DIRITTO NATURALE E DIRITTI UMANI IN FRANCISCO DE VITORIA

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Segnalazione del Centro Studi Livatino

Abile e notissimo Maestro di teologia, a partire dalle problematiche nuove che il suo tempo e le vicende storiche gli presentavano, de Vitoria cercò di trovare le soluzioni che più rispondessero tanto alle esigenze del Vangelo, quanto a quelle della filosofia e del pensiero umano. Contribuì – insieme ad altri autori della cosiddetta “prima Scuola di Salamanca” – a una nuova elaborazione filosofica in ambiti afferenti l’economia morale e il diritto internazionale, in cui si distinse particolarmente. Si ritiene che abbia posto le basi della moderna concezione dei diritti umani. La sua notorietà fu tale che fu invitato a partecipare ad alcune sessioni del Concilio di Trento, come teologo imperiale. Non poté parteciparvi a causa di una grave malattia che lo avrebbe pesto portato alla morte, all’età di 63 anni, nel 1546.

1. Francisco de Vitoria nasce a Burgos, in Spagna, nel 1483. A 22 anni entra nell’Ordine dei Frati predicatori. Dopo gli studi nella città natale, viene inviato dall’Ordine a studiare filosofia e teologia all’Università di Parigi, in uno dei collegi aggregati alla Sorbona, il collegio di Saint Jacques, dove rimarrà fino al 1523 percorrendo il curriculum studiorum fino al conseguimento del dottorato in teologia e l’inizio dell’insegnamento. Durante gli anni della formazione, acquisisce una profonda conoscenza dei testi della cultura classica, con particolare attenzione alle opere di Aristotele, Cicerone e Seneca, e cresce in erudizione con le letture e i dettati della Summa Theologiae di S. Tommaso.

Inizialmente convinto sostenitore dell’impostazione filosofica nominalista, indirizzo di pensiero all’epoca prevalente a Parigi, si fece successivamente promotore di una riscoperta e rivalutazione del pensiero di Tommaso d’Aquino, tanto che il confratello De Crockaert, che stava perseguendo un analogo itinerario, cogliendo la sintonia d’intenti, lo volle, nonostante la giovane età, come collaboratore alla stesura della sua edizione parigina della Secunda Secundae dello stesso S. Tommaso (1512). Nella capitale francese prese poi contatti anche con Juan Fenario (Feynier), più tardi maestro generale dell’Ordine, che gli comunicò le preoccupazioni per la crisi intellettuale e sociale che la società dell’epoca stava attraversando.

Quando nel 1523 fu chiamato a insegnare al collegio di S. Gregorio a Valladolid, invece dei tradizionali Libri Sententiarum di Pietro Lombardo introdusse come manuale didattico per la teologia la Summa Theologiae. Il suo insegnamento ebbe tanto successo che nel 1526 vinse la cattedra de prima nella facoltà di teologia di Salamanca, fondando quella che in seguito sarebbe stata chiamata la scuola spagnola di diritto naturale. Il suo insegnamento si coglie soprattutto in una serie di opere pubblicate postume, tra cui le Relectiones theologicae (1557), il Confessionario (1562), la Summa Sacramentorum Ecclesiae (1560). De Vitoria incentrò la riflessione su questioni di attualità, che volle affrontare per mezzo di un metodo rigoroso basato sull’uso attento della ragione nelle questioni di fede, il ricorso costante alla Sacra Scrittura, il ritorno ai Santi Padri e agli autori della Scolastica[1].

2. La sintesi così pensata fra teoria e pratica, fra speculazione ed etica, raggiunse in lui un equilibrio difficilmente riscontrabile in altri teologi. Celebrato come padre dell’ideale di giustizia e di pace fra le genti del mondo, de Vitoria era dunque cresciuto intellettualmente alla scuoladi S. Tommaso.

In tutta la sua opera – lo confermerà la lezione sul libero arbitrio – troviamo una nozione di Legge naturale che si allontana progressivamente dall’intellettualismo scolastico e finisce per trovare il fondamento ultimo nella volontà divina. Dio è il legislatore che ordina razionalmente la creazione secondo i fini che gli sono propri e guida le azioni degli uomini con l’aiuto illuminante della Rivelazione. D’altra parte, Dio inteso come Dominum, non è limitato da alcun divieto, precetto o criterio razionale, essendo incommensurabile e agendo come padrone di ciò che esiste. Come corrispondente all’ordine immanente voluto da Dio, la causa efficiente del diritto è d’origine divina, tuttavia, nella sua determinazione concreta, esso si identifica con il diritto positivo. La potestà spetta alla consesso sociale, che la trasferisce al principe, senza tuttavia che ciò comporti una sua abdicazione definitiva. Perché vi sia legge, ciò che è razionalmente ordinato deve emanare da un corpo sovrano, cioè deve esprimere una volontà imperativa ed essere applicabile in virtù del suo potere.

Per de Vitoria, l’autorità della Legge naturale sul diritto positivo non deriva dal predominio della ragione sulla volontà, ma dalla superiorità dell’Autore stesso della Legge naturale, che è Dio, sull’autore della legge umana, che è l’uomo. La Legge naturale, dice de Vitoria, è giusta per sua stessa natura, essendo indipendente dalla volontà umana ed è di per sé necessaria. Il carattere di necessità della Legge naturale deve intendersi fatta salva l’incoercibilità dell’autorità divina, che può sempre modificarla[2]. I modi di arrivare alla conoscenza della Legge naturale presuppongono una metodologia che eredita dalla epistemologia aristotelico-tomista: a) si parte da ciò che è naturalmente conosciuto come giusto attraverso il retto esercizio della ragione, per mezzo del lume naturale; b) si incontrano poi, via via, i principi conosciuti dalla nostra ragione o dal lume naturale; c) in un terzo luogo, troviamo i precetti morali e pratici che guidano l’agente morale e che si deducono dai principi naturali[3]. Quanto poi all’idea di giustizia, il Nostro la concepisce come un valore inerente all’oggetto, al fatto o alla condotta, che implica sempre una relazione di alterità e un debitum, un dovere di dare ciò che appartiene a un altro, o in virtù di una relazione sinallagmatica, o in virtù di meriti da riconoscere (giustizia commutativa e distributiva)[4].

Pertanto, la Legge naturale, non prescrittiva né proibitiva, è sostanzialmente una legge permissiva, concedendo all’uomo il diritto di agire[5]. Il fondamento del dominio nella Legge Naturale, così inteso, sarà fondamentale per comprendere l’apologia che il Nostro farà del dominio naturale degli “indiani” sulle loro terre, da cui derivò poi il rifiuto dell’idea, allora in voga, secondo cui questo dominio era stato in realtà abolito a causa del peccato o che pre-esistente a esso doveva ammettersi un dominio naturale pre-giuridico, come quello rivendicato dai nominalisti[6].

3. Tornando al rapporto tra la Legge divina e la legge umana, de Vitoria definisce la legge umana come il giusto determinato dalla volontà umana[7]. Le leggi umane non vincolano soltanto a causa del timore di una punizione esterna, ma pretendono l’adesione del foro interno della coscienza, per cui chi agisce contro la legge dettata dal principe pecca in maniera eventualmente anche mortale, in ragione della gravità della materia volta per volta considerata[8]. Perché ci sia legge, è necessario dunque che l’imperativo della volontà autoritativa si aggiunga al razionale umano. A riprova di ciò, de Vitoria intende per Legge eterna tutta la Legge divina in assoluto, non solo quella naturale, proprio perché rivolge la sua attenzione all’Autore della legge; e se la Legge naturale obbliga, è perché contiene ed estrinseca la volontà divina. Il volontarismo dogmatico supposto dalla sua trattazione sulle leggi – in virtù del quale l’essenza dell’obbligo si trova proprio nell’atto di volontà dell’autorità – porteranno il Nostro, nel suo trattato De Legibus, a compiere il definitivo passaggio teorico da una concezione oggettiva a una concezione soggettiva del diritto, che si cristallizzerà definitivamente nel 1539 con la Relectio De indis.

In questo senso, de Vitoria svilupperà una curiosa equivalenza tra potere, facoltà, volontà e dominio: “Tutti diciamo che si è proprietari di una cosa quando si ha piena facoltà di usarla […]. Ora, si dice che si ha il libero arbitrio perché si ha il dominio sui propri atti. Pertanto, il dominio e il libero arbitrio sono riuniti nella stessa parola: facoltà. Il libero arbitrio è la facoltà della ragione e della volontà, e il dominio sulle azioni umane è anche la facoltà di usare la ragione e la volontà[9]. Trasferendo questa riflessione alla definizione di ius, si direbbe che la facoltà giuridica è null’altro se non il potere della volontà attribuito dalle leggi al soggetto razionale, per cui siamo di fronte a una delle prime categorizzazioni complete del diritto soggettivo. Si osservano cioè tutti gli elementi del concetto di diritto soggettivo: lo ius come fonte di diritti, il diritto come potere di fare o non fare e l’uomo come soggetto del diritto in quanto essere capace di intendere e di volere. La libertà elettiva di fare o non fare, della libera volontà di usare o non usare la facoltà, costituisce l’essenza stessa dello ius inteso come dominium e ciò porrà il Nostro all’apice del lungo processo di formulazione teorica del diritto soggettivo[10].

Questa tesi soggettivista dello ius sarà ulteriormente sviluppata nella sua famosa Relectio de Indis (1539), dove metterà a punto una decisa difesa dei poteri e delle facoltà inerenti agli indiani, come tali ad essi provenienti dallo stesso diritto naturale. Dunque, se il diritto naturale genera autentici diritti soggettivi negli individui, ci troviamo allora di fronte al precursore della moderna concezione dei diritti umani. Per de Vitoria, infatti, la legge naturale dà all’uomo il diritto alla proprietà, alla libertà di movimento, alla libertà di religione, alla conservazione della propria vita et similia, diritti il cui fondamento di titolarità e legittimazione è in ultima analisi l’uomo stesso in quanto creatura razionale creata a immagine e somiglianza di Dio, dotata di una dignità che è il termine primo ed ultimo di ogni potere e dominio[11].

4. Il cammino che condusse a un tale sviluppo teorico, fu tutt’altro che semplice. Negli anni in cui andava pubblicando la sua Relectio de Indis (1539), il confratello Bartolomeo de Las Casas stava incontrando una vivace opposizione soprattutto negli ambienti ecclesiastici[12]. Da tempo interessato alla questione, Francisco de Vitoria non si limitò ad una difesa d’ufficio del confratello, ma sviluppò l’argomento espressamente in due “trattati” scolastici (le Relectiones, appunto), che per la loro natura vennero a costituire le basi di quello che sarà poi il diritto internazionale moderno. Mentre, infatti, in opere precedenti aveva incluso lo jus gentium nell’ambito del diritto positivo, nella De Indis lo includerà nell’ambito del diritto naturale o derivato dal diritto naturale.

Per de Vitoria il diritto delle genti (ius gentium) deriva direttamente dal diritto naturale. Egli attribuisce agli stati il ruolo di soggetti del diritto internazionale e afferma il principio della naturale comunicazione e consociazione fra i popoli, come principio generale di diritto naturale che orienta lo jus gentium. In nome di un’universale parentela che accomuna tutti i popoli, il diritto delle genti rende gli scopritori proprietari delle cose che non sono di nessuno, “quae in nullius bonis sunt, iure gentium sunt occupantis“. Alla luce di ciò, dunque, gli Spagnoli, al pari degli altri popoli conquistatori, erano sì legittimati a rivendicare il pieno diritto a stare nei territori degli Indios, purché non arrecassero danni e anzi si prodigassero per il progresso materiale e il riscatto morale di quelle popolazioni. Ma è nella seconda parte della De Indis che de Vitoria mette a punto una lucida ed insuperata critica ai principali argomenti addotti nella sua epoca per giustificare la Conquista.

Afferma, all’uopo, che l’Imperatore non può essere considerato come un dominus totius orbis, né il Papa come detentore di una plenitudo potestatis negli affari temporali. Rifiuta di riconoscere il diritto di scoperta (jus inventionis) come legittimo presupposto di conquista, affermando altresì come la giusta preoccupazione per la propagazione della fede cristiana non possa di per sé assurgere amotivo di guerra giusta. Afferma ancora che peccati come il cannibalismo e i sacrifici umani, commessi dai nativi del Nuovo Mondo, non possono stimarsi quali motivazioni idonee a giustificare una guerra e nega risolutamente la legittimità del ricorso retorico all’argomento di una speciale concessione divina – cui ricorrevano sistematicamente dagli apologeti della Conquista – spesso abusando del paradigma biblico della Terra Promessa.

5. Una volta definite le Nazioni come soggetti di diritto internazionale e i principali diritti naturali che devono ispirare i loro rapporti, de Vitoria affronta il terzo principio fondamentale della sua concezione dell’ordine mondiale, cioè la discussione sulla guerra giusta che sarà poi sviluppata nella Relectio De Iure Belli.  Il ricorso alla guerra è ammesso dopo che siano state esaurite tutte le forme di persuasione pacifica possibili, perseguite non solo a parole, ma anche attraverso fatti concreti che mostrino la volontà di instaurare un rapporto di scambio e di commercio su basi di effettiva, reciproca utilità. La guerra è vista quindi come extrema ratio e, in un primo momento, ammessa solo come guerra puramente difensiva, che non dà diritto di sottomettere il nemico e di farlo prigioniero.

L’argomento principale a giustificazione della guerra giusta resta quello secondo cui la guerra appartiene senz’altro al diritto naturale, almeno per ciò che riguarda quella difensiva, essendo un principio elementare del diritto quello per il quale “vim vi repellere licet“. Ma anche la guerra offensiva, quella cioè fatta per vendicare una offesa, è legittima allorché la sicurezza della Repubblica non potrebbe raggiungersi se non dissuadendo il nemico dal commettere ingiustizie proprio con la minaccia ed eventualmente l’azione della guerra. La pace e la tranquillità tra i diversi popoli sarebbe infatti impossibile se i malvagi potessero impunemente imperversare in danno degli innocenti. Ma oltre a uno ius ad bellum, de Vitoria si spingerà a teorizzare anche uno ius in bello, in forza del quale considerare lecito compiere tutto quanto è necessario al bene pubblico della nazione e alla sua difesa, così come al mantenimento della pace e della sicurezza dei confini, anche eventualmente vendicando le offese ricevute, dacché rientra tra le prerogative sovrane del Principe l’agire in difesa dell’onore e della reputazione della nazione.

Antonio Casciano


[1] Vitoria, F., Sacra Doctrina, a cura di C. Pozo, in Archivo Teològico Granadino, 20 (1957), pp. 417-419.

[2] Vitoria, F., De justitia, Publicaciones de la Asociación Francisco de Vitoria, Madrid, 1934, pp. 15-17.

[3] Ibid., pp. 17-22.

[4] Ibid., pp. 35-57.

[5] Vitoria, F., De justitia, cit., p. 77.

[6] Ibid., pp. 78-85.

[7] Vitoria, F., De Legibus, Universidad de Salamanca, 2010, p. 139.

[8] Ibid., pp. 139-143.

[9] Vitoria, F., De aquello a lo que el hombre está obligado al llegar al uso de la razón, en Obras de Francisco De Vitoria. Relecciones Teológicas, BAC, Madrid, 1960,p. 1315.

[10] Vitoria, F., Relección primera sobre los Indios, en Obras, cit., p. 662.

[11] Urdánoz, T., «Introducción a la Relección primera de Indis», en Obras…, cit., p. 654.

[12] Soltanto due anni prima, infatti, nel 1537, Paolo III aveva pronunciato la bolla Sublimis Deus, in cui dichiarava che gli Indiani erano veramente uomini come gli altri, come tali in grado di ricevere i sacramenti. Grazie a questa nuova decisione papale, nel 1539 Vitoria ebbe la strada aperta per dare potere agli indios ed estendere la sua teoria del dominio come estensione dell’Imago Dei agli indios.

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