La follia di chi uccide, la stupidità di chi depista

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di Marcello Veneziani

Due ragazzi pretendono l’amore da due ragazze che non vogliono darglielo e allora le uccidono. Uno è un ex fidanzato lasciato che non accetta la fine del rapporto, l’altro è solo un pretendente che pretende troppo. Poi leggi la spiegazione sui giornali e viene fuori il solito referto: è colpa del patriarcato. Ancora una volta gli stregoni cercano la soluzione fuori dal campo reale, non affrontano la vita sul suo terreno di gioco, lanciano il pallone in tribuna, e nel passato remoto. Se fossimo ideologici e astratti come loro, dovremmo indicare il referto simmetrico: il femminicidio è colpa del femminismo. Da quando le donne hanno dichiarato guerra agli uomini, odiano la figura maschile, il maschio reagisce e si vendica. Tesi generale, ideologica, astratta che avrebbe la stessa plausibilità di quella opposta, anzi con un vantaggio in più: il patriarcato si riferisce al passato, a un mondo che non c’è più, almeno da noi in Occidente, mentre il femminismo si riferisce al presente, a un mondo presente e militante, almeno da noi in Occidente.

Ma la realtà è un’altra cosa. La realtà racconta la tragedia di un mondo che quanto più si fa globale al suo esterno, tanto più si fa piccolo, solitario, privato, introverso e incomunicante nella dimensione personale.

Per molti, per troppi ragazzi, e anche adulti, il mondo si riduce a una persona sola, e se quella persona sola viene meno, crolla il mondo, perdi la testa, ti senti totalmente povero e solo e così decidi di mutare il bisogno assoluto di lei in cancellazione assoluta di lei, col sottinteso che quell’omicidio sia pure un suicidio. Quasi nessuno del resto sopravvive indenne e immacolato all’uccisione della partner, anche perché in un mondo piccolo come il nostro, se una ragazza viene uccisa il primo indiziato è il suo ragazzo, il suo ex, il suo spasimante. Non ci vuole molto a capirlo. O è un estraneo che ha tentato violenza carnale, o è la persona a lei più vicina che è stata lasciata. Sono davvero poche le varianti.

Se ti sparisce il mondo intorno, se perdi la realtà, la vita, le amicizie, i legami, la famiglia, resta solo lei a tenere in vita il tuo essere al mondo, la tua relazione esterna con la vita. E se non proietti la tua vita oltre te stesso, in una fede, in un Dio, in un’idea, in una comunità, in un’opera, in una missione, resta solo lei a dare uno scopo e una proiezione alla tua vita. Ragazzi così non sono figli della società patriarcale ma vivono sulle macerie della società patriarcale, nel pieno della società egoista, egocentrica, egopatica. Della società patriarcale non riconoscono già il primo comandamento, la padronanza sovrana nei rapporti e nelle situazioni, la non dipendenza del “superiore” dall’”inferiore”, del maschio-capo dalla femmina sottomessa. Non sono forti ma fragili i cosiddetti femminicidi, non sono leader ma cuccioli bisognosi, non sono padri padroni ma soggiogati dalla tossicodipendenza per la loro donna-mondo. Se ne sono privati reagiscono come disperati. Sono fragili come specchi, e se abbandonati, lo specchio s’infrange, l’immagine di sé crolla, sparisce col mondo e le schegge diventano coltelli, spade, armi letali.

Fino a quando continueremo ad accusare un morto, il patriarcato, di aver ucciso un vivo, tramite femminicidio, non verremo mai a capo di nulla. Naturalmente la spiegazione non è la soluzione, la diagnosi non è il rimedio. Ma perlomeno è il ritorno alla realtà per capire poi come reagire, sapendo del resto quanto poco si possa fare. Quel che sappiamo è che la condanna del patriarcato non solo è una falsa risposta, deviata, deviante, ai cosiddetti femminicidi, ma come si vede, non produce alcun effetto, alcun calo o contenimento della lunga scia di uccisioni che si allunga ogni giorno di più. E che negli ultimi tempi colpisce una fascia ancora più giovanile di protagonisti e di vittime, cioè persone che non vivono sotto lo stesso tetto da anni, che per ragioni anagrafiche non hanno vissuto neppure di striscio qualche ultima eredità del patriarcato; ma ragazzi venuti dal nulla, vissuti nel nulla, disarmati, anzi alle prime armi.

Quando può avere qualche valore la diagnosi del patriarcato? Quando si riferisce, ad esempio, all’uccisione di mogli e di figlie disobbedienti che trasgrediscono i costumi tradizionali e religiosi ancora vigenti in un quadro sociale prestabilito; ma questo può accadere tra gli islamici, per esempio, non certo da noi. Un assassinio maturato nel clima del patriarcato è stato per esempio, quello di Saman Abbas che si era ribellata ai costumi della sua famiglia; ma stiamo parlando di una famiglia pakistana, islamica.

Il caso Cecchettin, per citare il più famoso, rientra invece in quest’altra tipologia e patologia del nostro tempo e del suo individualismo assoluto, malato, psico-fragile, tossicodipendente, che nasce in società in cui la famiglia è in dissoluzione, le figure di riferimento sono crollate, a cominciare dal padre, e così il contesto di valori. Ma pensate davvero che la soluzione siano le campagne ideologiche e mediatiche contro il maschilismo e la società patriarcale? Ritenete davvero che il rimedio sia rafforzare i centri antiviolenza, con tutti gli esorcisti stipendiati che insegnano il bene e dunque fugano ogni tentazione violenta? O addirittura confidate sul serio che “l’educazione all’affettività” nelle scuole, cioè l’elogio e l’istigazione alla sessualità transitoria, variabile e polivalente, inclusiva e omosessuale, possa davvero frenare la pulsione omicida verso le donne? Pensate davvero che queste misure abbiano qualche vaga efficacia su chi si pone fuori dal mondo ed è fuori di testa, avverte una disperata solitudine, non accetta la realtà e odia a morte chi lo rifiuta, soprattutto se proviene dalla persona-mondo, su cui ha costruito la sua esistenza? Ma non vedete che le vostre parole scivolano nel nulla – come le nostre, del resto – perché non saranno mai i sermoni e le campagne contro gli estinti patriarchi, a frenare i crimini attuali e a ridare sicurezza e vita alle ragazze?

Su un punto concordo, invece, con i sociologi del patriarcato: alle origini c’è la riduzione dell’amore a possesso. L’amore di coppia si fonda sulla reciprocità, non può esistere l’amore unilaterale; anche se a volte, nel caso di genitori e figli, i casi più straordinari e toccanti d’amore sono quelli di chi ama senza essere amato, di chi dà senza ricevere nulla in cambio, nemmeno gratitudine; ma in quel caso l’amore è dare, non pretendere, è donare, non possedere. Comunque, è vero che la radice di questi crimini è nella pretesa di possesso assoluto della persona amata. Ma il salto patologico che trasforma un vizio in un crimine è dal possesso alla possessione: chi pretende di possedere la sua donna a ogni costo, in realtà è posseduto. Da lei, dal suo spettro, dal proprio demone.

 

Fonte: https://www.marcelloveneziani.com/articoli/la-follia-di-chi-uccide-la-stupidita-di-chi-depista/

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