Cina sempre più vicina all’Arabia Saudita, e non solo per la fame di petrolio

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di Chiara Masotto*

NON È PIÙ SOLO IL PETROLIO A LEGARE QUESTI DUE PAESI: CI SONO INVESTIMENTI PER SVILUPPARE I TRASPORTI MARITTIMI E PER INSEGNARE LA LINGUA CINESE NELLE UNIVERSITÀ. OGGI A LEGARLI SONO LO SVILUPPO ECONOMICO, LA SICUREZZA DELLE SUPPLY CHAIN, LA CULTURA E LA VICINANZA DI OPINIONI SUL TEMA DEI DIRITTI UMANI. INTANTO AUMENTA IL GELO TRA STATI UNITI E REGNO ARABO…

La visita del Presidente Xi a Riyadh è l’apice di un percorso di avvicinamento tra i due Paesi in corso da anni. Le relazioni tra i due Paesi sono sempre state di natura principalmente transazionale: il Regno dell’Arabia Saudita e la Repubblica Popolare Cinese hanno stabilito relazioni diplomatiche ufficiali il 1^ luglio 1990, più di dieci anni dopo il riconoscimento da parte degli Stati Uniti di Pechino (1979) e la sostituzione della Repubblica di Cina, nome ufficiale di Taiwan, con la Repubblica Popolare Cinese alle Nazioni Unite nel 1971.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale Taipei manteneva relazioni diplomatiche con poche nazioni arabe, e una di questa era il Regno dell’Arabia Saudita. Alla base della relazione c’era la collaborazione nel campo dell’agricoltura, ma presto Riyadh ottenne un posto speciale nel cuore di Taipei per due motivi, il suo status di maggior fornitore di petrolio – la Chinese Petrolium Company di Taiwan importava il 40% del greggio da Riyadh – e il continuo riconoscimento e sostegno dato alla Repubblica Di Cina fino agli anni ’90.

Il game changer nel triangolo Pechino – Riyadh – Taipei furono le riforme economiche di Deng Xiaoping, che se da un lato resero la Repubblica Popolare un partner economico irrinunciabile, dall’altro amplificarono una debolezza strutturale del Paese: le difficoltà di approvvigionamento energetico. Con una Pechino costretta a cercare nuove fonti energetiche, la postura di Pechino si fece molto più aggressiva – basta pensare alle dispute nel Mar Cinese Meridionale e Orientale, che passarono dall’essere dispute prettamente politiche combattute a suon di dichiarazioni e proteste formali ad un continuo susseguirsi di azioni anche militari per ottenere il controllo fattuale delle acque e dei fondali. La fame di petrolio avvicinò Riyadh, la cui economia si basava (e si fonda tuttora) principalmente sulle esportazioni di idrocarburi, e Pechino, il cui bisogno di petrolio cresceva alla stessa velocità della sua economia.

Partner irrinunciabili, ma solo dal punto di vista economico: la prima visita ufficiale tra capi di Stato fu nel 1999, quando Jiang Zemin visitò il Regno per concludere il Strategic Oil Cooperation Agreement, il primo di una lunga serie di accordi per la cooperazione nel settore energetico in cui Pechino offre il capitale e Riyadh offre petrolio e la possibilità agli investitori cinesi di accedere al mercato.

È nei primi anni 2000 che le relazioni si fanno più profonde: nel 2004 la Repubblica Popolare e il Regno furono impegnati in una serie di incontri diplomatici che culminarono nell’accordo tra Sinopec, la State Owned Enterprise che si occupa di importare e raffinare petrolio, e il Regno per l’esplorazione congiunta e lo sviluppo del sito di Rub’ Al Khali) e nel 2005 ai primi colloqui ufficiali tra Pechino e l’OPEC.

Nel 2006 il re Habdullah fu il primo capo di Stato del regno a visitare la Repubblica Popolare, e firmò cinque accordi di cooperazione in campo energetico ma colse anche l’occasione per discutere ulteriori possibili accordi commerciali, tasse e dazi doganali e requisiti tecnici dei beni venduti e finalizzare un prestito della Saudi Arabia Development Bank nello Xinjiang. La visita fu un successo, al punto tale che il Presidente Hu dichiarò che “si sta scrivendo un nuovo capitolo nella cooperazione amichevole tra Arabia Saudita e Cina nel nuovo secolo”.

L’entusiasmo non calò nei mesi successivi: durante la sua visita nel Regno ad Aprile dello stesso anno il Presidente Hu fu il primo leader straniero a cui fu data la possibilità di tenere un discorso di fronte al Consiglio Legislativo. Le visite sono continuate negli anni a venire e hanno coinvolto un numero sempre maggiore di ufficiali – nel 2019 il Principe Muhammad Bin Salman incontrò il Presidente Xi e numerosi ufficiali tra cui il Ministro degli Esteri.

Non è più solo il petrolio a legare questi due Paesi: nel 2019 il Principe e il Presidente Xi discussero della possibilità di investire congiuntamente nella ricerca per sviluppare i trasporti marittimi e il Principe aprì la possibilità di insegnare la lingua cinese nelle università del regno. Oggi a legarli sono lo sviluppo economico, la sicurezza delle supply chain (catene di approvvigionamento), la cultura e la vicinanza di opinioni sul tema dei diritti umani.

La relazione tra i due non ha l’ufficialità di una partnership strategica, ma è altrettanto, se non più, funzionale: ciò che la rende così apprezzabile per entrambi è il fatto che non ci siano vincoli sgraditi. A Riyadh sta stretta l’insoddisfazione americana per il suo ruolo nella guerra in Yemen e le violazioni dei diritti umani, sentimento condiviso da Pechino per quelle che considera interferenze interne nell’amministrazione dello Xinjiang, regione a maggioranza musulmana dove le politiche portate avanti da Pechino sono accusate di violazione dei diritti umani e genocidio.

I due partner si spalleggiano apertamente: il Regno ha inviato alle Nazioni Unite una lettera in cui difende le azioni di Pechino nello Xinjiang, e nel discorso congiunto tra il Presidente Xi e il Principe Bin Salman il Presidente cinese ha asserito che “la Cina supporta fermamente l’Arabia Saudita nel mantenere la propria sovranità, sicurezza e stabilità, e supporta il Regno nel perseguire le strategie più adatte ai suoi bisogni nazionali”.

In termini profani, il Regno sa cosa serve al Regno e nessuno ha il diritto di dettare condizioni o esigere cambiamenti di rotta, in particolare Washington. Sia Pechino che Riyadh sono incastrate nel difficilissimo esercizio di equilibrio che è il bilanciare aperture e riforme economiche con il mantenimento di uno Stato autoritario in cui sono i diritti collettivi ad avere la precedenza su quelli individuali, sforzo intellettuale e pratico che non potrebbe essere più distante dal mondo occidentale.

Cosa portare a casa da questa visita? Entrambi cercano maggiore spazio di manovra nella scena internazionale: il gelo tra il Regno e gli Stati Uniti è reale, anche se negato nelle dichiarazioni ufficiali, portato a galla dal mancato supporto di Riyadh alle sanzioni. Inoltre il Regno si è rifiutato di pompare più greggio sul mercato per sopperire ai deficit creati dalle sanzioni a Mosca, costringendo l’Occidente a continuare a comprare gas russo e dalla richiesta di risolvere la crisi politicamente, senza condannare l’invasione.

La promessa di collaborare in fora come il G20 ha un grande potenziale politico: come fornitore di petrolio con grande influenza nella regione e seconda economia del mondo, i due avrebbero abbastanza influenza economica da far riconsiderare a molti le loro posizioni, e se la collaborazione tra la Belt and Road, la Saudi Arabia Vision 2030 e la Middle East Green Initiative funzionasse nel modo immaginato tra i due, le ricadute economiche sarebbero enormi e trascenderebbero la mera prosperità materiale.

Ad oggi, Huawei porterà interner nelle zone rurali del Regno e le compagnie cinesi costruiranno le infrastrutture che il Principe desidera, dando un mercato al surplus di materiale da costruzione made in China. Il futuro di questa partnership non è però scritto nella pietra: al momento permette al Principe di realizzare il suo sogno di essere lo zar Pietro il Grande d’Arabia e al Presidente di portare avanti il suo progetto per una Cina potente, ricca e influente ma, come dicono i due, il mondo è sempre più multipolare e mutevole. Ovvero, oggi questa alleanza conviene, ma converrà in un ambiente geopolitico diverso? Federico il Grande di Prussia avrebbe detto che le alleanze sono fatte per essere rotte, i suoi aspiranti eredi moderni preferiranno parlare di interessi divergenti.

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Cina sempre più vicina all’Arabia Saudita, e non solo per la fame di petrolio

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