei mussulmani e lo profanarono convertendolo in usi profani ed indecorosi.
La Custodia di Terra Santa dopo varie vicende non sempre liete riuscì finalmente a ricuperarlo, restaurandolo come le circostanze lo permettevano, ed i Religiosi per custodirlo si adattarono ad abitare alcune casupole circostanti nella speranza che in tempi più o meno lontani avrebbero potuto richiamarlo all’antico splendore. Con arditezza e tenacia necessarie a grandi opere costruirono di fronte al Santuario della Flagellazione un’elegante Chiesina per ricordare il luogo dove Gesù ricevette la sentenza di morte, erigendovi a fianco un bell’Ospizio che per silenziosa tranquillità si sarebbe potuto prestare ad infermeria per i Religiosi della Custodia o a casa di studi.
Quest’ultima idea man mano prese consistenza, e nel 1927 l’Ordine dei Frati Minori vi stabiliva il corso superiore di Scienze bibliche, che rispondendo ad una sentita necessità aggiunse un nuovo lustro alla prima missione dell’Ordine qual’è la Custodia di Terra Santa.
ll Signore benedisse il nuovo Istituto biblico per cui s’impose l’ingrandimento dell’Ospizio, sia per contenere un maggior numero di studenti sia per corredare la Scuola di una grande bilioteca e di capaci saloni per museo nei quali, con gli oggetti già esistenti, venissero raccolti altri elementi scientifici ed archeologici per la più chiara e profonda conoscenza della Sacra Scrittura del vecchio e del nuovo Testamento.
Nel 1928 s’intraprese l’ingrandimento dell’Istituto le cui linee, nella loro semplicità, danno l’impressione di grandiosità, quasi significando all’esterno la pienezza della vita intellettuale e religiosa che internamente vive la Scuola.
L’ampiamento dell’Ospizio mise in maggiore evidenza la povertà del Santuario, che, sebbene devoto, tuttavia mostrava al vivo il misero suo stato cui l’avevano ridotto il tempo e i vari restauri e decorazioni di uomini non sempre felici nelle loro produzioni artistiche.
 
Com’era il Santuario
La “Terra Santa” nel suo numero d’Aprile del 1930 riepiloga così le miserevoli condizioni del Santuario « I conci sfaldati di una porta ottocentesca sormontata da ovale, tagliavano una miseranda cortina di muro senza contorni che formava tutta la facciata. Sul fianco a settentrione pezze e speroni sovrapposti alla rinfusa non riuscivano a dare un’impressione di solidità, mentre sul lato opposto verso la strada, lesene e cornici pretenziosette attestavano un restauro di cui era traccia anche nelle rovine di un chiostro dietro l’abside.
« Nell’interno era passato l’ottocento ad imbavagliare i ricordi crociati che s’intuivano più che non si vedessero; e più di recente il pennello inesorabile di un pittore imbianchino che aveva mascherato ogni cosa coi suoi finti marmi e con le pallide stelle sopra un cielo incolore. Giova non ripensare alle pitture e cornici di un dozzinale barocco elevato su i quattro altari minori di marmi policromi, e nemmeno all’arco ribassato che schiacciava l’altare maggiore senza nascondere la divergenza dell’asse dell’ambiente in quel punto. Muri e paviménto trasudavano umidità e salnitro ».
 
La restaurazione del Santuario
Se era facile constatare l’assoluta necessità di dare un assetto di assoluta stabilità e decoro al Santuario, soddisfacendo altresì all’esigenza del culto che avrebbe preso maggiore intensità per l’aumentato numero dei Religiosi, non era altrettanto facile trovarne la soluzione, che conservando l’integrità del Santuario lo rendesse degno di tal nome. Quello che accade ovunque si verifica, specialmente nel Paese di Gesù, ove ognuno e persino qualsiasi nuovo arrivato, si erige ad archeologo ed architetto o quanto meno si abbandona a critiche che bene spesso hanno per fondamento la propria incompetenza, o il paragone di un confuso ricordo di qualche costruzione del paese da cui viene (la frase si riferisce alle polemiche dell’epoca tra la Custodia e alcune congregazioni francesi, ndr).
A questa difficoltà si aggiungeva la modestia dei mezzi disponibili giacché col restauro del Santuario era annesso l’altro delle circostanti rovine e specialmente quello della cosidetta Casa d’Erode la quale con notevoli elementi ricordava un’epoca gloriosa di memorie storiche e care.
A sciogliere il non facile problema, la Custodia di Terra Santa diede l’incarico all’Architetto Ing. Antonio Barluzzi, che nella costruzione delle due mirabili Basiliche del Getsemani e del Tabor aveva trasfusa tutta la sua anima di profondo credente e di artista geniale e fecondo. E come dimostrò il restauro compiuto, ben si appose la Custodia, sicura che l’Architetto avrebbe portato ancora in questa nuova opera l’entusiasmo del suo spirito e della sua abnegazione, innestando ai pochi ricordi antichi una decorosa modernità artistico-religiosa che in pieno secolo XX sapesse disposarsi all’epoca crociata. L’impresa dei lavori venne affidata alla nuova Ditta costruttrice E. di A. De Farro, che lasciata da parte ogni idea di guadagno ancora onesto, si propose di cooperare per la riuscita di una restaurazione degna del celebre Santuario e ne affidò l’esecuzione all’Ing. Ruggero Bucciasuti che, coadiuvato dall’Assistente Filippi, penetrò il pensiero dell’Architetto, e fra mille difficoltà d’ogni genere, sciolte con rare abilità, assolse il mandato con rara intelligenza, con severa onestà condita da squisitezza di maniere.
 
I lavori e le decorazioni
Qui cediamo la parola al valoroso articolista de “La Terra Santa”. I restauri furono radicali tranne nei muri di fianco che per leggi edilizie non potevano spostarsi a favore delle umili dimensioni del Santuario, e che in certo modo ne attestavano la storia centenaria. Raschiando pitture e intonaci comparve nei pilastri e in alcuni archi e cornici l’apparecchio crociato, mentre sotto l’altare maggiore si rinvenivano le fondazioni dell’abside semicircolare. Spontanea fu l’idea di ricostruire secondo lo stile del XII secolo; ma, avendo le crociere in rovina dato luogo a volte lunettate, essendo necessario avere un presbiterio più ampio e un coro pei Religiosi, e adattarsi alle sensibili irregolarità di ogni elemento decorativo, quello stile fu seguito con una certa libertà.
La nuova facciata ci presenta quindi, entro il portale dai caratteristici conci crociati a cuscinetto e un fregio a motivo di spine, una bella porta del Gerardi, un pò delicata pur nella sua inquadratura di ferro battuto che racchiude lacunari di rame elegantemente sbalzato e graffitto coi simboli della Passione, con quelli degli Evangelisti e coi versetti che si riferiscono al Santuario. In alto, sotto un timpano a lieve pendenza, si svolge una serie di archetti poggiati su mensole di quel tipo medievale che fonde elementi crociati e saraceni, e che nel centro si apre ad arco più ampio a cingere un devoto angelo di bronzo, invitante a preghiera, dell’artista Mastroianni. Dal cortile d’ingresso può vedersi anche il fastigio del campanile lieto e sereno nella sua semplicità.
All’interno il rustico apparecchio murario fu rivestito di marmi fino all’imposta degli archi: questi lasciati in vista e in parte rifatti: le volte scarnite per ridurle a crociere, lasciate, schiette d’intonaco dal color giallo ocra dovuto alla sabbia di Ramleh: sostituiti con veri i falsi colonnini avanti ai pilastri che sorreggono gli archi, e i capitelli posticci e inadatti per dimensione e per stile rinnovati secondo un campione dell’epoca. Quattro altari laterali nobilmente modesti col cippo di pietra bianco-avorio ornato di medaglione a colore, con gradino sostenuto da mensole, sono completati da tele ogivali con figure a fóndo oro, a imitazione delle tavole trecentesche, opera del Barberis, che rappresentano la Madonna e il Discepolo prediletto, presenti di persona o di spirito ai tormenti del loro Gesù: S. Paolo che nel medesimo Pretorio si voleva fustigare: e S. Francesco che fu onorato dalle stimmate della Passione, e per mezzo dei suoi Figli conservò alla cristianità i santuari che la ricordano.
Al termine delle tre crociere, là ove s’incurvava l’arco ribassato sopra l’altare maggiore, demolite completamente le strutture del secolo, si eleva al presente su quattro arcate, simili a quelle della nave, una volta a vela, a guisa di ricco baldacchino steso sopra l’altare, ricamato in mosaico con serto spinoso che germoglia in alto ramoscelli fioriti, e in basso sparge petali misti a goccie di sangue; e intanto tralucono quiete fra le spine sedici stelle dalle tenui tinte dell’alba, e un’ultima più grande, scintilla nel mezzo riassumendo luci e colori. Così, le spine della sofferenza accettate in ispirito di amore e purificazione, si trasformano in corona di gemme preziose agli occhi di Dio, pei meriti delle sofferenze di Gesù. L’altare, elevato sopra tre gradini, ha proporzioni adatte a far dimenticare la piccolezza dell’ambiente; il paliotto di pietra bianco-avorio porta pannelli di un delicatissimo viola antico arabescato, fornito dalle cave fra Betlemme e il Mar Morto, e ha nel centro un medaglione rotondo ove su lastra di rame è dipinto Cristo alla colonna. Quest’opera di artista napoletano del secolo scorso fu tolta come ricordo dall’altra preesistente, dono di Napoli devota. Anche il tabernacolo è in pietra del paese che fonde in armonia inimitabile il viola al marrone, al verde, al bianco, al giallo, e si apre a sesto ogivale sopra un minuscolo vestibolo che mostra sul fondo il ciborio in pietra rosso-granato, su cui spicca l’aurea portina che sarà sormontata dalla corona di Cristo, Re dei Popoli e Re dei cuori. Infine un tronetto ogivale di sapore arcaico lancia la sua cuspide in alto fra candelieri di bronzo oscuro che accennano agli albori dello stil nuovo mentre si libera dalla crudezza delle sagome forgiate nel ferro: questi candelieri sono dono della Ditta Laganà di Napoli.
Intorno all’altare pietre squadrate e liste di nero del Mar Morto incorniciano un elegante e severo tappeto di mosaico a sottili disegni bianchi su fondo nero con tocchi di rosso-corallo e viola e verdi forniti anch’essi dalle cave locali; e questo tappeto continua poi come guida nel centro della nave fino alla porta d’ingresso. Si direbbe che la balaustra dell’altare è quasi trasparente nell’intreccio lieve di archi e quadrilobi, sicché non spezza l’unità del piccolo ambiente e lascia libera la vista sul presbiterio; fu eseguita insieme alle griglie dorate del coretto nelle officine di S. Salvatore su disegni dell’architetto.
Ma chi entra nel Santuario non vede da principio le cose fin qui descritte. Attraverso la penombra della nave tre quadri luminosi, fatti come di gemme variamente scintillanti e colorate, l’affàscinano e ne trasportano lo spirito al di là del reale, nell’oblìo delle brevi pareti che lo circondano. Una sorpresa ed una meraviglia. Tre delle arcate a sostegno della volta del presbiterio sono chiuse da preziose vetrate.
Nel centro Cristo alla colonna: « Ego in hoc natus sum et ad hoc veni in mundum ut testimonium perhibeam veritati: Omnis qui est ex veritate audit vocem meam ». (Ioa., XVIII). Il mondo invece ama la menzogna che giustifica o esalta il peccato, e tura la bocca della Verità con ceffoni e con sputi, cioè con la sudicia calunnia; la temuta Verità vuol flagellata a sangue. Il Maligno ride nel riso beffardo e saettante odio dei suoi umani satelliti, e Cristo-Verità, legato alla colonna, folgora di luce e leva i grandi occhi al Cielo, testimone della sua missione e del suo strazio ineffabile. Anime pie vedrebbero forse volentieri un lampo di dolce bontà su quel Volto virile che il taglio secco delle sagome vetrose rende un po’ duro; ma quale potenza divina è in quell’atteggiamento di supremo dolore ! E i toni cupi del colore commentano le basse passioni degli implacabili carnefici.
A sinistra di chi guarda, la scena di Pilato: « Quid est veritas? » E poi l’uomo di mondo non si cura di avere risposta: curiosità superficiale, direi accademica, che non indaga il fondo delle cose. La Verità è insieme giustizia, pretende da chi la vuol possedere, un amore capace di sacrificare per lei ogni cosa; e il ricco, il potente, può sacrificare ad essa i benefici e i comodi della sua alta posizione sociale? Tentenna, si contradice, e infine vince la codardia; e pur proclamando Giusto il Cristo, (nel nome di Roma, e cioè a tenore di legge), lo abbandona alla sua morte; per un ultimo briciolo di rimorso, a far intendere il suo pensiero, si lava le mani con vana ipocrisia al cospetto della folla: « Innocens ego sum a sanguine justi hujus » (Matt., XXVII). La scena ha toni armoniosi, fosforescenze delicate; Pilato in tunica gialla e bellissimo paludamento lilla ha la caratteristica sagoma romana, e l’obesità del grave personaggio. È attorniato da littori e soldati, alteri e composti nell’assistere il magistrato in giudizio.
A destra la vetrata di Barabba, portato in trionfo dai suoi satelliti e liberatori, personificazione del Male e antitesi del Cristo. La Verità è odiata e maledetta dalla passione cattiva, dalla malvagità, dall’incoscienza, dall’abbiezione, come la luce delle tenebre; nella lotta senza quartiere la Verità è straziata e crocifissa. Qui la rappresentazione del Male raggiunge effetti di così profonda efficacia da toccare i fastigi del capolavoro: e tanto ripugnanti e macabre nelle varie espressioni sono le faccie luride e schiumose di quei manigoldi, ebbri di schiamazzo e di mala gioia, che pare assistere ad una scena d’inferno. La pelle arsiccia e gli stracci che li rivestono hanno toni cupi e violenti, animati qua e là da luminosità ardite e vibranti. La linea e il colore concorrono mirabilmente a dare un’emozione viva nel disgusto del male. Artefici di queste originali e mirabili visioni sono due artisti romani, Duilio Cambellotti e Cesare Picchiarini. « Fanno onore a Dio, all’arte, all’Italia » disse S. E. il ministro Fedele nel vedere le vetrate prima che partissero per Gerusalemme. Il primo fu l’ideatore e il disegnatore potente, l’altro il realizzatore, dotato di prodigiosa sensibilità pittorica per la quale si è reso in lunghi anni di studio e di prove, padrone di una tecnica difficilissima, vincendo una nobile battaglia contro l’industrialismo che aveva fatto decadere miserabilmente l’arte della vetrata. È giustizia riconoscere che ambedue nel dare il frutto della loro maturità artistica hanno offerto insieme al Santuario di Gesù tutto l’ardore dell’anima infiammata dalla bellezza vera, e la generosità dell’artista autentico che non misura la sua fatica sul modesto compenso materiale pattuito. Altri compensi essi avranno nel loro intimo da Chi fornì loro l’ispirazione e la lena, perchè la pietà pel Cristo flagellato, lo sdegno pel calcolo vile dell’interesse mondano e la ripugnanza per il peccato che destano le tre vetrate non potrebbero sussistere nè commuovere se prima gli artisti non avessero intensamente vissuti quei sentimenti: ed anche perchè questo effetto sul popolo fedele, corrisponde alle più pure idealità di un arte del bello, che è insieme missione santa di bene.
 
La Custodia di Terra Santa col restauro completo e definitivo di questo Santuario, la cui importanza religiosa è in ragione inversa delle sue dimensioni, offre al mondo cattolico una novella prova della serietà di propositi con cui attende alla conservazione e al decoro dei Luoghi Santi. E la felice trovata architettonica, prova da parte sua come si possano, quando amore guida, risolvere degnamente interessanti problemi artistici e religiosi con spese relativamente modeste e fabbriche di piccole proporzioni, così come era già avvenuto nell’epoca crociata. Perchè è da notare che la pietà dei fedeli trova in modo precipuo il suo alimento essenziale in ambiente predisposto con illuminato equilibrio a mettere in valore i ricordi della Passione e soddisfare alle esigenze del culto, senza cadere in esagerazioni ed eccessi che moltiplicherebbero le dimensioni e il numero dei Santuari col risultato di sviare e danneggiare la pietà stessa (ancora polemiche con chi voleva edificare nei Luoghi Santi delle chiese non sempre legate a fatti evangelici, basandosi su ipotesi archeologiche inconsistenti, ndr). Nel nostro caso l’architettura è riuscita a dare una certa impressione di ampiezza ad un minuscolo ambiente che misura appena cinque metri e mezzo di larghezza fra le faccie dei pilastri, meno del doppio in lunghezza, e si apre sopra un presbiterio quadrato che non raggiunge i sette metri di lato; ha mantenuto i quattro altari laterali richiesti dalla numerosa Comunità senza ingombro della nave e con effetto sobrio e dignitoso come conveniva a elementi di secondaria importanza; ha realizzato infine, e specialmente ad opera delle vetrate, una decorazione altamente significativa, che è buon commento al mistero doloroso, atto a facilitare agli umili lo slancio spontaneo della pietà, e a suggerire alle persone più colte la meditazione profonda del dramma divino-umano del Pretorio, che si perpetua nei secoli per le umane passioni mai domate, e per l’attualità perenne — perchè divina — della Passione del Cristo.
Il Santuario fu benedetto il Lunedì Santo 14 Aprile 1930 fra l’ammirazione devota degl’intelligenti, e un valoroso archeologo palestinese, che alla scienza congiunge una pietà profonda, nell’accomiatarsi, disse di ritornarvi spesso per pregarvi avendo intesa forte suggestione dal Santuario.
 
Tratto da: Almanacco di Terra Santa, Tipografia dei Padri Francescani, Gerusalemme, 1931, pagg. 27-34.
 

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