Riceviamo e pubblichiamo questo interessante articolo
di Lorenzo Merlo
Poche righe per inquadrare la natura del mistero.
Se chiedi al pesce: “Com’è l’acqua?” Ti guarderà stranito dicendo: “Quale acqua?”
Come il cefalo siamo immersi nella nostra acqua, anche se solitamente la chiamiamo concezione. La concezione determina la realtà, le parole per descriverla, i pensieri per considerarla, le idee per progettarla, le azioni per realizzarla.
Non a caso, a parità di problematica, il Bushido samuraico-giapponese, il Kanun nord-albanese, il Codice barbaricino barbagio-sardo, il Pashtunwali pashtun-afghano-pakistano, l’Adat islamico-caucasico-balcanico, tutti disciplinatori delle questioni sociali, hanno forti similitudini nelle modalità di gestione delle problematiche comunitarie, quali l’ospite, la famiglia, la proprietà, il matrimonio, l’eredità, l’onore, il furto, l’omicidio, la vendetta, la giustizia, eccetera, non c’è aspetto della vita tralasciato, hanno adottato soluzioni alquanto simili, nonostante la separazione culturale che li contraddistingue. La concezione della questione era identica per tutti.
Digressione consuetudinaria a parte, la nostra acqua si chiama logica. Un grande oceano che tutto contiene, oltre il quale non ci sarebbe niente. I cui mari minori sono detti razionalismo, materialismo, scientismo.
Ogni cefalo nuota tranquillo credendo di visitare la realtà. Non sospetta di essere il creatore di ciò che vede ed esperisce. Ovunque si rechi, la logica, il razionalismo, il materialismo, lo scientismo glielo impediscono.
Immerso nell’acqua, il cefalo non dispone di altra concezione di una realtà altra dalla propria. Di vedere che l’osservato e l’osservatore costituiscono una diade, non se ne parla neppure. Non ha proprio i mezzi per maneggiare la questione. Emanciparsi dalla certezza che il suo pensiero e il suo credere siano autonomi e indipendenti dall’ambito in cui sorgono in lui, non lo riguarda. Anzi, se la prende, classificando ciarlatani coloro che gliene fanno cenno.
Dunque, come ogni cefalo, ritiene che oltre all’acqua non ci sia mondo. Una convinzione così totale che non lo disarmi neppure quando gli fai presente che il suo oceano non solo è grande ma deve necessariamente essere allora infinito. Sarebbe logico, no? Eppure, pur riconoscendo – sempre per logica – che effettivamente non lo è, e non può esserlo, non ritiene di prendere in considerazione alcunché che logico non sia, non ritiene che la logica abbia qualche difetto. Quindi per lui il tempo è sempre lineare, la natura e l’uomo sono macchine, la realtà, come detto, è oggettiva, la verità è possibile, il principio di causa-effetto è il solo, materia e energia sono di natura differente, la mente è il luogo dei pensieri, l’intelligenza è nel cervello: nel mare – dice – c’è tutto.
A ben guardare c’è del vero, nel momento in cui si limita il mondo ai campi chiusi delle conoscenze tecniche, qui dette anche amministrative. In questi, tutti coloro che chi vi albergano o transitano sanno tutto, linguaggio e regole, e anche condividono il castigo nei confronti di chi non le rispetta.
Ma sono un sisma umanistico, un ingorgo evolutivo, quando la logica, il razionalismo, il materialismo e lo scientismo divengono modalità che vogliono imperare anche in campo aperto, ovvero nelle libere relazioni dove gli universi diversi che siamo si incontrano e scontrano, senza il sospetto che le reciproche affermazioni hanno un alto potere d’equivoco e basso di comunicazione. È sempre così quando non c’è perché non c’è teterreno comune, sentimento o emozione condivisa. Dove – per diritto di logica – crediamo che gli altri stiano alle nostre regole, che non conoscono e che pure a volte non conosciamo noi stessi.
Dove siamo incapaci di vedere il sopruso del nostro ordine morale, di vedere che esso funziona solo e soltanto entro campi riconosciuti e condivisi, o da soli, quando infatti tronfi vediamo la soluzione dei problemi, e non capiamo perché questa non funziona più quando la esponiamo al campo aperto degli universi diversi degli interlocutori che, infatti, “sono loro che non capiscono”, dice tranquillo il cefalo.
Ignaro del limite dell’acqua, il cefalo avanza come uno squalo lasciando scie di sangue e questioni che non risolve per le quali fa spallucce. Una di queste è il mistero.
Che fa il cefalo davanti al mistero? Intanto, non si cura della contraddizione tra riconoscere nei suoi pensieri la presenza del mistero e la logica che, in quattro e quattr’otto – visto che con essa tutta la verità dovrebbe venire a galla – dovrebbe darne di conto e non assillarlo più.
Secondariamente, ma questo in quanto cefalo glielo si può concedere, non si avvede che il mistero non è altro che il confine del suo oceano e che – ulteriormente difficile – quel confine è proprio lui a disegnarlo, nel momento in cui ci chiede: “Quale acqua?” Ma c’è un terzo argomento, più forte dei precedenti. Il cefalo non si avvede che è proprio la modalità della logica a generare il mistero, quando con i suoi inadatti strumenti vuole indagare ciò che non sta sul suo limitato banco di lavoro. Il mistero di A e B non sa che farsene e anche proporgli un AB è solo un penoso logico tentativo destinato all’insuccesso, oltre che dimostrazione dell’inettitudine del cefalo.
Dunque il mistero e tutte le sue forme, quindi dio, la natura, il cosmo, la vita, la coscienza, eccetera, secondo le considerazioni qui in corso, sono un’entità creata dalla logica. Assurdo? Come?
La logica per funzionare richiede A e B, non soltanto uno dei due. Il cefalo, ma anche lo scientista, quando gliene viene meno uno, torna indietro, cambia strada. E, se gli chiedi perché, la risposta è sempre la stessa: “Di lì non c’è niente”. Nonostante questa conclusione ferma e ripetuta, non si perde d’animo. Seguita a non riconoscere l’inadeguatezza dei suoi strumenti cognitivi. Del resto, è lui che ce lo insegna, la scienza misura la realtà e la realtà non misurabile, semplicemente non lo è o, quantomeno, non conta nulla sulla bilancia della verità. Infatti, siccome la logica non porta a sciogliere il misterioso problema di dio, a che punto arriva lo scientista forte del suo metodo? Nessun problema, lui ha la soluzione. “Non ci sono prove, quindi non esiste”. Se solo sapesse di essere lui stesso ciò che sta cercando e anche escludendo, sarebbe tutto un altro oceano.
È proprio il suo sistema, il suo oceano logico la sola base di partenza dal quale spicca il volo il problema del mistero. A volte è meglio evitare di dirglielo, i forconi ce li ha sempre appresso. Eppure, è proprio dalla logica che nasce il mistero. Un simile bisticcio non è, evidentemente, alla portata del cefalo, che infatti seguita a nuotare nelle sue convinzioni. Tranquillità che, peraltro, gli permette di accusare di pregiudizi e bias, chiunque gli parli dell’acqua dell’oggettività in cui vive. E soprattutto, come se lui ne fosse libero. Così pensa il cefalo.
Se il mistero è creato dalla logica in quanto fuori dalle sue, per altro eccellenti doti amministrative, significa che sottraendo la logica dalla supremazia nei pensieri, non solo il mistero non è più creato ma sparisce dall’orizzonte delle problematiche, cioè dalle questioni che l’arroganza oceanica dei cefali ritiene di poter tralasciare. Sparisce perché invece di analizzarlo come un oggetto, avvieremmo i processi per esserlo.
Per il cefalo esploratore, sarebbe logico porsi in ricerca di quanto non sta alle regolette del campo chiuso della scienza – soprattutto per una macchina, quale deve, per coerenza meccanicista, riconoscere di essere – eppure è proprio così, il magico e l’alogico per lui non esistono. (Tralascio di commentare la sua concezione del magico, che gli impone pensieri e parole sideralmente lontane dalla natura del tema). Anzi, se gli parli dell’uomo come creatore del mondo, ti prendi, come detto, del ciarlatano. Sempre meglio di un’inforcata. Se gli fai presente che gli uomini realizzano solo e soltanto ciò che risiede in loro, che senza un’idea non c’è creazione, e che in questo processo replichiamo nel piccolo ciò che il mistero ci impone di ritenere qualcuno o qualcosa abbia a suo tempo fatto in grande, non fa una piega. Si gira dall’altra parte e se ne va. Il ciarlatano non gode di pari dignità con il cefalo-scientista. Che se è proprio gentile, come si trattasse di una specie di equazione, si mette di buzzo buono e inizia a spiegarti come effettivamente stanno le cose nell’oceano.
In più, preda della rete lanciata dalla vulgata del cristianesimo, facilmente crede che quel dio sia un signore saggio e giusto che sta in cielo. No. Non è così cefalo da arrivare a tanto, anche se ci va vicino. Sì, perché lo concepisce come fuori da noi, come del resto fa tutta la marmaglia filo cristiana, ma, è bene accennarne, anche filo-islamica, mica che i probiviri della par condicio, in combutta con quelli dell’inclusività, si inalberino e imbraccino i forconi contro un ciarlatano qualsiasi.
Cultura liquida a parte, – ma neanche tanto visto che le ragioni logiche sono molte a sostenerla e quelle spirituali “non esistono” – bisogna rispettare che il mondo logico del cefalo concepisce dio e il mistero come esterno al creato per la banale osservazione che la logica non gliene permette altra.
La relazione allora non è più con un dio esterno al quale chiedere pietà nel male e ringraziare nel bene. Essa riconosce invece la natura divina di noi stessi, quali creatori della nostra migliore o peggiore condizione, proprio in funzione dell’accettazione degli eventi o del rifiuto di questi in quanto non secondo noi meritati. Si tratta perciò di un terreno dove la logica non è che un piccolo espediente storico di convivenza o scontro. Si tratta del campo libero della magia, dei poteri umani che la logica ha castrato, delle dinamiche della realtà, delle forze, non brute e meccaniche, che la muovono.
In sostanza, l’incantesimo del mistero, come oggetto da scomporre per vedere di cosa e come è fatto, per svelarlo, in una parola, si risolve prendendo consapevolezza dell’acqua in cui nuotiamo. È a quel punto che il cefalo vede il cielo e l’infinito che contiene il suo piccolo, bricioloso, oceano. È a quel punto che la verità alogica e magica, prende diritto di pari dignità con quanto la cultura logica del cefalo pensava di esaurire il mondo. È quel punto che anche la fisica, ha iniziato a intravvedere, riconoscendo così il limite della realtà creduta asetticamente osservabile e dalla logica meccanicistica, su cui basava la vantata universalità delle sue autoreferenziali modalità di ricerca.
Il mistero si risolve accettandolo, essendolo, cessando di crederlo un problema indagabile con pinza e microscopio. Si risolve andando oltre il nostro io e quello che crediamo di essere, scambiando ciò che sappiamo, ciò con cui descriviamo il mondo come verità. Si risolve riconoscendo che nel cielo non ci sono le parti, gli A e i B, ma solo gli interi. Che è dal cielo iperuranico che gli uomini cefalici prendono le metà degli interi che necessitano per portare avanti i loro discorsi sul palco della storia. Metà affinché mantengano alta la superstizione e l’arroganza della conoscenza e con essa le fiamme dell’inferno, che innocentemente chiamano realtà. E se il cefalo non l’ha capito, bisogna dirglielo meglio: la logica non è tutto come crede lui, è una parte. Scambiarla per tutto, fa difetto.
Allora il mistero inizia a parlare e le nostre carni a recepire, che il progresso è da compiere dentro, affinché la vita da pena muti in gioia.
Ma c’è sempre un cefalo fuori standard. Il quale giustamente chiede: “E i sentimenti, le sensazioni? Amore e odio, piacere e sofferenza, non bastano a confermare che oltre il dualismo non v’è altro? Che oltre la storia non esiste nulla?”
Bella domanda, nel senso che quando si pensa, il mondo si muove, e la pari dignità delle prospettive che lo raccontano si realizza.
La risposta è elementare, se per formularla si adotta una prospettiva differente dalla cefalica. Non si tratta infatti di credere che solo il piacere e l’amore possano fare a meno del loro contrario. Non è questa la via, per il semplice fatto che la questione non si dipana su un piano logico. Questa, sta invece nell’emancipazione dall’interpretazione egocentrica di quanto ci accade. L’uomo nella storia non può eludere il dualismo ma può invece emanciparsi dal loro dominio, dalla cultura materialista e avviarsi alla conoscenza liberandosi dal conosciuto imparato a casa e a scuola. Un passo necessario per accedere alla consapevolezza che l’interpretazione personale esalta desideri, aspettative, sentimenti e sensazioni, quindi che genera la pena, il male, la malattia, quando questi non sono soddisfatti.
Dunque il culmine del discorso risiede nel prendere coscienza che accogliere ciò che ci accade come accade a tutti gli uomini, consente di vivere con la migliore presenza, energia e creatività la vita. Allora la logica e il materialismo da tiranno dei nostri pensieri torneranno ad essere semplici strumenti sul banco di lavoro dell’esistenza.
Sarebbe logico allora concludere con le parole di un amico: “Abbiamo intuito che quando difendiamo con calore e a spada tratta un’opinione siamo i primi a non esserne convinti fino al fondo delle nostre profondità”. Sarebbe, ma non per il cefalo.