Verona nei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni

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La città di Verona appare una sola volta nei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni. Il nome della città fa capolino nel Capitolo XVII. Siamo nel 1628, e Verona è ancora parte dei possedimenti di terra della repubblica di Venezia e ci troviamo a due anni da una nuova ondata di peste bubbonica, che distruggerà quel fragile mondo.

Il capitolo inizia con Renzo Tramaglino a Gorgonzola, in fuga da Milano, dove aveva sfiorato l’arresto e l’impiccagione da parte delle autorità spagnole:

Basta spesso una voglia, per non lasciar ben avere un uomo; pensate poi due alla volta, l’una in guerra coll’altra. Il povero Renzo n’aveva, da molte ore, due tali in corpo, come sapete: la voglia di correre, e quella di star nascosto: e le sciagurate parole del mercante gli avevano accresciuta oltremodo l’una e l’altra a un colpo.

Renzo era stato messo in mezzo all’assalto al Forno delle Grucce ed era diventato il ricercato numero uno dalle autorità milanesi e per questo motivo era combattuto tra il desiderio di correre e di star nascosto. Decise di mettersi in cammino verso il fiume Adda, che allora segnava il confine con lo Stato Veneziano, dove aveva un parente, Bortolo Castagneri, che lavora in una filanda da quelle parti. Trovò un barcaiolo che lo traghettò e poi, sentendosi libero, spese gli ultimi soldi che aveva in tasca per mangiare e poi lasciò il resto a una famiglia di povera gente che stava morendo di fame fuori da un’osteria.

Il pezzo dei Promessi Sposi che parla di Verona

Finalmente incontrò il suo parente, che lo aiutò, anche se gli disse che il momento non era dei migliori:
– L’ho detto io della Provvidenza! – esclamò Renzo, stringendo affettuosamente la mano al buon cugino.
– Dunque, – riprese questo, – in Milano hanno fatto tutto quel chiasso. Mi paiono un po’ matti coloro. Già, n’era corsa la voce anche qui; ma voglio che tu mi racconti poi la cosa più minutamente. Eh! n’abbiamo delle cose da discorrere. Qui però, vedi, la va più quietamente, e si fanno le cose con un po’ più di giudizio. La città ha comprate duemila some di grano da un mercante che sta a Venezia: grano che vien di Turchia; ma, quando si tratta di mangiare, la non si guarda tanto per il sottile. 
Ora senti un po’ cosa nasce: nasce che i rettori di Verona e di Brescia chiudono i passi, e dicono: di qui non passa grano.

Che ti fanno i bergamaschi? Spediscono a Venezia Lorenzo Torre, un dottore, ma di quelli! È partito in fretta, s’è presentato al doge, e ha detto: che idea è venuta a que’ signori rettori? Ma un discorso! un discorso, dicono, da dare alle stampe. Cosa vuol dire avere un uomo che sappia parlare! Subito un ordine che si lasci passare il grano; e i rettori, non solo lasciarlo passare, ma bisogna che lo facciano scortare; ed è in viaggio. E s’è pensato anche al contado. Giovanbatista Biava, nunzio di Bergamo in Venezia (un uomo anche quello!) ha fatto intendere al senato che, anche in campagna, si pativa la fame; e il senato ha concesso quattro mila staia di miglio. Anche questo aiuta a far pane. E poi, lo vuoi sapere? se non ci sarà pane, mangeremo del companatico. Il Signore m’ha dato del bene, come ti dico. 

Non è mai esistito un nunzio Biava a Venezia, e qui il Manzoni deve aver dismesso i panni dello storico per indossare quelli del romanziere.

Questo vale pure per quel Lorenzo Torre mandato dai bergamaschi a Venezia per impedire l’imposizione di dazi da parte di Verona e Brescia sulle granaglie sbarcate a Venezia e dirette nella bergamasca. Un segno di mai sopito campanilismo, pur essendo tutti parte dello stesso stato veneziano. Forse l’ispirazione al Manzoni gli venne leggendo qualcosa di Lorenzo Da Torre (1699-1766) un ecclesiastico, giurista, storico di origine friulana, ma venuto subito dopo il periodo storico dei Promessi Sposi.

Fonte: https://www.giornaleadige.it/2025/05/15/verona-promessi-sposi-manzoni/

”Mujica è stato ed è un delinquente…” – 1/2

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di Giorgio Bongiovanni

Montevideo – Uruguay. Dicembre 2017“Mujica è stato ed è un delinquente”. Queste le parole usate dall’avvocato Gustavo Salle riguardo il noto presidente uruguaiano, José “Pepe” Mujica. Gustavo Salle è uruguaiano e avvocato penalista di nota esperienza. È un uomo molto conosciuto a livello mediatico, molto colto, istruito e grande conoscitore della politica internazionale. In Uruguay è noto per le sue indagini e denunce contro fatti di corruzione, dentro e fuori lo Stato. È stato uno dei primi ad innalzare la bandiera contro la figura di “benefattore” che i mezzi di comunicazione uruguaiani ed internazionali hanno cucito addosso all’ex presidente della repubblica. Salle, membro fondatore e allo stesso tempo critico del Frente Amplio (partito al governo), oggi è parte accusatrice e promotore dell’indagine che coinvolge l’ex presidente Mujica e il suo partito, colpevoli, secondo l’accusa, di aver raccolto fondi per il finanziamento politico attraverso rapine e atti criminali dopo la dittatura dei militari, cioè in piena democrazia.
Diverse volte si sono alzate delle voci che contrastavano la grande immagine di Mujica che la sinistra uruguaiana aveva costruito a livello internazionale.
Gli incontri tra Mujica e George Soros o David Rockefeller, i permessi di sfruttamento minerario concessi a grandi multinazionali, contratti firmati con loro alle spalle del popolo, leggi create “su misura” a vantaggio dei grandi capitali, l’istallazione di impianti di cellulosa (uno è il più grande al mondo), l’inquinamento delle acque e l’indifferenza e insensibilità, dimostrata in  diverse occasioni, per quanto riguarda le indagini sui casi di violazione dei Diritti Umani da parte di militari e polizia e la ricerca di desaparecidos seppelliti in caserme militari, oscurano (e hanno oscurato) gradualmente l’immagine e la gestione del “presidente più povero del mondo”.
Ma Gustavo Salle va oltre e lancia dure accuse contro il governo dichiarando di essere in possesso di prove presentate in più occasioni dinnanzi alle procure corrispondenti.
È Gustavo Salle un Don Chisciotte? Un giustiziere? È Mujica un “delinquente”? Una marionetta al servizio di grandi poteri? Oppure un ingenuo? Un combattente sociale?
A voi, cari lettori la risposta.

L’intervista
Secondo l’opinione pubblica italiana, così come quella europea, in Uruguay, negli ultimi dieci/quindici anni si è stabilizzata la democrazia dopo essersi liberato dalla dittatura, a cui sono succeduti i governi di sinistra. Eppure le statistiche ci dicono che la povertà e la disoccupazione sono in aumento, la corruzione non è finita nonostante i governi di sinistra e le promesse dei grandi statisti come Pepe Mujica. In Italia questo personaggio gode di grande fama ed è considerato un benefattore del suo popolo, su di lui sono stati pubblicati vari e importanti articoli, è stato invitato a tenere conferenze e gli hanno assegnato onorificenze per essere stato “il presidente dei poveri, il governo dei cittadini”. Ma con il suo governo cos’è cambiato?
Devo prima fare una puntualizzazione fondamentale: Mujica è un delinquente; è stato un delinquente con una determinata posizione ideologica politica e poi, dopo un evento traumatico a livello internazionale inevitabile, come l’implosione del socialismo reale, c’è stato un cambio nella sua posizione ideologica, filosofica e politica. Dal punto di vista pratico, Mujica è stato forse uno dei personaggi più nefasti della storia dell’Uruguay. Se Mujica non fosse nato, l’ Uruguay non avrebbe patito tante sofferenze nel passato e nel presente.
Da un punto di vista politico e ideologico Mujica è un traditore, un individuo assolutamente incongruente. Nel decennio tra il ’60 e il ‘70 – soprattutto nel secondo periodo- ci sono i primi segnali di una rivoluzione armata. Il sistema politico del paese era formalmente democratico, funzionavano i partiti, gli apparati politici, inclusi quelli di estrema sinistra. In quel momento, stava nascendo un movimento per arrivare al governo per mezzo della lotta armata: una vera follia.

Prima della dittatura?
Sì, la dittatura era un fenomeno estraneo a Mujica ed ai tupamaros. Non aveva niente a che fare con loro. È una questione di carattere regionale con dei connotati economico-finanziari, non tanto militari. E quando uno vede gli sviluppi della storia si chiede fino a che punto questi individui non furono gli agenti catalizzatori di quel processo che derivò dai golpe militari, per segnare un processo di carattere politico-finanziario-culturale-sociale o implementato dai centri di potere. Per poter capire come funziona la politica a livello globale – non solo in questo piccolo paese, ma anche in grandi paesi come Stati Uniti, Germania, Francia, Italia – dobbiamo identificare gli attori protagonisti che sono dietro le quinte, che non sono quelli noti alla gente comune. Mi riferisco alle grandi corporazioni, alle grandi logge, alle grandi organizzazioni criminali. È lì che si trova il potere reale. Altra cosa è il potere formale, quello che si affaccia sul palco davanti al popolo. Quanto più degradata è la cultura, l’intellettualità, la capacità di astrazione degli esseri umani che formano il conglomerato sociale, più semplice è il lavoro di questi centri di potere per ingannare il popolo. Per questo motivo faccio una distinzione tra democrazia formale, che è quella contemplata da un punto di vista rigorosamente di forma, nella Costituzione, nella legge, e quella reale. Quest’ultima non esiste, nè in Uruguay, né in Italia, e nemmeno negli Stati Uniti. Se abbiamo chiaro questo concetto, è fondamentale rendersi conto che gli apparati politici sono degli strumenti di questi gruppi economici, che hanno un denominatore comune: sono gruppi criminali senza moralità, la cui unica finalità è il lucro, l’arricchimento. Importando quella macro visione in Uruguay, Mujica si è convertito in un elemento di laboratorio. Io dico sempre che l’Uruguay è un laboratorio sociologico.

Di quale epoca stiamo parlando?
Dal momento in cui Mujica venne eletto prima senatore e poi presidente della Repubblica iniziò a trasformarsi in un elemento di laboratorio in elaborazione. Era un individuo con un trascorso da guerrigliero, e ciò catturava l’attenzione e la simpatia dei settori di sinistra, che nel paese erano importanti perché quelli tradizionali erano già molto screditati. Allo stesso tempo aveva un apparato militare ed uno economico. La campagna elettorale di Mujica, sulla quale si sta indagando, fu finanziata da bande dedite a reati comuni, ma allora questo personaggio serviva come leader e facilitatore. Allo stesso tempo, Mujica portava una controcultura, era cioè l’immagine di tutto ciò che si confrontava con la cultura tradizionale, con l’intellettualità che aveva caratterizzato l’Uruguay negli anni ’50 e ’60. È quello che qui conosciamo come “chabacano”, l’individuo che cerca di portare ogni cosa ad un bassissimo livello, non a quello popolare.
Lui ci è riuscito con il suo governo, con un discredito totale, decadenza del sistema educativo, della controcultura, dei valori. Se analizziamo l’influenza di José Mujica, vediamo che è stata perversa, negativa  in qualsiasi ambito. Ma la cosa più importante forse è che per il suo passato da guerrigliero in un’organizzazione al margine della legge, lui, dal governo, con quel pragmatismo, con quella conoscenza delle organizzazioni criminali, ha architettato ed inserito nel governo una vera organizzazione a delinquere. Nel nostro Paese il crimine organizzato è il Governo: è Tabaré Vázquez, il ministro Carolina Cosse, il ministro Rossi, il ministro Astori. Sono loro a tratteggiare i grandi crimini multimilionari in dollari contro il popolo ma, allo stesso tempo, attraverso dei meccanismi legali, come segnalava il Dr. Viana (intervistato assieme a Salle, ndr) sono riusciti ad eliminare totalmente il Potere Giudiziario, a fare un colpo di stato tecnico – come io lo definisco – ed avere un individuo – militante del Partito Comunista – incaricato di questa macchina di impunità rappresentata dal servizio decentralizzato della Procura Generale.

Mujica, come Huidobro, viene da una storia reale o apparente, di persecuzione, di prigionia e torture?
Questo è in discussione.

La destra, il partito colorato e quello bianco, i grandi partiti che sempre hanno avuto il potere in questo Paese, le logge massoniche, di fronte a una grande contraddizione come quella che ci segnala, come si sono mossi? Sono scesi a patti, hanno finanziato questo fenomeno? Perché le logge massoniche uruguaiane – come avviene anche in Italia – sono o sono state potentissime in questo Paese.
Effettivamente le logge massoniche nel nostro paese hanno una storia di potere incommensurabile. Pertanto, niente di quanto accade a livello politico è estraneo al lavoro surrettizio, confidenziale, segreto, dietro le quinte, della massoneria. Questo ci porta ad una prima conclusione: indubbiamente la massoneria ha messo da parte i partiti tradizionali, che si dimostravano inefficaci nella loro tabella di marcia. Il Frente Amplio si trasformò nello strumento più efficace della realizzazione dei loro programmi. I partiti tradizionali, invece, non erano mai riusciti a dominare il sindacato, un elemento importante nella tradizione storica di questo paese. Le logge massoniche notarono che una volta caduta l’Unione Sovietica, una volta che questa gente rimase senza un posto dove poter trarre vantaggio, sarebbero state disposte a rivedere tutto riguardo al potere imperiale anglosassone e occidentale. È qui che nasce la famosa frase di Tabaré Vázquez sull’”impero buono”. Perchè quando non erano al governo, e non ricevevano le tangenti degli Stati Uniti, c’era l’”impero brutto”. Poi quando hanno messo da parte i partiti tradizionali che intascavano le tangenti e hanno cominciato ad essere loro funzionali all’impero ad a essere ripagati allora l’impero è diventato buono. Tutto in pochi  mesi. Esemplare ed oscena è stata la trasformazione del Dr. Tabaré Vázquez: attorno al giugno 2004, durante un discorso a Minas de Corrales, Vázquez condannava gli impianti di cellulosa perché erano inquinanti e il loro trasferimento dall’Europa all’America latina. Sono bastati pochi mesi e la vittoria alle elezioni perchè Vázquez si mostrasse a favore di nuovi impianti. Infatti oggi ci troviamo con l’istallazione di un terzo impianto di UPM. Un contratto tra UPM ed il governo di Vázquez  che con il Dr. Enrique Viana abbiamo denunciato penalmente per essere l’oggettivazione di un commercio basato su tangenti con le quali il privato è riuscito a corrompere il funzionario pubblico. La prova è il contratto stesso: le ineguaglianze, la mancanza di reciprocità degli obblighi, l’abusivismo, un contratto vile per il popolo uruguaiano.
I partiti tradizionali sono stati messi da parte perché il Frente Amplio ha i suoi agenti nel PIT CNT (si riferisce alla centrale dei lavoratori, ndr) un’agenzia del governo incaricata di vendere la classe operaia.  Si può dire che è il braccio estorsivo. Quando Mujica e Vázquez si incontrano personalmente con Soros, o Rockefeller il PIT CNT è la loro lettera di presentazione per negoziare. Oggi il Frente Amplio è già al governo per la terza volta e probabilmente lo sarà per una quarta. Dal punto di vista ideologico, politico, filosofico, non c’è differenza. È quello che noi chiamiamo il “PUNOM” Partito Unico del Nuovo Ordine Mondiale. Non importa chi governi, loro rispetteranno l’agenda disposta dalle grandi corporazioni internazionali. Alcuni funzionari che erano sotto il presidente Sanguinetti  oggi stanno lavorando nella Presidenza della Repubblica con delle cariche molto importanti, come ad esempio il segretario della presidenza Miguel Toma.

 

Fonte: https://www.antimafiaduemila.com/home/terzo-millennio/256-estero/68554-mujica-e-stato-ed-e-un-delinquente.html

Quel che dovrebbe fare un Papa secondo sant’Alfonso Maria de’ Liguori

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di Altaterradilavoro

Dopo la morte di papa Clemente XIV (1769-1774) si stava preparando il conclave che avrebbe dovuto eleggere il suo successore. Alfonso Maria de Liguori, allora vescovo di Sant’Agata dei Goti e già molto stimato negli ambienti della curia romana (si ricorda che assistette papa Clemente XIV sul letto di morte e partecipò ai suoi funerali in bilocazione perché non lasciò mai la sua diocesi), venne contattato dal suo amico Cardinale Castelli che gli chiese di scrivere una lettera al riguardo dei provvedimenti che avrebbe dovuto prendere il nuovo Papa per riformare la Chiesa afflitta dal rilassamento generale. Riportiamo qui di seguito la lettera alfonsiana.

«Amico mio e Signore, circa il sentimento che si desidera da me intorno agli affari presenti della Chiesa e circa l’elezione del Papa che sentimento voglio dar io miserabile ignorante, e di tanto poco spirito qual sono? Dico solo che vi bisognano orazioni e grandi orazioni, mentre, per sollevare la Chiesa dallo stato di rilassamento e confusione in cui si trovano universalmente tutti i ceti, non può darvi rimedio tutta la scienza e prudenza umana, ma vi bisogna il braccio onnipotente di Dio.

Tra’ vescovi, pochi sono quelli che hanno vero zelo delle anime. Le comunità religiose quasi tutte, e senza quasi, sono rilassate; poiché nelle religioni, nella presente confusione delle cose, L’osservanza è mancata e l’ubbidienza è perduta.

Nel clero secolare vi è di peggio: onde vi è necessità precisa di una riforma generale per tutti gli ecclesiastici, per indi dar riparo alla grande corruzione de’ costumi, che vi è ne’ secolari. E perciò bisogna pregar Gesù Cristo che ci dia un Capo della Chiesa, il quale, più che di dottrina e di prudenza umana, sia dotato di spirito e di zelo per l’onore di Dio, e sia totalmente distaccato da ogni partito e rispetto umano; perché se mai, per nostra disgrazia, succede un Papa che non ha solamente la gloria di Dio avanti gli occhi, il Signore poco l’assisterà, e le cose, come stanno nelle presenti circostanze, andranno di male in peggio. Sicché le orazioni possono dar rimedio a tanto male, con ottenere da Dio che egli vi metta la sua mano e dia riparo…

Aggiungo: Amico, anch’io desidererei, come V. S. Ill.ma, vedere riformati tanti sconcerti presenti; e sappia che su questa materia mi girano mille pensieri nella mente, che bramerei di farli noti a tutti; ma rimirando poi la mia meschinità, non ho animo di farli comparire in pubblico, per non parere ch’io volessi riformare il mondo. Le partecipo non però con confidenza, per mio sfogo, i miei desideri.

Bramerei primieramente che il Papa venturo (giacché ora mancano molti Cardinali che si han da provvedere) scegliesse, fra quelli che gli verranno proposti, i più dotti e zelanti del bene della Chiesa, ed intimasse preventivamente a’ Principi, nella prima lettera in cui darà loro parte della sua esaltazione, che, quando gli domanderanno il Cardinalato per qualche loro favorito, non gli proponessero se non soggetti di provata pietà e dottrina; perché altrimenti non potrà ammetterli in buona coscienza.

Bramerei inoltre che usasse fortezza in negare più benefizi a coloro che stanno già provveduti de’ beni della Chiesa, per quanto basta al loro mantenimento secondo quel che conviene al loro stato. Ed in ciò si usasse tutta la fortezza avverso gl’impegni che s’affacciano.

Bramerei, di più, che s’impedisse il lusso nei prelati, e perciò si determinasse per tutti (altrimenti a niente si rimedierà) si determinasse, dico, il numero della gente di servizio, giusta ciò che compete a ciascun ceto de’ prelati: tanti camerieri e non più; tanti servitori e non più; tanti cavalli e non più; per non dare più a parlare agli eretici. Di più, che si usasse maggior diligenza nel conferire i benefizi solamente a coloro che han servito la Chiesa, non già alle persone particolari.

Di più, che si usasse tutta la diligenza nell’eleggere i vescovi (da’ quali principalmente dipende il culto divino e la salute dell’anime) con prendersi da più parti le informazioni della loro buona vita e dottrina necessaria a governare le diocesi; e che, anche per quelli che siedono nelle loro chiese, si esigesse da’ metropolitani e da altri, segretamente, la notizia di quei vescovi, che poco attendono al bene delle lor pecorelle.
Bramerei ancora che si facesse intendere da per tutto che i vescovi trascurati, e che difettano o nella residenza o nel lusso della gente che tengono al loro servizio, o nelle soverchie spese di arredi, conviti e simili, saranno puniti colla sospensione o con mandar vicari apostolici a riparare i loro difetti; con darne l’esempio da quando in quando, secondo bisogna.

Ogni esempio di questa sorta farebbe stare attenti a moderarsi tutti gli altri prelati trascurati. Bramerei ancora che il Papa futuro fosse molto riserbato nel concedere certe grazie che guastano la buona disciplina; come sarebbe il concedere alle monache l’uscir dalla clausura per mera curiosità di vedere le cose del secolo, il concedere facilmente a’ religiosi la licenza di secolarizzarsi, per mille inconvenienti che ne vengono.

Sovra tutto desidererei che il Papa riducesse universalmente tutti i religiosi all’osservanza del loro primo Istituto, almeno nelle cose più principali.

Or via, non voglio più tediarla. Altro non possiamo fare che pregare il Signore, che ci dia un Pastore pieno del suo spirito, il quale sappia stabilir queste cose da me così accennate in breve, secondo meglio converrà alla gloria di Gesù Cristo».

 

Fonte: https://www.altaterradilavoro.com/quel-che-dovrebbe-fare-un-papa-secondo-santalfonso-maria-de-liguori/

La donazione di Trump per influenzare il Conclave? 14 milioni per tirare la volata a Prevost

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L’assegno staccato in occasione del funerale di papa Francesco. Il tycoon punta sull’attività negoziale del cardinale americano Dolan

Città del Vaticano, 8 maggio 2025 – Dollari, dollari e ancora dollari. Sembra quasi un déjà-vu rispetto al Conclave del 1922 quando furono proprio i dollari americani a salvare la realizzazione dell’elezione del Papa. In quel caso, dopo quattordici scrutini, venne eletto papa il cardinale Achille Ratti, che prese il nome di Pio XI.

Che il Vaticano sia in deficit non è una novità ma certo è stato ben accolto l’assegno di 14 milioni di dollari staccato da Donald Trump in occasione del funerale di Papa Francesco, quando ha avuto il colloquio a quattr’occhi con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky.

Una donazione molto generosa per un Vaticano che ha un deficit di circa 70 milioni di euro e che tira la volata a qualche candidato gradito proprio al presidente americano che è pur sempre impegnato in un grande sforzo di pacificazione mondiale.

Un’interferenza, un’indebita intromissione, un possibile caso di simonia? Le domande sono legittime, ma storicamente gli Stati Uniti sono insieme con la Germania tra i maggiori contributori della Santa Sede. Un’organizzazione che non vive del gettito fiscale, ma di una serie di entrate che puntano appunto sulle donazioni in primis e poi sui biglietti dei Musei Vaticani, concessione italiana ai tempi dei Patti Lateranensi.

Donald Trump, che è già stato in Vaticano come presidente degli Stati Uniti al primo mandato, sa come funzionano le cose di mondo. D’altronde anche nelle campagne presidenziali americane generosi donatori finanziano i possibili presidenti. E certo si tratta di una bella mano per un Vaticano che sta affrontando le spese extra e ingenti proprio del conclave, con il personale in pensione richiamato a mille euro per assistere la sicurezza, il servizio d’ordine, con le ingenti spese dei rifacimenti delle stanze di Santa Marta con nuove suppellettili e arredi di prim’ordine. Quando venne nel corso del suo primo mandato, Donald Trump fu accompagnato dalla moglie Melania che si aspettava da Jorge Mario Bergoglio una donazione per la sua Fondazione a sostegno dei bambini. Un vero equivoco: a sua volta il Vaticano si aspettava una donazione per il Bambino Gesù, l’ospedale che a Roma accoglie bambini malati e incurabili da tutto il mondo. Non se ne fece nulla e rimase molta ruggine.

Ma ora Francesco è morto, gli Stati Uniti rispolverano l’antica alleanza con il Vaticano (Pio XII temeva il rapimento da parte dei nazisti e per questo firmò una preventiva lettera di dimissioni che avrebbe invalidato un rapimento) e Trump ha un alleato di ferro nel Conclave come il cardinale di New York, Timothy Dolan. Non un papabile, ma un king maker. Uno che può dire la sua con una certa influenza.

In questi giorni Dolan, nelle sue stanze del Pontificio collegio americano vista Cupolone di San Pietro, ha avuto diversi incontri, colloqui. Probabilmente a favore del cardinale statunitense ma spendibile anche nel Sudamerica, Francis Prevost. Su di lui ci sarebbe stata in queste ultime ore una convergenza degli americani. Tra Nord, Sud e Centro America, un bel pacchetto di voti.

Ci vorrebbe un papa credente

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di Marcello Veneziani

Ma tu chi vorresti come Papa? È un toto-scommessa globale, l’Italia si scopre un popolo di vaticanisti della domenica; impazzano pronostici, dietrologie e papalipomeni, per parafrasare il titolo di un poemetto ironico di Giacomo Leopardi. I criteri per la scelta sono sommari e somatici, facciali e vocali; basta una battuta, una diceria su di uno o contro l’altro, o semplicemente la schedatura dei media, il papometro, per promuovere o bocciare un papa. Al vaticanista del terzo piano piace la sinistra perciò vuole un papa progressista, non è importante che sia cattolico; e sui media impazza l’offerta di due papi dem e italiani al prezzo di uno. Al vaticanista del piano di sotto, invece, piaceva Ratzinger, piacciono quelli della Tradizione, e via a cercare il papa giusto, magari un po’ meloniano. Ce ne sono anche qui un paio, di papi neri ma in questo caso si dovrebbe dire proprio negri per non confondere con un papa gesuita o addirittura un papa fascista. E altri più defilati. Poi c’è il papa sorteggiato alla Fiera campionaria, che risponde a quesiti etnico-turistici: per qualcuno stavolta ci vorrebbe un bel papa asiatico, magari cinese, quantomeno coreano. No, meglio africano, perché loro stanno peggio di tutti; eppure sarebbe un bel colpo un papazzo americano, magari anti-Trump, che scomunica chi mette i dazi e reputa peccato mortale baciare i deretani dei potenti, così il mainstream è contento. C’è chi la butta sull’anagrafe e chiede un Papa giovane, in salute, aitante, che guidi la sua papamobile e giochi a tennis con le guardie svizzere, in modo da non vivere più tra pontefici cagionevoli, assistiti e malridotti; un papa palestrato più che ospedaliero. Già, ma poi la Chiesa che fine fa, se il papa dura in carica mezzo secolo? Si riduce a una Monarchia Assoluta e Perpetua, diventa ereditaria, il Vicario diventa Titolare?

C’è chi invece punta sulla competenza e la specializzazione, un papa al passo dei tempi, magari indicato da Chat gbt prima che dallo Spirito Santo. Che so, un papa scienziato, un papa influencer, un papa manager, un papa partigiano, un papa attore globale o artista di strada, un papa trans o simili, come suggeriva il film…

Per taluni anche il papa se vuol essere davvero universale, cioè di tutti, deve seguire l’alternanza tra un credente e un laico, o magari dev’essere un fantasista eclettico e sincretico, ebreo-musulmano, con ascendente luterano e segno zodiacale buddista, cuspide shintoista e in transito un po’ induista. Un Papa arcobaleno, basta col bianco o il nero, che sia arancione come i guru, verde come i green, rosso e giallo, insomma di tutti i colori. Pace.

Il mainstream suggerisce ai condomini vaticanisti una parola magica: continuità. L’importante è che sia come Bergoglio, che la pensi come lui e segua la sua scia; e confidano sui vagoni di cardinali che Papa Francesco ha scaricato sul Conclave per garantire proprio quella continuità, che poi vuol dire pure – non dimenticatelo – polizza per la sua santificazione. Vogliono un Papa come Bergoglio che piace più ai non credenti che ai credenti, che sia inclusivo e accogliente, anche se le chiese si svuotano, non accolgono nessuno e i cattolici della tradizione e dell’ordo missae sono esclusi. Un papa green, femminista fino a un certo punto, aperto ai gay (ma non in chiesa, precisava Francesco), che sia neutrale sui temi sensibili e sensibile ai temi ideologici. Che dica pure le sue menate pacifiste, ecologiste e pauperiste, tanto non fermano i guerrafondai, gli avvelenatori del pianeta e i capitalisti; faccia pure le sue critiche a Israele, chi se lo fila, e perfino i suoi affondi sull’aborto e temi sconcertanti, che passeranno anche stavolta inosservati. Un papa così sta bene nel presepe globale, è un personaggio conforme al quadro generale; poi quando dice qualcosa di difforme rispetto allo Spirito del tempo, tutti fanno finta di non sentire. Guai a cambiare, squadra che perde non si cambia, è funzionale all’ateismo galoppante sulla terra, al relativismo, al nichilismo gaio e alla fluidità.

Già, ma tu chi vorresti come papa? Non li conosco abbastanza, i cardinali, per indicarne uno adatto al compito, mi auguro che stavolta lo Spirito Santo faccia la sua parte, venga ascoltato e ben interpretato. Posso solo dirvi come vorrei che fosse.

Innanzitutto vorrei un papa che creda davvero in Dio e se qualcuno pensa che io stia continuando a scherzare, avverto: no, il contrario, da qui in poi sono serio. Non è affatto scontato quel che ho detto; serpeggia una vena di scetticismo e di miscredenza anche in seno alla Chiesa. E la parola serpeggia mi sembra la più adatta. Certo, se uno la fede la perde, o vacilla, non può darsela né può fingere di averla. Ma il primo assoluto requisito che si richiede a un papa è dire, anzi gridare al mondo: Cari voi tutti, Dio esiste, anzi meglio: Dio è. (punto) Tutto ciò che è, è in Dio, Intelligenza dell’Essere. E poi via a rendere chiaro e semplice quel Principio, con le sue Implicazioni e conseguenze. Poi dal Padre scenderà al Figlio e da questo risalirà allo Spirito Santo, che è per un credente-pensante in Dio, la forza che muove l’Universo, spira e ispira.

Vorrei che il papa scommettesse tutto su Dio; poi il resto, l’amore, la santità, la bontà, la carità, la misericordia, il catechismo, vengono di conseguenza, alla Sua luce. Vorrei un papa che esprimesse il Pensiero più Forte e Potente che si possa pensare e dicesse: sono qui per Amor di Dio, ben sapendo che ogni tradizione ha la sua scala per andare verso di Lui. E poiché amo Dio amo tutto ciò che ne discende, ogni essere, in una gerarchia degli esseri e dei beni che va dall’uomo all’animale, dal regno vegetale al regno minerale; o che discende dal cielo alla terra, dal sole alla luna, dalla miriade di stelle ai miliardi d’anni luce.

Vorrei un papa che parlasse nel nome di Dio, senza pretendere di disporre della Verità, inconoscibile per intero anche a lui; e parlasse poi al mondo nel nome della Madonna e dei Santi, e solo dopo nel nome degli uomini, a partire dai poveri e dai malati, ma senza fermarsi a quelli. Il papa dei poveri, almeno nel nostro mondo italiano, europeo e nordoccidentale, sarebbe un papa per la minoranza, perché qui da noi i poveri sono la decima parte della popolazione; e degli altri nove decimi che ne facciamo? Così come il papa dei migranti, rispetto al mondo intero, sarebbe un papa per la minoranza dell’umanità, perché – non mi stancherò mai di dirlo – i migranti sono milioni, i restanti sono miliardi sulla faccia della terra. Cioè chi vive dove è nato, chi resta a casa, nella sua terra, sono la stragrande maggioranza degli otto miliardi di abitanti del pianeta.

Vorrei un Santo Padre che parlasse il linguaggio del sacro, e dunque parlasse attraverso i riti, i simboli, la liturgia, la tradizione, prima che attraverso i discorsi, le battute e i viaggi. Un papa che esprimesse il suo ruolo ieratico e pontificale, cioè di ponte tra l’umano e il divino, e i significati annessi a quel carisma e a quel soglio. Un papa cosciente di parlare a un mondo indifferente, cioè peggio che ostile, refrattario, sordo, cieco e indaffarato, che non sta ad ascoltarlo. Ma il papa non maledirà mai l’umanità distratta, li aspetterà al largo della loro vita, nutrendo fiducia che come tutti i nodi vengono al pettine, così tutti gli esseri tornano all’Essere.

Un papa così non si commissiona su Amazon né nasce dai magheggi dei cardinali maneggioni; lo trova solo lo Spirito Santo. Amen.

 

Fonte: https://www.marcelloveneziani.com/articoli/ci-vorrebbe-un-papa-credente/

L’udienza di San Pio X a Theodor Herzl, fondatore del sionismo

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Il 26 gennaio, 1904, Theodor Herzl ebbe udienza da Papa San Pio X, in Vaticano, per chiedere il suo sostegno allo sforzo sionista di stabilire uno stato ebraico in Palestina.
Questa è la sua versione dell’incontro, registrata nel suo diario.
Fui condotto dal Papa passando per un gran numero di piccoli saloni. Egli mi ricevette in piedi e mi tese la mano, che io non baciai… […] Io gli sottoposi brevemente il mio problema. Egli rispose con tono severo e categorico:
«Noi non possiamo sostenere questo movimento [sionista]. Non potremo impedire agli Ebrei di andare a Gerusalemme, ma in nessun caso possiamo sostenere la cosa. Anche se non è sempre stata santa, la terra di Gerusalemme è stata santificata dalla vita di Gesù Cristo. Come capo della Chiesa io non posso dirvi altro. Gli Ebrei non hanno riconosciuto Nostro Signore, e per questo noi non possiamo riconoscere il popolo ebraico». […]
Ecco, pensai, ricomincia il vecchio conflitto fra Roma e Gerusalemme; lui rappresenta Roma, io Gerusalemme […].
«Ma che dice, Santo Padre, della situazione attuale?» – gli chiesi –
Ed egli mi rispose: «Io so che è spiacevole vedere i Turchi in possesso dei nostri luoghi santi. Siamo costretti a sopportalo. Ma sostenere gli Ebrei perché ottengano essi i luoghi santi è una cosa che non possiamo fare».
Io feci notare che la nostra motivazione era il disagio degli Ebrei, e che intendevamo lasciare da parte le questioni religiose.
«Sì» – mi disse – «ma noi, e in particolare io, come capo della Chiesa, non possiamo farlo». Due sono i casi che possono presentarsi: o gli Ebrei rimangono fedeli alla loro credenza e continuano ad attendere il Messia, che per noi è già venuto; e in questo caso essi negano la divinità di Gesù e noi non possiamo fare alcunché per loro; o essi vanno in quelle terre senza alcuna religione, e in questo caso noi possiamo sostenerli ancora meno. La religione ebraica è stata la base della nostra, ma essa è stata rimpiazzata dalla dottrina di Cristo e da allora noi non possiamo più riconoscere la sua esistenza. Gli Ebrei, che avrebbero dovuto essere i primi a riconoscere Gesù Cristo, fino ad oggi non l’hanno fatto.»
Io stavo per dirgli: «E’ quello che accade in tutte le famiglie. Nessuno è profeta nella sua famiglia», e invece gli dissi: «Il terrore e le persecuzioni non erano certo i mezzi migliori per illuminare gli Ebrei»
E questa volta egli replicò con una semplicità disarmante: «Nostro Signore è giunto senza disporre di alcuna potenza. Era povero. E’ venuto in pace. Egli non ha perseguitato alcuno, ma è stato perseguitato. Anche gli Apostoli lo hanno abbandonato. E’ solo dopo che Egli è cresciuto: è solo dopo tre secoli che la Chiesa è stata stabilita. Quindi gli Ebrei hanno avuto tutto il tempo per riconoscere la divinità di Gesù Cristo senza alcuna pressione esterna. Ma non l’hanno fatto e continuano a non farlo fino ad oggi»
«Ma Santo Padre» – gli dissi – «la situazione degli Ebrei è spaventosa. Io non so se Vostra Santità si rende conto di tutta l’ampiezza di questo dramma. Noi abbiamo bisogno di un paese per i perseguitati».
Ed egli ha replicato: «E questo dev’essere Gerusalemme?»
 «Noi non chiediamo Gerusalemme» – ho replicato – «ma la Palestina, solo il paese profano» Ed egli mi ha risposto: «Noi non possiamo sostenere questa cosa».
«Santo Padre, lei conosce la situazione degli Ebrei?» gli chiesi.
«Sì, l’ho conosciuta a Mantova» – mi ha risposto – «dove vi sono degli Ebrei, D’altronde, io ho sempre avuto delle buone relazioni con gli Ebrei. Recentemente, una sera, sono venuti in visita da me due Ebrei. E’ vero che esistono dei rapporti che si collocano al di fuori della religione: dei rapporti di cortesia e di carità; noi non rifiutiamo agli Ebrei né gli uni né gli altri. Del resto, noi preghiamo per loro, affinché si illumini il loro spirito. Proprio oggi noi celebriamo la festa di un miscredente che, sulla via di Damasco si è convertito in maniera miracolosa al vero credo [San Paolo]. Così, se voi andate in Palestina e lì stabilite il vostro popolo, noi prepareremo delle chiese e dei sacerdoti per battezzarvi tutti».

LE ESEQUIE DELLA VERGOGNA (lettera aperta al Superiore della Fraternità S. Pio X di un suo gruppo di fedeli perplessi)

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Riceviamo e pubblichiamo questa lettera aperta al Superiore Generale della Fraternità San Pio X, dopo averne verificato l’autenticità. E’ un dato importante, che dona speranza, il fatto che non tutti i fedeli della congregazione di Mons. Lefebvre siano anestetizzati nella comodità parrocchiale dei lefebvriani, ma vi siano alcuni che, ancora, sanno ragionare da cattolici. Resta per noi sedevacantisti un dubbio preoccupante: perché questi buoni e rispettosi fedeli non si firmano? Da quel che ci è dato a sapere, vi è un generalizzato timore di ripercussioni nei confronti di coloro che non si sottomettono al “taci, prega e versa l’obolo” ma pongono interrogativi legittimi, che, fino a qualche decennio fa, facevano parte delle normali discussioni nell’ambiente tradizionalista. Chissà poi, se il destinatario della lettera aperta risponderà a questi “dubia” dei suoi fedeli o preferirà tacere, in continuità col metodo usato dal “Santo Padre”

 

LETTERA APERTA AL SUPERIORE GENERALE DELLA F.S.S.P.X.
Don Davide PAGLIARANI

 

LE ESEQUIE DELLA VERGOGNA

Rev. Don Davide PAGLIARANI
Con sommo dispiacere siamo venuti a conoscenza dai vari siti internet della F.S.S.P.X. e dalle omelie nelle cappelle dei Comunicati relativi alla celebrazione delle Sante Messe pubbliche nei Priorati in suffragio di Francesco I. Con tutto il rispetto “et debita reverentia” per sua dignità sacerdotale, la cosa ci appare non solo fuorviante, ma vergognosa e contro il Diritto della Chiesa, infatti, il Can. 1240 del Codice di Diritto Canonico del 1917 proibisce la Sepoltura Ecclesiastica ai pubblici peccatori e il Can. 1241 proibisce Messe pubbliche per chi è stato privato della Sepoltura ecclesiastica se non faranno pubblica ammenda dei loro peccati.

Sicuramente Lei sarà venuto a conoscenza di quanto operato da Francesco I in dodici anni dopo la sua elezione, dai riti con Pachamama, ai riti sciamanici in Canada, alle dichiarazioni sia sul Santissimo Sacramento che altri dogmi della Chiesa, al relativismo religioso ed irenico ecumenista, alla dichiarazione di Abu Dhabi, alla statua di Martin Lutero in Vaticano. Lei avrà letto gli atti pubblicati del suo magistero Amoris Laetitia e Fiducia Supplicans con i quali venivano in un certo qual modo giustificate le unioni di fatto sia eterosessuali che omosessuali. Per quanto riguarda la liturgia il documento Traditionis Custodes ha più o meno riportato la celebrazione della Messa tridentina all’indulto di Giovanni Paolo II. Da indiscrezioni pare (ed è doveroso), che Francesco I abbia rifiutato anche gli ultimi sacramenti, se fosse vero questo risulterebbe ancora più grave.

Se qualche vescovo o sacerdote prima del Vaticano II, avesse posto in essere le azioni e gli scritti di Francesco I non sarebbe stato considerato, come minimo, pubblico peccatore se non addirittura eretico e/o apostata e colpito da sanzioni canoniche?
D’altra parte lo stesso compianto Mons. Marcel Lefebvre disse già ai tempi di Giovanni Paolo II che “Roma era nell’apostasia e che non si poteva – con loro – collaborare perché noi lavoriamo per la cristianizzazione della società e loro per la scristianizzazione”? E alle consacrazioni episcopali “Che in Vaticano c’erano degli anticristi”?

Il comunicato diffuso dalla F.S.S.P.X. alla morte di Francesco potrebbe essere paragonato a quello di una Congregazione Religiosa al tempo della morte di Pio XII. Non una parola sulle sue deviazioni dottrinali teologico/morali, sull’ecumenismo, sul suo pontificato, che è stato il coacervo di ogni abominazione già perpetrata dai suoi predecessori della “chiesa conciliare” ed amplificato al sommo. Almeno nel Comunicato per la morte di Giovanni Paolo II si fece menzione dei suoi errori ecumenisti! Le esequie celebrate in Vaticano dalla “chiesa conciliare” non possono far testo, sono fatte da chi non distingue più il bene dal male ed il cattolicesimo per loro ha tutto un altro significato, ma noi cattolici ci adeguiamo ad una simile farsa contro il Magistero ed il Diritto della Chiesa di sempre?

A proposito dei funerali “modernisti” di Francesco, lui stesso ha voluto, alla faccia della semplicità, quasi uguagliare quelli di Pio XII, con un corteo funebre che si sarebbe dovuto svolgere a piedi per ben quattro chilometri per tutta Roma passando da Via dei Fori Imperiali, modificato, all’ultimo momento, per questioni di sicurezza, nella sola translazione in auto della bara. In realtà appare evidente, ci scusiamo se sbagliamo, che ormai i componenti della classe dirigente della F.S.S.P.X. si siano allontanati da quanto insegnato da Mons. Marcel Lefebvre e non abbiano capito o forse non vogliano capire quale sia il modernismo della “gerarchia della chiesa conciliare” infatti secondo i Superiori di Metzingen pare che questi, parafrasando una frase del Partito Comunista Italiano degli anni 70 siano, i compagni che sbagliano non terroristi, nel caso di specie, i modernisti conciliari sarebbero di conseguenza i fratelli che sbagliano, quindi non eretici, apostati e nemici della Verità rivelata. I dardi sono rivolti, piuttosto, contro i tradizionalisti non “allineati e coperti” alle direttive dei Superiori della F.S.S.P.X. o che la pensano diversamente in merito all’autorità.

A questo proposito un dubbio non Le è mai sorto a questo proposito? Forse le parole di Nostro Signore Gesù Cristo “Il Signore disse ancora Simone, Simone, ecco, Satana ha cercato di vagliarvi come il grano. Ma io ho pregato per te, affinché la tua fede non venga meno e quando ravveduto che sia, conferma i tuoi fratelli” erano vane e quindi, lo Spirito Santo assiste il Capo della Chiesa ad intermittenza? Le cose accadute in questi sessant’anni, non si sono mai verificate nella Chiesa, neppure nei periodi più bui e più mondani della storia ecclesiastica.

Questa non è soltanto una crisi, ma una rivoluzione conciliare, ovvero è il costante adeguamento ai principi ed enunciati dalle Rivoluzioni Americana e Francese, cioè ai principi della Massoneria. L’infiltrazione nella Chiesa della Massoneria è ormai ai più alti livelli e tutti gli atti pubblici promulgati dalla “gerarchia conciliare” hanno alla fine dei conti una radice negli ideali massonici. D’altra parte questi sono concetti che abbiamo nel tempo appreso proprio da lunghi anni di formazione del pensiero vissuti presso la FSSPX e nell’ambiente tradizionalista!

Sembra che una strana sindrome pervada la mente dei Superiori della F.S.S.P.X., quella che si potrebbe definire “del ponte sul fiume Kwai” un film del 1957, in cui i soldati Alleati prigionieri dei Giapponesi dopo aver costruito il ponte sul fiume, sono più legati al ponte costruito che ai loro Stati, e quando gli Inglesi cercano di bombardare il ponte sul fiume Kwai, sparano “come fuoco amico” contro gli aerei della loro coalizione. Similmente la classe dirigente della F.S.S.P.X. spara con “fuoco amico” contro gli stessi tradizionalisti che, non allineati, potrebbero mettere in discussione alcune loro scelte, come se la stessa F.S.S.P.X. fosse l’unica “Traditionis Custos” della Chiesa.

Una breve riflessione, prima di concludere questa lettera, La vorremmo invitare a fare: il Seminario di Econe dagli anni 70 ad inizio degli anni 90 dello scorso secolo fu un baluardo di cui la “chiesa conciliare” ebbe paura, successivamente sempre meno!
Una considerazione profonda, Reverendo Don Davide, dovrebbe avere il coraggio di fare e questa Le vorremmo suggerire, non certo per insegnarLe come comportarsi ed agire, “absit” ma perché si operi per il bene della Chiesa Una, Santa, Cattolica, Apostolica, e Romana; ed è la seguente: un pensiero pervade, ormai, molti cattolici rimasti fedeli alla Chiesa Cattolica di sempre, questa crisi così prolungata della Chiesa, non è solo frutto della deviazione dottrinale della gerarchia vaticano secondista, ma della divisione che si è verificata negli anni della resistenza cattolica, ben sfruttata dalla “chiesa conciliare” che conosce perfettamente l’antico adagio del “divide et impera”, divisione da imputarsi non sempre e solo ai peccati degli uomini di Chiesa e dei fedeli, ma anche all’ignavia della resistenza cattolica. Come diceva Don Francesco Putti “La Chiesa Cattolica continua a persistere da duemila anni, nonostante i peccati degli uomini di Chiesa”.

Nella speranza che la presente non possa aver turbato la già critica e precaria situazione dell’ambiente tradizionalista, Le porgiamo i più cordiali saluti e preghiere nel Signore ed imploriamo la Sua benedizione.

Roma 26 aprile 2025
Domenica in Albis

Un Gruppo di fedeli cattolici perplessi

 

Non Santo Padre ma Fratello

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di Marcello Veneziani

Papa Bergoglio è stato un papa umano, troppo umano. Ha fatto dell’umanità il senso e l’orizzonte del suo pontificato. Ha umanizzato il divino, ha desacralizzato la fede, ha socializzato la cristianità, ha tradotto la carità in filantropia. Non è stato Santo Padre ma Papa Fratello, e la sua fratellanza era un po’ come la fraternité sposata all’egalité. Il cristiano concepisce la fratellanza rispetto al Padreterno. Voleva abbattere muri e confini, aprirsi ai non credenti o ai credenti di altre fedi, ma ha eretto muri e solcato confini all’interno della cristianità, tra i cattolici della tradizione e i cattolici del progresso, ponendosi dalla parte di questi ultimi. Umano troppo umano è, come sapete, il titolo di un’opera di Friedrich Nietzsche; il filosofo dell’anticristo avrebbe ritrovato in lui esattamente quel che lui intendeva per cristianesimo e che avversava: la religione degli ultimi, la cristianità come preambolo religioso del socialismo, del pauperismo, il Vangelo come riscatto e denuncia sociale. In fondo la visione del cristianesimo in Nietzsche combacia con quella dei cristiani progressisti. Naturalmente è opposto il segno, negativo in Nietzsche e positivo in loro, ma la diagnosi è simile.

Non siamo nessuno per giudicare un papa, e la storia dirà qual è stata la sua impronta sulla Chiesa e sul mondo. Ma se è permesso esprimere in piena umiltà un sommesso parere sul suo papato, oltre le untuose ipocrisie che ci sommergono da due giorni, Francesco non è stato un grande Papa, o un Papa grande, come si dice nella Chiesa che intende la grandezza come presagio di santità. È stato, invece, un Papa Piccolo, che ha voluto rendere se stesso e la Chiesa all’altezza del mondo, dei tempi, della situazione sociale. Si è fatto piccolo per essere dentro questo tempo; umile se volete, anche se non di buon carattere.

Anche questa definizione di Papa Piccolo dovrebbe in fondo non dispiacere a chi ha esaltato in lui proprio questo suo aspetto di vicinanza all’umanità, a partire dagli esclusi. Il carisma è il segno di una raggiante paternità e di una luminosa presenza del divino in terra; Bergoglio ha invece scelto la via opposta, quella di umanizzare Cristo e il Vicario di Cristo in terra, fino a renderlo “uno di noi”. Non l’amore per il Lontano ma l’amore per i lontani, i più lontani dalla civiltà cristiana, dal nostro occidente, dalla chiesa, occupandosi largamente di migranti, cioè di coloro che venivano da altri mondi, da altre religioni. Non ha affrontato il nichilismo della nostra epoca, la desertificazione della vita spirituale, limitandosi a criticare legittimamente l’egoismo e la prepotenza. Ha cercato la simpatia, a tratti la piacioneria, più che la conversione e il mistero della fede.

È morto nel giorno del Sepolcro vuoto, il giorno che segue alla Pasqua, in cui l’Angelo annuncia alle donne che il Figlio è tornato dal Padre, non è più in terra, e anche questo – per chi crede ai simboli – è una coincideva significativa. Un giorno speciale, non solo perché lunedì dell’Angelo, ma perché quest’anno la pasqua cattolica coincideva con quella ortodossa; ed era il 21 aprile, il giorno del Natale di Roma, in cui il sole entra perfettamente nell’opaion del Pantheon, l’oculo aperto nella sommità del cerchio e trafigge il portone di bronzo e chi vi si pone alla soglia del tempo dedicato a tutti gli dei. Il suo papato è durato dodici anni, un tempo non lungo come quello di Giovanni Paolo II, né breve come quello dei papi meteore, come accadde a Giovanni Paolo I, Papa Luciani.

Lascerà un’eredità importante sul Conclave che dovrà eleggere il nuovo Papa e magari avviare la santificazione di Papa Bergoglio: ha eletto più cardinali di ogni altro predecessore, l’ottanta per cento del Conclave, lasciando così una larga maggioranza bergogliana. Per questo la sua eredità sarà davvero importante sul prossimo Conclave, a parte l’ispirazione dello Spirito Santo.

Non è riuscito a fermare l’emorragia della fede cristiana nel mondo, il calo senza precedenti di vocazioni in chiesa e nei conventi e di partecipazione dei fedeli ai sacramenti e alle messe; le chiese vuotate, la fede disertata.

Un processo lungo che dura da tempo, che si è accelerato almeno dai tempi del Concilio Vaticano II in poi e che i suoi predecessori non riuscirono ad arginare; con lui la scristianizzazione è stata ancora più vasta e veloce.

Papa Bergoglio raccoglieva simpatie di molti che cristiani e credenti non erano e che tali restavano; non ha convertito nessuno dei suoi simpatizzanti non credenti, mentre all’interno della cristianità, dicevamo, si è acuito il dissenso e la divisione tra i cattolici più legati alla tradizione e i cattolici più aperti ai tempi nuovi e al mondo sempre più scristianizzato. Ha dialogato più con i progressisti non cattolici che con i cattolici non progressisti; aperto ai primi, ostile ai secondi, la fede cattolica diventava una variabile secondaria rispetto alla posizione storico-sociale. Ha elogiato il dialogo intereligioso ma non a partire dai più vicini, come i cristiani ortodossi, di rito greco-bizantino, ma dai più lontani, come gli islamici e i più remoti nel mondo.

I suoi temi dominanti sono stati la pace, l’accoglienza, i migranti, l’ambiente, l’apertura alle donne con ruoli ecclesiali, il dialogo con gli atei. Ha denunciato le ingiustizie sociali, ha difeso i poveri, ha criticato il capitalismo e il consumismo, come è giusto che faccia un Papa. Ha tenuto fermi alcuni principi e alcune scelte di vita, in tema d’aborto, maternità, famiglia, lobby gay; ma i mass media hanno posto la sordina a questi suoi appelli in contrasto col mainstream. Anche in tema di pace ha fatto risuonare con forza la sua parola davanti alle guerre e ai genocidi senza distinguere tra gli uni e gli altri. Meno attento, invece, sulle persecuzioni dei cristiani nel mondo. È apparso refrattario ai riti, ai simboli, alla liturgia sacra.

Restano alcuni grandi e piccoli misteri, come il non essere mai tornato in dodici anni di pontificato nella sua Argentina; è stato in Brasile, ai suoi confini ma non ha mai varcato la soglia di casa, e su sui motivi di questa stranezza i media hanno sempre taciuto.

La chiesa che lascia è più fragile, disabitata e lacerata di quella, già in crisi, che raccolse dal suo predecessore, Papa Benedetto XVI. E gravata ancora da alcune ombre d’infamia, come la pedofilia e la corruzione, che funestano la chiesa, i sacerdoti, ormai da tanti anni.

Qualcuno per rispondere alla crisi di vocazioni e alla pedofilia, propone il matrimonio per i preti, ma non è un rimedio per nessuno dei due. Non entreremo nella spinosa questione della legittimità del suo pontificato, non ne abbiamo la competenza, ed è materia troppo delicata per affrontarla nel corso di un articolo. Siamo sempre stati combattuti tra l’ossequio al Papa, chiunque egli sia, per quel che comunque rappresenta e per la nostra inadeguatezza a giudicare, e la critica per alcune sue posizioni che erano in palese contraddizione con il magistero dei precedenti pontefici e con la lezione di santi, teologi e dottori della Chiesa.

La sua morte esige rispetto, pietà e preghiera per il suo ritorno al Padre. Bergoglio esercitò il suo ruolo di Pontifex innalzando ponti tra i popoli più che tra l’uomo e Dio. Non ha costruito ponti tra il tempo e l’eternità, ma tra la chiesa e il suo tempo, a senso unico. Infatti, la sua Chiesa si è aperta all’oggi ma l’oggi non si è aperto alla Chiesa.

 

Fonte: https://www.marcelloveneziani.com/articoli/non-santo-padre-ma-fratello/

LA FONDAZIONE DI ROMA

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Il presente articolo si basa su un recente studio, portato avanti dal prof. Arduino Maiuri, Uni di Roma Filologia greca e romana e dall’Ing. Felice Vinci, in cui i due ricercatori propongono una nuova interessantissima ipotesi sul motivo dell’improvvisa relegazione di Ovidio a Tomi sulle coste del Mar Nero.

Publio Ovidio Nasone, conosciuto come Ovidio, fu il poeta prediletto degli ambienti mondani della Roma augustea ma improvvisamente nell’8 d.C. venne colpito da un improvviso ordine di relegazione a Tomi, sulle coste del Mar Nero.

A 2000 anni dalla morte di Ovidio, il reale motivo del suo esilio è ancora sconosciuto.

Analizziamo gli antefatti

Al momento della sua condanna da parte di Augusto, il poeta era impegnato nella stesura dei Fasti un’opera che avrebbe dovuto comprendere 12 libri, uno per ogni mese dell’anno. Il poeta, ormai giunto a metà dell’opera interruppe il suo poema a metà, come lui stesso affermerà nei Tristia:

spezzò la mia sventura quest’opera, o Cesare, scritta da poco in nome tuo e a te consacrata.

Sempre nei Tristia afferma:

gli ultimi atti sono la mia rovina

e

due crimini mi hanno perduto, un carme e un errore, di questo devo tacere quale fu la colpa.
(Tristia II, 99)

ammettendo di aver commesso un crimine passibile della sentenza di morte (II 127 – 128), poi commutata da Augusto nell’esilio, presumibilmente con la promessa che il poeta non rivelasse mai il vero motivo della condanna (culpa silenda mihi).

La nuova ipotesi

La nuova ipotesi formulata dai due studiosi, si fonda su un passo del libro V dei Fasti, composto poco prima della condanna.

Ovidio, infatti, nell’occasione si sofferma su un inedito rapporto tra gli antefatti della fondazione di Roma e la costellazione delle Pleiadi, citando “la stella” che Cicerone negli Aratea definì Sanctissima Maia.

Indagando su questa connessione, a dir poco anomala, in quanto non ve n’è traccia nel resto della letteratura antica, gli autori  sviluppano una interessante ipotesi:  che i sette colli di Roma fossero l’immagine, riflessa sulla Terra, delle sette Pleiadi; ed in questo senso che la stella Maia – la cui controparte, sul piano strettamente speculare, sarebbe rappresentata dal colle Palatino, su cui Romolo fondò Roma – fosse la misteriosa divinità tutelare di Roma, il cui nome andava rigorosamente tenuto segreto.

L’argomento della nascita dell’Urbe è stato trattato da moltissimi scrittori, non solo Romani, ma nessuno ha mai menzionato Maia o le Pleiadi in rapporto con la fondazione di Roma. Sicuramente però Ovidio non si sarebbe mai permesso di inventare qualcosa di estraneo alla tradizione su un tema così importante, comincia così ad affacciarsi il dubbio che il poeta abbia toccato un argomento ritenuto tabù a cui non era lecito fare nemmeno un piccolo accenno.

Inevitabilmente i due studiosi collegano l’accaduto alla vicenda di Valerio Sorano, il quale secondo Plinio, fu condannato a morte per aver rivelato il nome segreto dell’Urbe ed è Plinio stesso che spiega i motivi per una tale severa condanna:

i Sacerdoti romani, prima dell’assedio di una città, ne invocavano la divinità protettrice, promettendole che in Roma avrebbe goduto di culto uguale se non maggiore, se avesse assistito i Romani nella conquista.

Dunque per evitare che i nemici facessero le stesse promesse, il nome della divinità protettrice della città doveva rimanere segreto.

Le Pleiadi

Le Pleiadi, conosciute anche come le Sette sorelle, la Chioccetta o con la sigla M45 del catalogo di Charles Messier, sono un ammasso aperto visibile nella costellazione del Toro. Questo ammasso, piuttosto vicino, conta diverse stelle visibili ad occhio nudo; anche se negli ambienti cittadini sono visibili solo cinque o sei delle stelle più brillanti, da un luogo più buio se ne possono contare fino a dodici.

Il Disco di Nebra che rappresenta anche 7 stelle delle Pleiadi

La grande visibilità delle Pleiadi nel cielo notturno ha fatto in modo che esse fossero considerate un importante riferimento in molte culture, sia antiche che presenti.

Per la mitologia Romana erano 7 sorelle, nella mitologia Greca erano chiamate anche “Colombe”, mentre per i Vichinghi erano le galline di Freyja; in molte lingue europee antiche sono infatti indicate come “galline” o “galli”. Secondo l’astrologia indiana le Pleiadi erano conosciute come l’asterismo (Nakshatra) Kṛttikā (“i coltelli” in sanscrito). Le Pleiadi erano chiamate “le stelle del fuoco” e la loro divinità è il dio vedico Agni, il dio del fuoco sacro.

Così sopra così sotto

La città di Roma sorge su un gruppo di alture e picchi, ma tutti sappiamo che da sempre, solo 7 sono stati considerati i colli di Roma.

Il layout della città posto all’interno delle Mura Serviane corrisponde, in modo inequivocabile, all’ammasso stellare, quasi a far sospettare che gli antichi Sacerdoti, o meglio il Pontefice Maximus, si fosse ispirato al punto di guidare lo sviluppo della città, nei primi secoli, come la proiezione sulla Terra del modello celeste, al centro del quale si trova la Sanctissima Maia. A quest’ultima in particolare corrisponderebbe la centralità del Palatino su cui Romolo, secondo la tradizione, aveva tracciato il solco della Città Quadrata.

Ora è plausibile che partendo dall’inedito collegamento proposto da Ovidio tra le 7 Pleiadi e la fondazione di Roma, una persona colta dell’epoca, potesse arguire che la città Quadrata fosse consacrata alla Dea Stella che le corrispondeva nel cielo la Sanctissima Maia, considerata dal Poeta la più bella delle Pleiadi (Fasti, 85-86).

Quindi sembrerebbe evidente che ciò che avrebbe causato l’esilio di Ovidio sarebbe stato l’innominabile collegamento tra le Pleiadi, Maia e la fondazione di Roma.

I due studiosi a questo punto si chiedono se dietro il numero di uccelli che la tradizione vuole avvistati da Remo sull’Aventino e da Romolo sul Palatino, rispettivamente 6 e 12, non si nasconda una sottile allusione al numero delle Pleiadi effettivamente visibile, che come già detto, può variare tra questi due estremi a seconda della situazione meteorologica e della vista dell’osservatore.

A ciò si aggiunga che, sempre secondo i Fasti, proprio il 1 maggio – mese che, secondo quello stesso passo, prenderebbe il nome proprio da Maia – ricorreva la festa della Bona Deamisteriosa divinità protettrice il cui nome non poteva essere rivelato, e ci informa Macrobio (scrittore della tarda latinità) che dietro la misteriosa Bona Dea si nascondeva proprio Maia:

secondo Cornelio Labeone alle calende di maggio fu dedicato un Tempio a Maia, cioè alla terra, sotto il nome di Boa Dea
(Saturnalia I, 12-21)

E sempre Macrobio scrive:

che il flamine di Vulcano alle calende di maggio officia un rito per questa Dea

Non è dunque un caso che Ovidio menzioni la Bona Dea proprio il 1 Maggio pochi versi dopo il discorso che attribuisce a Callisto.

Le Pleiadi e la data della fondazione di Roma

Premesso ciò, è ragionevole chiedersi se anche la data della fondazione dell’Urbe, il 21 aprile, non possa essere inquadrata nell’ipotizzato rapporto con le Pleiadi.

In proposito, una straordinaria conferma proverrebbe da uno studio recente (L. Verderame, Pleiades in ancient Mesopotamia, in Mediterranean Archaeology and Archaeometry 16 (2016), p. 109.) e della Società Italiana di Archeoastronomia, da cui si evince che in Mesopotamia:

Le Pleiadi svolgono un ruolo importante nel calcolo del calendario, un ruolo che è indicato negli almanacchi come il MUL.APIN

E non basta, dal momento che

il sorgere delle Pleiadi è fissato nel secondo mese del calendario Babilonese, cioè Ayāru (Aprile/Maggio). Da notare che il nome Sumero di questo mese è gu4.si.sá (“guidare il bue(buoi)”; gu4 ‘bue, toro’ “guida dei buoi” che si ricollega alla costellazione del Toro.

Si aggiunga che spesso questi astri, oltre a far parte della costellazione del Toro, nel contesto mesopotamico per sineddoche vengono addirittura identificati con essa.

In sostanza, dunque, il sorgere delle Pleiadi corrisponderebbe proprio con il primo giorno del secondo mese dell’anno mesopotamico, Ayāru, ossia aprile/maggio, che ricava il suo nome dalla costellazione del Toro in lingua sumerica: eppure ancora oggi quello che viene considerato il primo giorno del secondo mese dell’anno astrologico, corrispondente al segno del Toro, è il 21 aprile.

Inoltre va anche considerato l’aspetto agricolo del mese di Ayāru, allorché, sotto il segno delle Pleiadi, riprendevano i lavori dei campi. Tutto ciò rievoca senza dubbio l’immagine di Romolo, che con i suoi buoi spinge l’aratro mentre traccia il solco quadrato. D’altronde non è casuale che « il patrono del secondo mese del calendario Sumero sia  Ninĝir-su/Ninurta, Dio anche dell’agricoltura». Guerra e agricoltura: come si potrebbe sintetizzare meglio lo spirito della Roma arcaica?

Pertanto anche la data della fondazione di Roma, in aggiunta ai suoi sette colli, rappresenterebbe, di fatto, una nuova, stringente connessione con le Pleiadi.

Sembra davvero palese che la coincidenza tra la data della fondazione di Roma e l’inizio del segno del Toro, di cui le Pleiadi sono le stelle più rappresentative, non sia affatto casuale, anzi, riletta in questa ottica, sembra dotata di un formidabile significato sacrale, oltre che di un marcato valore astronomico e simbolico:

non solo i sette colli dell’Urbe rispecchierebbero sulla Terra l’aspetto delle Pleiadi, ma anche la data della sua fondazione ricalcherebbe con estrema precisione il ciclo annuo delle costellazioni sulla sfera celeste.

Simili dati sembrano rafforzarsi reciprocamente, rendendo particolarmente esigua, se non addirittura trascurabile, la probabilità che questa fitta rete di corrispondenze e rimandi dipenda da una mera casualità!!

Si ringrazia per l’ispirazione Siusy Blady che, con l’intervista a Felice Vinci sul suo canale Yotube, ha stimolato in noi la curiosità per andare oltre.

 

Fonte: https://emiliogiuliana.com/2-uncategorised/80-la-fondazione-di-roma.html

Il rigurgito dell’odio

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di Marcello Veneziani

Nell’aprile di cinquant’anni fa un ragazzo moriva dopo una lunga agonia. Si chiamava Sergio, Sergio Ramelli. Era un militante del Fronte della gioventù, l’organizzazione giovanile della destra nazionale, milanese, aveva scritto un tema in classe sul terrorismo delle Brigate rosse. Un gruppetto di studenti di Avanguardia Operaia pubblicò sulla bacheca all’entrata della scuola il suo tema, accompagnandolo con una scritta: “Ecco il tema di un fascista”. Poi fu aggredito, preso a pugni e sputi, deriso e dileggiato, fino a quando apparve la scritta “Ramelli fascista sei il primo della lista”. E una sera, mentre tornava a casa, fu aggredito da quattro militanti del gruppo di estrema sinistra che lo colpirono con la chiave inglese fino a sfondargli il cranio e lo lasciarono in una pozza di sangue sul selciato. Poi dopo alcune settimane di agonia, Sergio morì. Avevo allora la sua stessa età, ed ero stato anch’io da ragazzo militante del Fronte della gioventù, al mio paese. Sentì che con lui ero stata uccisa anche una parte di me, avrei potuto scrivere lo stesso tema e mi esponevo anch’io con la bandiera tricolore nelle piazze e le mie idee a scuola; ma ebbi la fortuna di vivere in un luogo meno rovente, dove non si usava la chiave inglese, e dove le parole raramente si facevano armi letali, al più scoppiavano tafferugli. Oggi quel ragazzo lo ricordano in tanti, non solo a destra; anche Walter Veltroni lo ha ricordato, e gli fa onore.

Di recente Giuseppe Culicchia gli ha dedicato un bel libro in cui ha ricostruito la vicenda e il clima terribile di quei giorni. S’intitola Uccidere un fascista, ed.Mondadori.

Sempre in aprile, “il più crudele dei mesi” secondo T.S.Eliot, a Roma, due anni prima erano stati trucidati due ragazzi, anzi un ragazzo e suo fratello, un bambino di dieci anni, colpevoli di essere figli del segretario locale della sezione del Movimento sociale. Furono bruciati in casa loro, mentre dormivano, in quello che sarà ricordato come il rogo di Primavalle. Gli assassini furono dei militanti di Potere Operaio. Era una casa popolare, era una famiglia umile, con sei figli, poteva essere una strage con più vittime. Si chiamavano Virgilio e Stefano Mattei.

Altri nomi di vittime della violenza mi sovvengono ma evito di elencarli. Su molti di loro, a parte i rituali dei militanti e i loro nomi citati nei comizi e nei manifesti missini, calò il silenzio e l’omertà, come se fossero figli di un dio minore, o peggio di un dio malvagio, vittime maledette, incluso quel bambino di dieci anni.

Lascio stare le accuse e le recriminazioni, in una stagione che ebbe tante vittime tra i ragazzi di destra ma anche di sinistra, oltre che tra i giovani in divisa, le forze dell’ordine. Ma vorrei constatare che furono vittime di una guerra mai nata, di una rivoluzione abortita; vittime di uno scontro in cui ci furono sì criminali e vittime, ma non ci furono vincitori né vinti, perché alla fine non trionfò né la rivoluzione comunista dei loro carnefici né la rivolta ideale di quei giovani neofascisti. È terribile morire in una guerra civile ma più terribile è morire in tempo di pace; quando partecipi a una guerra civile sai a cosa puoi andare incontro perché sai che stai combattendo per una causa e in una sfida in cui uno alla fine trionferà sull’altro. Ma nel caso degli anni di piombo e delle violenze che imperversarono negli anni settanta, c’è pure la beffa di una storia inconcludente, che non ebbe esiti, se non la vittoria dello status quo e di un mondo che non piaceva né alle vittime né ai carnefici. Il loro sacrificio non servi a nulla, nemmeno ai fini cinici e impietosi della storia. Non ebbe effetti, fu solo male su male. Il potere restò inalterato, i governi continuarono a succedersi nella stessa formula, con gli stessi protagonisti; il potere politico non ne ebbe a soffrire. Per usare il gergo del tempo, vinse il Sistema, che entrambi avversavano seppure con motivazioni diverse.

La loro unica motivazione fu paradossalmente retroattiva: era un conto residuo della guerra civile, che ora compie 80 anni; quei ragazzi morivano nel nome del passato, di un passato che non avevano conosciuto, il regime fascista e la guerra partigiana, e la speranza abortita di una rivoluzione dopo la resistenza, l’avvento di un regime comunista, proletario, che non vide mai la luce né mai avrebbe potuta vederla, perché il mondo in quel tempo si atteneva a una rigida spartizione, decisa a Yalta, in cui alcuni paesi sarebbero rimasti sotto l’ombrello americano e altri sotto il tallone sovietico.

Dunque la ragione della loro guerra era puramente retroattiva e simbolica, riguardava trent’anni prima e un’altra generazione, e comunque non avrebbe potuto cambiare gli assetti nazionali e mondiali prestabiliti. Puro rancore rimasto nell’aria del tempo. Pura contabilità dell’odio, permanenza del livore elevato a categoria antropologica, senza più ragion d’essere, senza nessun futuro e nessun presente.

E quanto quell’odio sia ancora circolante lo dimostra un ennesimo strascico dei nostri giorni. Che risale ancora a un aprile di sangue, non di trent’anni fa ma addirittura di ottantun’anni fa. È stata negata l’intitolazione di una rotonda di Firenze al più grande filosofo italiano del Novecento, Giovanni Gentile, su cui spesso abbiamo scritto e di cui in questi giorni è uscito un densisssimo e umano ritratto della sua vita in famiglia: s’intitola proprio La famiglia Gentile. Lettere e fotografie dal 1900 al 1945, un corposo volume pubblicato dalle edizioni Le Lettere, dei nipoti del filosofo ucciso.

A negare l’intitolazione toponomastica al filosofo è stata tra gli altri il sindaco di Firenze, o la sindaca, fate voi – non bado a queste minchiate – Sara Funaro del partito democratico. Dimenticando l’umanità di suo nonno, il sindaco di Firenze ai tempi dell’Alluvione, lo scrittore cattolico e politico democristiano Piero Bargellini, il sindac* (o/a) in carica della città in cui visse e morì Gentile, ha rigettato la proposta prendendosela con la destra al governo che “ha ancora lo sguardo rivolto agli anni peggiori del nostro passato”. Non vorrei ricordare, ancora una volta, la coerenza e l’umanità di Gentile, il suo ruolo di pacificatore che si assunse in piena guerra mondiale e civile, la sua difesa di antifascisti ed ebrei, la sua siderale distanza dal nazismo; mi limito a dire che fu un grande filosofo, come pochi ce ne sono nell’arco di secoli, e che fu riconosciuto tale da grandi studiosi di ogni versante; fu grande ministro della pubblica istruzione, fondatore di importanti istituzioni culturali, come l’Enciclopedia Italiana Treccani. E aggiungo che col miserabile criterio di cancellare la memoria di chi ha avuto legami con poteri nefasti, noi dovremmo cancellare la memoria di Seneca perché fu consigliere di Nerone; e perfino quella dei due più grandi filosofi dell’antichità, Platone, che fu consigliere del tiranno di Siracusa, e Aristotele, il “maestro di color che sanno”, che fu precettore di un Imperatore spietato come Alessandro Magno. E potremmo continuare la caccia nei secoli. Questo ennesimo esempio meschino di cancel culture mostra quanta barbarie sia ancora operante nel nostro tempo; quanto odio sia ancora attivo e rigurgitante, come un vomito permanente, sulla nostra storia, sul nostro pensiero, sulla nostra civiltà e umanità.

Il mondo cambia, anche troppo, il tempo corre in fretta, ma loro sono ancora lì, fermi, a sputare sui morti e a negare onorata sepoltura anche ai più grandi. Vomito ergo sum, è ormai il loro codice di vita e il loro motto araldico.

https://www.marcelloveneziani.com/articoli/il-rigurgito-dellodio/

Fonte:

Il sinedrio di Caifa condannò a morte Gesù

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Sotto riporto uno scritto dell’acutissimo e dottissimo storico Rutilio Sermonti, il quale fuga ogni dubbio dall’ennesimo ignobile tentativo di riscrivere falsamente la storia, quella di Ponzio Pilato.

di Rutilio Sermonti

Le responsabilità al loro posto.

(aurhelio.it) – Da romano quale mi vanto di essere, desidero assumere la difesa di Ponzio Pilato, quell’ottimo uomo e onorato funzionario, che viene ingiustamente vituperato, come ormai da secoli accade per l’azione sottile dell’ebraismo rabbinico, che – facendo scempio delle risultanze evangeliche – cerca di liberarsi dell’accusa di deicidioscaricandola sui Romani, e su quello in particolare.

Cominciamo col porre in chiaro che, all’epoca del processo a Gesù, la Giudea non era provincia romana, bensì “federata”. Il rappresentante del proconsole di Cesarea (come era il procuratore Pilato) aveva quindi giurisdizione politico-militare soltanto sui delitti di infedeltà a quel “foedus”, mentre, per tutti gli altri, e a maggior ragione quelli di sacrilegio contro la legge mosaica, la Competenza esclusiva era dell’autorità locale ebraica, e cioè del Sinedrio. Infatti, quando le guardie del Sinedrio (non i soldati romani!) arrestarono Gesù, cercarono di farlo condannare da Pilato con l’accusa di sedizione contro Roma.

Pilato interrogò accuratamente l’imputato, e la sua sentenza fu: “Io trovo quest’uomo immune da colpa”. Mi sembra un’assoluzione, o sbaglio? E anche in seguito, insistendo gli ipocriti accusatori che Egli si sarebbe proclamato re, chi rispose loro: “Ma il suo regno non è di questa Terra”? Fu proprio Ponzio Pilato.

E la narrazione evangelica continua. Quando sentì che il presunto delitto di sedizione politica, a carattere continuativo, sarebbe iniziato in Galilea, Pilato (probabilmente ben lieto in cuor suo di liberarsi di quegli austeri scocciatori), esattamente applicando il rito vigente, si dichiarò incompetente per territorio e rimise la causa al tetrarca di Galilea, Erode Antipa. Ebbene – registra l’evangelista – quando anche Erode dichiarò Gesù innocente “da quel giorno Pilato ed Erode, che erano prima in pessimi rapporti, divennero amici”. Quindi, la convinzione dell’innocenza del Cristo coinvolgeva Pilato anche sentimentalmente, al punto che la comune appartenenza al “partito innocentista” valeva anche a cancellare una precedente personale antipatia.

Ma il procuratore non si fermò li. Si impegnò per salvare Gesù anche al di là del proprio dovere istituzionale tanto da compromettere il proprio “cursus honorum”, al quale si sa quanto i Romani tenessero.

Consideriamo l’episodio della pasqua ebraica nella sua vera luce, coerentemente ai rievocati precedenti. Era tradizione che, in quel giorno, il popolo potesse graziare un condannato a morte. I condannati erano due: Gesù Nazareno e un certo Barabba, ladrone da strada e assassino. Pilato sapeva bene che Gesù era molto popolare (non poteva essergli sfuggita la domenica delle palme, proprio in Gerusalemme), e sapeva anche che il sinedrio lo odiava per quello e per la sua severa accusa contro la maggioranza di Farisei e Sadducei.

Si illuse quindi che, ricorrendo al popolo, egli sarebbe riuscito – senza violare la legge – a strappare il perseguitato dalle grinfie del suoi nemici. Sottovalutava l’astuzia o la perfidia dei vertici ebraici, che, prevedendo la sua mossa, avevano provveduto a far affluire per tempo nella non grande piazza una folta schiera di loro servitori e clienti, con istruzioni ben precise: Accadde così che, contro ogni logica, il risultato della “consultazione popolare” fu “Libera Barabba!”, sebbene Pilato fosse ricorso anche all’astuzia di far comparire il suo protetto in pubblico conciato in modo “teatralmente” idoneo (dice bene Sisto) a muovere a compassione.

Pilato, allora, costatata l’impossibilità di smuovere la marmaglia lì sotto dal proprio partito preso, grida “io sono innocente del sangue di questo giusto.”

Affermazione, quella, certo inconciliabile con l’ipotesi che egli stesso lo avesse condannato poco prima a morte e spiegabile soltanto col fatto che la condanna fosse stata pronunziata da “altri”, e che lui, Pilato, fosse – com’era – giuridicamente impotente ad impedirne l’esecuzione. Potete del resto passare alla lente d’ingrandimento i quattro vangeli, e non vi troverete il minimo cenno, non dico a una condanna di Cristo pronunziata da Pilato, ma neppure di una sua minima espressione che non fosse in Sua difesa, mentre più volte il testo dichiara che il Sinedrio, ad ogni costo, “voleva la sua morte”. Fu dunque il sinedrio, non Pilato, il giudice che condannò Gesù, e su questo non possono sussistere dubbi, essendo addirittura …Vangelo.

E arriviamo alla famosa “lavata di mani”. Si tratta di una patente mistificazione, che nessuno sembra avvertire. E le mistificazioni non sono mai casuali. Sta di fatto che solo pochi secoli dopo il fatto, al pubblico gesto di Pilato si attribuiva generalmente e pacificamente il significato di disinteressarsi, di tirarsi fuori vilmente e alibisticamente, tanto da usare comunemente l’espressione “lavarsene le mani” nel senso di estraniarsi da qualcosa, di sfuggire a una responsabilità. E’ un grossolano falso. Per un romano del primo secolo, il lavaggio delle mani (acqua lustrale) era un atto di purificazione.
Orbene, ci si purifica da qualcosa di indegno, di sporco, di impuro. E, se il gesto viene volutamente compiuto in modo pubblico, in presenza di altre persone, come Pilato volle che fosse, esso implica un’offesa gravissima alle medesime, una esplicita dichiarazione che il contatto con loro ci abbia contaminato, trattandosi di cosa ignobile, come certamente appariva a Pilato il complotto dei Farisei e loro complici contro il “giusto” Nazareno.

Iesus Nazarenus Rex Iudaeorum – ordinò fosse scritto sulla tabella infissa al patibolo, e quando i sinedriali gli chiesero di modificarlo in “preteso re” fu irremovibile: “Quello che ho scritto, ho scritto!”.

È poco noto, ma la cosa, unita all’inaudito sfregio della catinella, procurò al procuratore un petulante ricorso ebraico all’imperatore, che valse al nostro la rimozione dall’incarico, essendosi giudicata prevalente la ragion di Stato che si mantenessero buoni rapporti con le autorità locali dei “federati”. Ci vollero altri quarant’anni perché Domiziano facesse quel che il modesto Pilato aveva, quel giorno tremendo, tanta voglia di fare!

Hanno fatto di lui il simbolo dell’indecisione, della pusillanimità, dell’incoerenza, mentre i suoi atti furono ineccepibili sia giuridicamente che umanamente. Vorrei proprio vedere, al suo posto, quelli che usano con disprezzo il verbo “pilateggiare”. Hanno fatto di lui l’aguzzino del Signore, quando egli lo difese persino quando i Santi Apostoli lo avevano abbandonato.
Perciò non condivido le idee di coloro che vorrebbero affibbiare a quel nostro degno antenato anche la taccia di positivista ante litteram oppure di sciocco. Essi risentono, si rifletta, della figura spregevole di Pilato confezionata dai veri deicidi. Gesù – della cui statura sovrumana il Romano aveva chiaramente avuto, se non conoscenza, almeno sentore – si dichiara a lui testimone della verità. E Pilato, come qualunque persona di una certa levatura, che non avesse assistito alla predicazione nei tre anni decorsi, gli chiese a quale verità alludesse. Non mi sembra proprio che occorra attribuire il silenzio di Gesù, piuttosto che alla materiale impossibilità di spiegare tutto a un pagano con una frase, o allo stato di estrema prostrazione fisica in cui si trovava, a un tacito rimprovero, né di dare alla domanda posta un senso… pirandelliano. Non mi risulta punto, infatti, che vi fosse la pena capitale per una mancanza di riguardo verbale a un qualsiasi funzionario dell’impero, né che i Romani, che hanno insegnato il diritto a tutto il mondo, sparassero pene di morte isteriche a casaccio. No, il perché del silenzio di Gesù lo sa solo Lui e così continui ad essere.

Quel che mi preme, è correggere l’ingiusto giudizio negativo su Ponzio Pilato, cittadino romano, e questo proprio alla luce dei vangeli.

Non si tratta di una mia peregrina opinione, dato che, nel calendario dei Cristiani Copti, il 25 giugno è dedicato a un Santo di nome Ponzio Pilato.

 

Fonte: https://emiliogiuliana.com/8-notizie/24-il-sinedrio-di-caifa-condanno-a-morte-gesu.html

Quando il destino del mondo fu deciso a Povegliano

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di Angelo Paratico

 

Presso Verona, nel 249, si decise la sorte del mondo occidentale con una battaglia campale fra l’imperatore Filippo l’Arabo (Marcus Iulius Philippus Augustus) e Decio (Gaio Messio Quinto Traiano Decio) che prevarrà, anche se potrà regnare per soli due anni.

Lo scontro avvenne verso la fine di agosto e gli inizi di settembre del 249.  L’imperatore Filippo l’Arabo venuto a conoscenza della ribellione di Decio, da lui inviato ad arginare gli sconfinamenti dei Goti sui confini danubiani, raccolse un esercito e marciò verso nord, puntando su Verona per bloccarlo. Decio era un abile soldato e statista, originario della odierna Serbia e membro del senato romano. Filippo era conscio del valore del suo oppositore, per questo motivo lo aveva mandato a contrastare i Goti, ma le legioni si erano ribellate a Decio e gli avevano imposto di mettersi alla loro testa, per marciare su Roma.

Non sappiamo dove si svolse lo scontro fraterno fra i due eserciti ma con ogni probabilità avvenne tra Povegliano e l’odierna Villafranca, una vasta zona pianeggiante e ricca d’acqua, un luogo ideale per ampie manovre di cavalleria e di fanteria. La strada seguita da Decio, che risaliva dalla odierna Bulgaria, per marciare su Verona, fu quasi certamente da Aquileia, con una deviazione verso il Veneto, evitando gli impegnativi passi alpini.

Filippo l’Arabo, lui stesso un usurpatore, era originario di un villaggio a novanta chilometri da Damasco e, a parte la sua intelligenza, salì al trono con l’inganno e la frode. Forse aveva avvelenato il suo diciannovenne predecessore, un valoroso imperatore, Gordiano III, che si trovava impegnato a combattere contro i persiani. Nel 244 prese il suo posto e firmò subito un trattato con i nemici per rientrare velocemente a Roma e ottenere la conferma dal Senato.  Acclamato nuovo Augusto dalle truppe, approfittò dell’anniversario dei mille anni dalla fondazione di Roma da parte di Romolo, che cadeva proprio nel 248, per offrire al popolo dei sontuosi festeggiamenti e guadagnarsi il loro favore.

Decio, nella primavera del 249 si trovò alla testa di almeno tre legioni: la Legio IIII Flavia Felix, la XI Claudia e la Legio X Fretensis e altre truppe barbare di supporto. Parliamo di circa 40 mila uomini per il suo esercito, inclusa la cavalleria. Filippo l’Arabo ne poteva avere circa 50/60amila, ma i suoi soldati avevano poca fiducia in lui, considerandolo un uomo giunto al potere grazie alla sua furbizia, più che al suo valore o al suo sangue.

E così il destino del mondo fu deciso a Povegliano

La disciplina e il valore dei soldati di Decio, pur in inferiorità numerica e stanchi per le lunghe marce, ebbero la meglio. Un grandissimo numero di uomini di Filippo l’Arabo caddero uccisi sul campo. Lo stesso Filippo vi fu ammazzato, forse in battaglia o forse decapitato dai suoi generali per porre fine allo scontro. Aveva circa 45 anni e il suo figlio undicenne, Filippo II, a Roma fu ucciso dai pretoriani, assieme al fratello di Filippo, Prisco e ad altri membri della famiglia imperiale.

Il problema creato dallo spostamento delle legioni di Decio dai confini orientali incoraggiò i Goti e i Carpi a sfondare le frontiere e ciò causò molta instabilità negli anni successivi, che poi Gallieno, Costantino e Diocleziano faticheranno a contenere, sino a giungere alla caduta definitiva dell’Impero d’Occidente, un secolo e mezzo dopo lo scontro avvenuto nelle campagne di Povegliano.

 

Fonte: https://www.giornaleadige.it/2025/04/16/destino-mondo-deciso-a-povegliano/

I violenti non hanno posto a Lonate Pozzolo in Provincia di Varese. La presidente dell’Anpi esclusa dalle celebrazioni per il 25 aprile

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di Angelo Paratico

“La De Tomasi non è gradita a Lonate Pozzolo” ha comunicato la giunta di Lonate Pozzolo presieduta dal sindaco Elena Carraro. Questa pare essere la prima ripercussione dopo i fatti di Luino: la presidente provinciale dell’Anpi, Ester De Tomasi non sarà gradita a Lonate Pozzolo (provincia di Varese) in occasione delle celebrazioni per il 25 aprile.

Il sindaco Elena Carraro con l’appoggio di Lega e Fratelli d’Italia dice che si tratta di una scelta obbligata in seguito a quanto accaduto lo scorso lunedì a Palazzo Verbania a Luino, dove la De Tomasi si è rivolta verso lo studente di 19 anni Samuel Balatri, reo di aver espresso la sua opinione, affermando di volerlo prendere a schiaffi. La De Tomasi avrebbe dovuto partecipare a due eventi in occasione dell’ottantesimo anniversario della Liberazione: il primo a Sant’Antonino Ticino, in occasione dell’apposizione della targa al partigiano Annunciato Crivelli, il secondo a Lonate al Parco delle Rimembranze. Per quanto riguarda l’appuntamento di Sant’Antonino Ticino, la targa non è ancora pronta e dunque la commemorazione è stata rimandata. Mentre a Lonate la De Tomasi “non è gradita”, ma nonostante ciò i partigiani avranno una propria rappresentanza alle celebrazioni.

Il bel sindaco leghista Elena Carraro mostra ancora una volta il suo coraggio; in passato aveva ricevuto decine di lettere minatorie e i carabinieri hanno dovuto arrestare uno stalker che la perseguitava, eppure non arretra dalle sue posizioni e mantiene ancora una volta il punto.

Fonte: https://giornalecangrande.it/i-violenti-non-hanno-posto-a-lonate-pozzolo-in-provincia-di-varese-la-presidente-dellanpi-esclusa-dalle-celebrazioni-per-il-25-aprile/

Pop Vicenza, l’epilogo in Cassazione. “Assoluzione” per la politica e la BCE

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di Angelo Paratico

POP VICENZA, PENA ANCORA RIDOTTA PER ZONIN

MAI EMERSE LE ALTRE RESPONSABILITà DEL CRAC

Fonte: https://www.giornaleadige.it/2025/04/12/pop-vicenza-epilogo-in-cassazione/

L’eresia antiliturgica dai Giansenisti a Giovanni XXIII

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di don Francesco Ricossa

La Liturgia, considerata in generale, è l’insieme dei simboli, dei canti e degli atti per mezzo dei quali la Chiesa esprime e manifesta la sua religione verso Dio” (Dom Guéranger. Institutions Liturgiques). Questa definizione della Sacra Liturgia ci fa apprezzare l’importanza capitale del culto pubblico che la Chiesa rende a Dio. Nell’Antico Testamento Dio stesso si fa, per così dire, liturgista, precisando nei minimi particolari il culto che Gli dovevano rendere i fedeli (cfr. il Libro Levitico; e anche Pio XII, Mediator Dei, 12). Tanta importanza per un culto che non era che l’ombra (Ebrei, 10,1) di quello sublime del Nuovo Testamento che Gesù, Sommo Sacerdote, vuole continuato fino alla fine del mondo per mezzo della Sua Chiesa…!. Nella Divina Liturgia della Chiesa Cattolica tutto è grande, tutto è sublime, fin nei minimi particolari; è questa la verità che fece pronunciare a Santa Teresa d’Avila queste celebri parole: “Darei la mia vita per la più piccola delle cerimonie della Santa Chiesa”. Non si stupisca quindi il lettore dell’importanza che daremo in quest’articolo alle rubriche liturgiche e l’attenzione che presteremo alle “riforme” (che potrebbero essere giudicate minori) che hanno preceduto quelle del Concilio Vaticano II. Consci dell’importanza della Liturgia sono sempre stati, d’altro canto, i nemici della Chiesa: dobbiamo ricordare che da sempre la corruzione della Liturgia fu un veicolo, da parte degli eretici, per attentare alla Fede stessa? Lo fu con le antiche eresie cristologiche, e poi, via via, col luteranesimo e l’anglicanesimo nel XVI secolo, con le riforme illuministe e gianseniste nel XVIII secolo… per concludere con lo stesso Concilio Vaticano II che non a caso iniziò i suoi lavori di “Riforma” proprio con lo schema sulla Liturgia, sfociato nel “Novus Ordo Missae”.

ORIGINI DELLA “RIFORMA” LITURGICA DEL VATICANO II

La “Riforma” liturgica voluta dal Vaticano II e realizzata nel post-concilio è una vera rivoluzione: “la via aperta dal Concilio è destinata a cambiare radicalmente il volto delle assemblee liturgiche tradizionali” ammette Mons. Annibale Bugnini, uno dei principali artefici di detta “riforma”, aggiungendo che si tratta di un “reale stacco dal passato”. (Bugnini, La Riforma Liturgica [1948-1975] CLV Edizioni Liturgiche – 1983) Ora, nessuna rivoluzione esplode improvvisamente, ma è il frutto di lunghi assalti, lente cadute e progressivi cedimenti. Lo scopo del nostro articolo è di mostrare al lettore, dopo un’introduzione di carattere storico, le origini della rivoluzione liturgica specialmente dopo un esame delle riforme delle rubriche avvenute nel 1955 e nel 1960. Infatti, se “una radicale rottura con la Tradizione si è compiuta ai nostri giorni con l’introduzione del Novus Ordo Missae e dei nuovi libri liturgici (…) è doveroso domandarsi dove affondino le radici di tanta desolazione liturgica. Che esse non siano da ricercare esclusivamente nel Concilio Vaticano II sarà chiaro ad ogni persona di buon senso. La Costituzione liturgica del 4 dicembre 1963 rappresenta la conclusione temporanea di una evoluzione le cui cause molteplici e non tutte omogenee risalgono a un lontano passato”. (Mons. Klaus Gamber. Die Reform der Römischer Liturgie. Vorgeschichte und Problematik. pag. 9 e 10 dell’ed. italiana).

L’ILLUMINISMO

“La piena fioritura della vita ecclesiale nell’età barocca (Controriforma e Concilio di Trento. N.d.R.) fu investita, verso la fine del sec. XVIII, dal gelo dell’Illuminismo. Si era insoddisfatti della Liturgia tradizionale perché si reputava che troppo poco corrispondesse ai problemi concreti del tempo”. (Mons. Gamber, op. cit., pagg. 15-16). L’Illuminismo razionalista trovò il terreno preparato ed un solido alleato nell’eresia Giansenista, che come il protestantesimo, di cui era la quinta colonna, avversava la Liturgia Romana tradizionale. Giuseppe II nell’Impero Asburgico, l’episcopato gallicano in Francia, quello toscano in Italia, riunito nel Sinodo di Pistoia, attuarono riforme ed esperimenti liturgici “che somigliano in modo sorprendente agli attuali: sono altrettanto fortemente orientati verso l’uomo ed i problemi sociali”. (Gamber. op. cit., pag. 16) “Possiamo pertanto affermare che nell’Illuminismo affonda la più tenace radice dell’attuale desolazione liturgica. Molte idee di quell’epoca hanno trovato piena attuazione soltanto nel nostro tempo, in cui si assiste a un nuovo illuminismo”. (Gamber. op. cit., pag. 17) L’avversione alla tradizione, la smania di novità e riforme, la sostituzione graduale del latino col volgare, e dei testi ecclesiastici e patristici con la sola Scrittura, la diminuzione del culto della Madonna e dei Santi, il razionalismo contro i miracoli ed i fatti straordinari narrati nelle letture liturgiche dei Santi, la soppressione del simbolismo liturgico e del mistero, la riduzione infine della Liturgia, giudicata eccessivamente ed inutilmente lunga e ripetitiva…: ritroveremo tutti questi capisaldi delle riforme liturgiche gianseniste nelle riforme attuali, ad incominciare da quella di Giovanni XXIII. La Chiesa, nei casi più gravi, condannò i novatori: così Clemente IX condannò il Rituale della Diocesi d’Alet nel 1668, Clemente XI condannò l’oratoriano Pasquier Quesnel (1634-1719) nel 1713 (Denz. 1436), Pio VI dannò il Sinodo di Pistoia ed il Vescovo Scipione de’ Ricci con la Bolla “Auctorem Fidei” del 1794. (Denz. 1531-1533)

IL MOVIMENTO LITURGICO

“Una reazione al gelo illuministico è rappresentata dalla restaurazione del secolo XIX.(…) Sorsero allora la grande abbazia benedettina di Solesmes, in Francia, e quella della Congregazione di Beuron”. (Gamber. pag. 17) Dom Prosper Guéranger (1805-1875), Abate di Solesmes, restaurò in Francia l’antica liturgia latina e diede la nascita ad un movimento, poi chiamato “liturgico”, teso a far amare ed a difendere la liturgia tradizionale della Chiesa. Tale movimento operò per il bene della Chiesa fino a San Pio X, che con le sue decisioni rimise in onore il canto gregoriano e trovò un equilibrio ammirabile tra ciclo Temporale (feste del Signore, Domeniche e ferie) e quello Santorale (feste dei Santi).

DEVIAZIONI DEL MOVIMENTO LITURGICO

Dopo San Pio X, poco a poco, il cosidetto “Movimento Liturgico” deviò dai suoi intenti, per raggiungere, con una rivoluzione copernicana, le tesi che combatteva nel suo nascere. Tutte le idee dell’eresia antiliturgica – come Dom Guéranger chiamava le tesi liturgiche del XVIII secolo – furono riprese negli anni venti e trenta da liturgisti come Dom Lambert Beauduin (1873-1960) in Belgio e Francia, Dom Pius Parsch e Romano Guardini in Austria e Germania.Partendo dalla “Messa dialogata”, a causa di “una eccessiva enfasi data alla parte attiva dei fedeli nelle funzioni liturgiche”, (Gamber. pag. 17) i riformisti degli anni ’30 e ’40 giunsero (specialmente nei campi scout e nelle associazioni giovanili e studentesche) ad introdurre de facto nientemeno che la Messa in volgare, la celebrazione su di un tavolo faccia al popolo, la concelebrazione… Fra i giovani sacerdoti che si dilettavano di esperimenti liturgici c’era a Roma, nel 1933, il cappellano della F.U.C.I., tal Giovanni Battista Montini, per fortuna contrastato dal Cardinal Vicario. (Fappani-Molinari. Montini giovane. Ed. Marietti 1980. pagg. 282-292). In Belgio, Dom Beauduin dava al Movimento Liturgico un fine dichiaratamente ecu-menista, ipotizzando una Chiesa Anglicana “unita (alla cattolica), ma non assorbita” e fondando un “Monastero per l’unione” con gli “ortodossi” orientali, col risultato di “convertire” molti dei suoi monaci allo scisma orientale. Roma interviene: l’Enciclica contro il Movimento ecumenico, “Mortalium animos” (1928) è seguita, nel 1929 e 1932 da (troppo) discreti richiami che lo distolgono temporaneamente dalle sue attività. (Cfr. Bonneterre. Le Mouvement Liturgique. Ed. Fideliter. 1980. pagg. 35-42). Gran protettore del Beauduin era – naturalmente – il Card. Mercier, iniziatore dell’ecumenismo “cattolico” e definito dal “Sodalitium Pianum” come “amico di tutti i traditori della Chiesa”. (Poulat. Intégrisme et catholicisme integral. Castermann. pag. 330). Negli anni ’40 il lavoro di sabotaggio di simili liturgisti aveva già ottenuto il sostegno di vaste parti dell’episcopato, specialmente in Francia (col C.P.L.: centro di pastorale liturgica) e nel Reich tedesco. All’inizio del 1943, il 18 gennaio, “venne lanciato l’attacco più serio contro il Movimento Liturgico (…) da parte di un eloquente e vigoroso membro dell’episcopato, l’Arcivescovo di Friburgo (in Brisgau) Conrad Gröber. (…) In una lunga lettera indirizzata ai confratelli Vescovi, Gröber raccoglieva in 17 punti le sue preoccupazioni concernenti la Chiesa. (…) Criticava la teologia kerigmatica, il movimento di Schönstatt, ma soprattutto il Movimento Liturgico (…) coninvolgendo implicitamente anche il Card. Theodor Innitzer. (…) Pochi sanno che il p. Karl Rahner s.j. che viveva allora a Vienna (diocesi del Card. Innitzer. N.d.R.), scrisse (…) una risposta a Gröber. (Robert Graham s.j. Pio XII e la Crisi liturgica in Germania durante la guerra. La Civiltà Cattolica. 1985 pag. 546). Ritroveremo Karl Rahner come esperto conciliare dell’episcopato tedesco al Concilio Vaticano II assieme ad Hans Küng e Schillebeeckx. La questione arrivò a Roma: nel 1947 l’Enciclica di Pio XII sulla liturgia, “Mediator Dei”, avrebbe dovuto sancire la condanna del Movimento liturgico deviato. Pio XII “espose fortemente la dottrina cattolica” (…) “ma questa enciclica fu sviata nel suo senso dai commenti che ne fecero i novatori; e Pio XII, se ricordò i principi, non ebbe il coraggio di prendere delle misure efficaci contro le persone; si sarebbe dovuto sciogliere il C.P.L. e vietare un buon numero di pubblicazioni. Ma queste misure avrebbero avuto come conseguenza un conflitto aperto con l’episcopato francese”. (Jean Créte. Le Mouvement Liturgique. Itinéraires. Gennaio 1981. pagg. 131-132). Misurata la debolezza di Roma, i novatori capirono di poter andare (prudentemente) avanti: dalle sperimentazioni si passò alle riforme ufficiali romane.

LE RIFORME DI PIO XII

io XII non stimava gravissimo il problema liturgico che metteva a confronto i Vescovi tedeschi: “Produce in noi una strana impressione”, scriveva a Mons. Gröber, “se, quasi al di fuori del tempo e del mondo, la questione liturgica viene presentata come il problema del momento”. (Lettera di Pio XII a Mons. Gröber del 22 agosto 1943. Cit. in R. Graham, op. cit. pag. 549) Se con queste parole sconfessava gli esponenti del Movimento liturgico, Pio XII ne sottovalutava anche il pericolo. I novatori seppero così infiltrare il loro cavallo di Troia nella Chiesa attraverso la porta, quasi incustodita, della Liturgia, approfittando della poca attenzione di Papa Pacelli in materia e coadiuvati da persone molto vicine al Pontefice come il suo stesso confessore Agostino Bea s.j., futuro Cardinale ed esponente di spicco dell’Ecumenismo (cfr. mio articolo su “Sodalitium”: Il Gran Sinedrio in Vaticano per il XX del Concilio). È illuminante questa testimonianza di Mons. Bugnini: “la Commissione (per la riforma della Liturgia istituita nel 1948) godeva della piena fiducia del Papa, tenuto al corrente da Mons. Montini e, più ancora, settimanalmente, dal P. Bea, confessore di Pio XII. Grazie a questo tramite si potè giungere a risultati notevoli anche nei periodi nei quali la malattia del Papa impediva a chiunque di avvicinarlo”. (Op. Cit., pag. 22) Padre Bea fu all’origine della prima riforma liturgica di Pio XII, ovverosia la nuova traduzione liturgica dei Salmi, che sostituì quella della Volgata di San Gerolamo così invisa ai protestanti in quanto traduzione ufficiale della Sacra Scrittura nella Chiesa, dichiarata “autentica” dal Concilio di Trento. A questa riforma (Motu proprio “In cotidianis precibus” del 24 marzo 1945) il cui uso era, almeno in teoria, facoltativo e che ebbe poca fortuna, ne fecero seguito altre più durature ed ancora più gravi: 18 maggio 1948: costituzione, con a segretario Annibale Bugnini, di una commissione Pontificia per la Riforma della Liturgia (simile, anche nel nome, al “consilium ad exequendam constitutionem de Sacra Liturgia” istituito da Paolo VI nel 1964 e che partorita la “Nuova Messa”); 6 gennaio 1953 (Costituzione Ap. “Christus Dominus”) sulla riforma del digiuno eucaristico; 23 marzo 1955, (decreto “Cum hac nostra aetate”), riforma (non pubblicata negli A.A.S. e non stampata nei libri liturgici) delle rubriche del Messale e del Breviario; 19 novembre 1955 (decreto Maxima Redemptionis), nuovo rito della Settimana Santa, già iniziato per quanto riguarda il Sabato Santo, ad experimentum, nel 1951. Alla riforma della Settimana Santa dedicheremo il capitoletto seguente; che dire, nel frattempo, di quella delle Rubriche e del Messale, operata lo stesso anno da Pio XII? Essendo state dichiarate facoltative, si tende a dimenticarle: esse furono tuttavia una tappa considerevole della Riforma Liturgica. Assorbite ed aumentate dalla riforma di Giovanni XXIIII, le esamineremo in dettaglio con quelle del successore. Basti dire, per ora, che la Riforma del 1955 tendeva ad abbreviare l’Ufficio divino e diminuire il culto dei santi: tutte le feste di rito semidoppio e semplice diventavano semplici commemorazioni, in quaresima e passione diveniva libera la scelta tra l’ufficio di un santo e quello feriale, veniva diminuito il numero delle vigilie e ridotte a tre le ottave. Soppressi i “Pater, Ave e Credo” da recitare prima delle ore liturgiche, veniva tolta anche l’antifona finale alla Madonna (tranne che a Compieta) ed il Simbolo di Sant’Atanasio (tranne che una volta l’anno). Il Bonneterre, nella sua opera citata, pur riconoscendo che le riforme della fine del pontificato di Pio XII sono “le prime tappe dell’autodemolizione della liturgia romana” (non vediamo come la Liturgia possa “autodemolirsi” N.d.R.) cerca di garantire la loro perfetta legittimità a causa della “santità” di chi le ha promulgate. “Pio XII” scrive “ha dunque intrapreso con ogni purezza d’intenzione delle riforme rese necessarie dai bisogni delle anime senza rendersi conto – E NON LO POTEVA – che scuoteva la liturgia e la disciplina in uno dei periodi più critici della loro storia, e soprattutto senza realizzare che metteva in pratica il programma del movimento liturgico deviato”, (pagg. 105, 106, 111) Commenta Jean Crété: “Don Bonneterre riconosce che questo decreto segna l’inizio della sovversione della liturgia, ma cerca di scusare Pio XII dicendo che a quell’epoca nessuno, tranne gli uomini del partito della sovversione, potevano rendersene conto. Posso, al contrario, dargli una testimonianza categorica su questo punto. Mi rendevo benissimo conto che questo decreto non era che l’inizio di una sovversione totale della liturgia; e non ero il solo. Tutti i veri liturgisti, tutti i sacerdoti attaccati alla tradizione, erano costernati. La congregazione dei riti non era favorevole a questo decreto, opera di una commissione speciale. Quando, cinque settimane più tardi, Pio XII annunciò la festa di San Giuseppe operaio (che spostava la festa antichissima degli Apostoli Filippo e Giacomo e sopprimeva la Solennità di San Giuseppe Patrono della Chiesa N.d.R.) l’opposizione si manifestò apertamente: durante più di un anno la congregazione dei riti rifiutò di comporre l’ufficio e la messa della nuova festa. Furono necessari molti interventi del Papa perché la congregazione dei riti si rassegnasse, malvolentieri, a pubblicare alla fine del 1956 un’ufficio così mal composto che si può chiedere se non sia stato sabotato volontariamente. Ed è solo nel 1960 che furono composte le melodie (che sono dei modelli di cattivo gusto) dell’ufficio e della messa. Raccontiamo questo episodio poco noto per dare un’idea della violenza delle reazioni suscitate dalle prime riforme liturgiche di Pio XII”. (Crété. Op. cit., pag. 133)

IL NUOVO RITO DELLA SETTIMANA SANTA

”Il rinnovamento (liturgico) ha mostrato chiaramente che le formule del messale romano dovevano essere riviste ed arricchite. Il rinnovamento è stato iniziato dallo stesso Pio XII con la restaurazione della veglia pasquale e dell’Ordo della Settimana Santa, CHE COSTITUÌ LA PRIMA TAPPA DELL’ADATTAZIONE DEL MESSALE ROMANO AI BISOGNI DELLA NOSTRA EPOCA”. Sono queste le parole stesse di Paolo VI nella “promulgazione” del nuovo messale. (“Cost. Ap. Missale Romanum” del 3 aprile 1969). Analogamente, da sponda diversa, scrive Mons. Gamber: “Il primo Pontefice che abbia apportato un vero e proprio cambiamento al Messale tradizionale fu Pio XII, con l’introduzione della nuova liturgia della Settimana Santa. Riportare la cerimonia del Sabato Santo alla notte di Pasqua sarebbe stato possibile senza grandi modifiche. A lui seguì Giovanni XXIII con il nuovo ordinamento delle rubriche. Anche in queste occasioni, comunque, il Canone della Messa restò intatto (Quasi. Ricordiamo l’introduzione del nome di San Giuseppe nel Canone, voluta da Giovanni XXIII durante il Concilio, contro la tradizione che vuole nel Canone solo nomi di Martiri, da unire al Grande Martire Gesù nel Suo Sacrificio N.d.R.), non venne minimamente alterato, ma dopo questi precedenti, è vero, furono aperte le porte a un ordinamento della Liturgia Romana radicalmente nuovo”. (Op. cit., pag. 22). Il decreto “Maxima Redemptionis” col quale si introduce nel 1955 il nuovo rito parla esclusivamente del cambiamento di orario delle cerimonie del Giovedì, Venerdì e Sabato Santo, per facilitare ai fedeli l’assistenza ai Riti sacri riportati dopo secoli alla sera; ma in nessun passaggio del decreto si fa il minimo accenno al drastico mutamento dei testi e delle cerimonie stesse instaurato col nuovo rito e per nulla giustificato da un qualsivoglia motivo pastorale! In realtà il nuovo rito della settimana Santa fu una prova generale della riforma; lo testimonia il domenicano modernista Chenu: “Padre Duployé seguiva tutto ciò con una lucidità appassionata. Mi ricordo che mi disse un giorno, ben più tardi: – Se riusciamo a restaurare la vigilia pasquale nel suo valore primitivo il movimento liturgico avrà vinto; mi do dieci anni per questo -. Dieci anni dopo era cosa fatta.” (Un théologien en liberté. J. Dunquesne interroge le P. Chenu. Le Centurion. 1975. pag. 92-93) Infatti, il nuovo rito della Settimana Santa, inserendosi come un corpo estraneo nel resto del messale ancora tradizionale, seguiva i principi che ritroveremo nelle riforme di Paolo VI nel 1965. Facciamo alcuni esempi: Paolo VI sopprimerà nel 1965 l’ultimo vangelo: nel 1955 è soppresso dalla settimana Santa. Paolo VI sopprimerà il Salmo “ludica me” con le preghiere ai piedi dell’altare: lo stesso anticipava la Settimana Santa del 1955. Paolo VI (seguendo Lutero) vorrà la celebrazione della Messa “faccia al popolo”: il Novus Ordo della Settimana Santa inizia con l’introdurre tale uso ogni volta che è possibile (specialmente il giorno delle Palme). Paolo VI vuole diminuito il ruolo del sacerdote, sostituito ad ogni piè sospinto dai ministri: nel 1955, di già, il celebrante non legge più le letture, epistole e Vangeli (Passio) che sono cantate dai ministri -benchè facciano parte della Messa- e va a sedersi, dimenticato, in un angolo. Paolo VI, nella stessa Nuova “Messa” del 1969, col pretesto di restaurare l’antico rito romano, sopprime dalla Messa tutti gli elementi della liturgia “gallicana” (anteriore a Carlo Magno) seguendo un cattivo “archeologismo” condannato da Pio XII. Scompare così l’offertorio (con gaudio dei protestanti) sostituito con un rito talmudico che con l’antico rito romano non c’entra niente. Seguendo lo stesso principio il nuovo rito della Settimana Santa sopprime tutte le orazioni di benedizione delle Palme (tranne una), l’epistola, offertorio e prefazio che precedevano, la messa dei presantificati il Venerdì Santo… Paolo VI, sfidando gli anatemi del concilio di Trento, sopprime l’ordine sacro del Suddiaconato; il nuovo rito della Settimana Santa lascia in scena un Suddiacono sempre più inutile, visto che lo sostituisce il Diacono (Orazioni del Venerdì Santo al “levate”) o il coro ed il celebrante (all’adorazione della croce). Paolo VI vuole l’ecumenismo? La nuova Settimana Santa lo inaugura, chiamando l’orazione del Venerdì Santo per la conversione degli eretici: “orazione per l’unità della Chiesa” ed introducendo la genuflessione all’orazione per i Giudei che la Chiesa negava loro in odio al delitto compiuto il Venerdì Santo. I simbolismi medioevali sono soppressi (apertura della porta della Chiesa al canto del Gloria Laus, per esempio) la lingua volgare introdotta (promesse bettesimali), il Pater Noster recitato da tutti (venerdì santo), le orazioni per l’Impero sostituite da altre per i governanti la “cosa pubblica” dal sapore molto moderno. Nel Breviario si sopprime il così commovente “Miserere” ripetuto a tutte le ore. Viene rivoluzionato il Preconio Pasquale sopprimendo il simbolismo delle sue parole; sempre il Sabato Santo otto letture su dodici sono soppresse. Il canto della Passione, così toccante, subisce dei gravissimi tagli: scompare persino l’ultima Cena, nella quale Gesù, già tradito, ha celebrato per la prima volta nella storia il Sacrificio della Messa. Il Venerdì Santo viene distribuita la comunione, contrariamente alla tradizione della Chiesa ed alla condanna di San Pio X contro chi voleva instaurare questo uso. (Decreto Sacra Tridentina Synodus – 1905) Tutte le rubriche, poi, del nuovo rito del 1955, insistono continuamente sulla “partecipazione” dei fedeli da un lato, mentre d’altro canto deprecano come abusi molte delle devozioni popolari (così care ai fedeli) che accompagnano la Settimana Santa. Questo seppur sommario esame della riforma della Settimana Santa consente al lettore – così almeno pensiamo – di rendersi conto di come i “periti” che fabbricheranno 14 anni dopo la Nuova “Messa” avevano usato – e sfruttato – la Settimana Santa per compiere su di essa -tamquam in corpore vili- i loro esperimenti rivoluzionari da applicare a tutta la Liturgia.

GIOVANNI XXIII

A Pio XII succede Giovanni XXIII, Angelo Roncalli. Professore al Seminario di Bergamo, fu inquisito perché seguiva i testi del Duchesne, proibiti, sotto San Pio X in tutti i seminari italiani, e la cui opera “Histoire ancienne de l’Eglise”, finì all’Indice. (Poulat. Catholicisme, démocratie et socialisme. Pag. 246 e 346; Maccarrone: Mgr. Duchesne et son temps. 1975. pag. 469-472) Nunzio a Parigi, Roncalli svelerà la sua adesione alle tesi del Sillon, condannate da San Pio X (si legga tutto il testo della condanna, pubblicato in “Sodalitium” n. 4, Agosto-Settembre-Ottobre 1984), con una lettera alla vedova di Marc Sangnier, fondatore del movimento proscritto, nella quale, tra l’altro, scrive: “Il fascino potente della sua parola (di Sangnier N.d.r.), della sua anima, mi avevano incantato e conservo della sua persona e della sua attività politica e sociale il ricordo più vivo di tutta la mia giovinezza sacerdotale”, (lettera del 6 giugno 1950. Cfr. Itinéraires, n. 247, nov. 1980, pag. 152-153). Nominato Patriarca di Venezia, Mons. Roncalli darà pubblico benvenuto ai socialisti giunti nella sua città per il congresso del partito. Divenuto Giovanni XXIII crea Cardinale Mons. Montini, indice il Concilio Vaticano II e scrive l’Enciclica “Pacem in terris” nella quale afferma di già, cammuffandola con una frase volutamente ambigua, quella libertà religiosa che sarà proclamata dal Concilio, come testimonia il neo-Cardinale Pavan, collaboratore di Giovanni XXIII. L’atteggiamento di Giovanni XXIII, alla morte di Pio XII nel 1958, non poteva essere diverso, in materia liturgica, a quello dimostrato negli altri campi. Ben lo sapeva Dom Lambert Beauduin, ormai noto al lettore come quasi capostipite del movimento liturgico modernista, ed amico di Roncalli dal lontano 1924. P. Bouyer testimonia che Dom Beauduin gli disse il giorno della morte di Pio XII: “Se eleggessero Roncalli, tutto sarebbe salvato: sarebbe capace di convocare un Concilio e di consacrare l’Ecumenismo…”. (Bouyer. Dom L. Beauduin, un homme d’Eglise. 1964. pag. 180-181). Il 25 luglio 1960 Giovanni XXIII pubblica il Motu proprio “Rubricarum Instructum”. Già aveva deciso di convocare il Vaticano II e di procedere alla riforma del Diritto Canonico; con questo Motu Proprio Giovanni XXIII assorbe ed aggrava le riforme delle rubriche del 1955-56: ”Siamo arrivati alla decisione” scrive “che si doveva presentare ai Padri del futuro Concilio i principi fondamentali concernenti la riforma liturgica, e che non si doveva differire ulteriormente la riforma delle rubriche del Breviario e del Messale romano”. In questo quadro così poco ortodosso, con artefici così dubbi, in un clima già “conciliare”, nascono il Breviario ed il Messale di Giovanni XXIII, concepiti come “Liturgia di transizione” destinata a durare, come durò, tre o quattro anni: transizione tra la liturgia cattolica consacrata al Concilio di Trento e quella eterodossa preconizzata dal Vaticano II.

“L’ERESIA ANTILITURGICA” NELLA RIFORMA DI GIOVANNI XXIII

Abbiamo visto precedentemente come il grande Dom Guéranger definì “eresia antiliturgica” l’insieme dei falsi principi liturgici del XVIII secolo ispirati dall’illuminismo e dal Giansenismo. Vorrei mostrare in questo capitoletto la somiglianza, a volte letterale, tra le riforme di quel secolo lontano e quelle di Giovanni XXIII.

  • Riduzione del Mattutino a tre lezioni. L’Arcivescovo (terzaforzista, cioè filo-giansenista) di Parigi, Vintimille, nella sua riforma del Breviario del 1736 “ridusse la maggior parte degli Uffici a tre lezioni, per renderli più corti”. (Guéranger. Institutions Liturgiques. Extraits. Ed. Chiré. p. 171) Giovanni XXIII nel 1960 riduce anch’egli a 3 sole lezioni la quasi totalità degli Uffici. Ne consegue la soppressione di un terzo della Sacra Scrittura, dei due terzi delle vite dei Santi e dei quasi tre terzi (la totalità) dei commenti dei Padri alla Scrittura. Per aiutare il lettore gli mostriamo, in un piccolo schema, ciò che resta del Mattutino (tranne che nelle feste di I e II classe) dopo la riforma,tenendo presente che il Mattutino è una parte considerevole del Breviario.
  • Diminuzione delle formule di stile ecclesiastico a favore della Sacra Scrittura. “Il secondo principio della setta antiliturgica è di rimpiazzare le formule di stile ecclesiastico con delle letture della Sacra Scrittura”. (Guéranger. op. cit., p. 107) Mentre il Breviario di San Pio X faceva commentare la Sacra Scrittura dai Padri, quello di Giovanni XXIII, lasciate praticamente intatte le lezioni scritturali, come abbiamo visto sopra, le lascia senza il commento della Chiesa, sopprimendo il commento patristico (soppresso il commento all’Antico Testamento o alle epistole, 5 o 6 righe di commento al Vangelo della domenica).
  • Togliere le feste dei santi dalla Domenica. “È il loro (dei giansenisti. N.d.r.) grande principio della santità della domenica che non permette che si degradi questo giorno fino a consacrarlo al culto di un santo, nemmeno della Santa Vergine. (…) A più forte ragione i doppi maggiori o minori, che diversificano così piacevolmente per il popolo fedele la monotonia delle domeniche, ricordandogli gli amici di Dio, le loro virtù e la loro protezione, non dovevano essere rinviati per sempre a giorni infrasettimanali nei quali la loro festa passerebbe silenziosa ed inavvertita?”. (Dom Guéranger. Pag. 163) Giovanni XXIII, andando ben oltre la riforma equilibrata di San Pio X, raggiunge quasi alla lettera l’ideale degli eretici giansenisti: solo nove feste di Santi possono vincere sulla domenica (S. Giuseppe di marzo e di maggio, tre feste mariane: Annunciazione, Assunzione e Immacolata, S. Giovanni Battista, SS. Pietro e Paolo, S. Michele e Ognissanti) contro le 32 che contava il calendario di San Pio X, molte delle quali erano antiche feste di precetto. Per di più, la Domenica, Giovanni XXIII abolisce le memorie dei Santi. Per ottenere questi scopi, la riforma del 1960 eleva tutte le domeniche al rango di I e II classe, e riunisce quasi tutti i santi in una III classe creata ex novo, annullando, come vediamo dallo schema, quei doppi maggiori o minori che loda Dom Guéranger.
  • Favorire l’ufficio della feria alle feste dei Santi. Dom Guéranger descrive poi così le mosse gianseniste: “Il calendario sarà ormai epurato e lo scopo, ammesso da Grancolas (1727) e dai suoi complici, è di fare che il clero preferisca l’officio della feria a quello dei Santi. Che spettacolo pietoso! Vedere penetrare nelle nostre chiese delle massime infette di calvinismo e così volgarmente opposte a quelle della Sede Apostolica, che da due secoli non ha cessato di fortificare il calendario della Chiesa con l’arrivo di nuovi protettori!”, (op. cit. pag. 163) Giovanni XXIII ha soppresso totalmente 10 feste dal calendario (11 in Italia, con la festa della Madonna di Loreto) ha ridotto 29 feste di rito semplice e 9 di rito più elevato al rango di commemorazione, facendo così prevalere l’ufficio feriale; con la soppressione di quasi tutte le ottave e le vigilie ha sostituito altre 24 ferie a uffici di Santi (calcolando per difetto, non tenendo conto dei calendari particolari e delle feste mobili); infine, con le nuove regole di quaresima che vedremo poi, altri 9 Santi, ufficialmente nel calendario, non verranno mai festeggiati. Concludendo, la riforma del 1960-1962 sacrifica ad una “massima calvinista”, epurandole, circa 81, 82 feste di santi.

Dom Guéranger precisa che i Giansenisti soppressero le feste dei Santi in quaresima (op. cit. pag. 163). Allo stesso modo si comporta Giovanni XXIII, salvando solo le feste di I e II classe; poiché la loro festa cade sempre in Quaresima, non si festeggerà mai più un S. Tommaso d’Aquino, un S. Gregorio Magno, S. Benedetto, S. Patrizio, S. Gabriele Arcangelo ecc.

  • Censurare i miracoli dalle vite dei Santi che sembrano leggendarie. Era il principio dei liturgisti illuministi (“le vite dei santi furono spogliate di una parte dei loro miracoli e dei loro racconti pii” Dom Guéranger, pag. 171). Abbiamo visto che la riforma del 1960 sopprime 2 delle 3 lezioni del 2° Notturno, in cui si leggono le vite dei Santi. Ma ciò non bastava. Come abbiamo detto 11 feste sono totalmente soppresse, probabilmente perché “leggendarie” per i razionalisti preconciliari: per esempio S. Vitale, l’Invenzione della S. Croce, il martirio incruento di S. Giovanni alla Porta Latina, l’apparizione di S. Michele sul Gargano, S. Anacleto, S. Pietro in Vincoli, l’Invenzione ( = Ritrovamento) di S. Stefano, la Madonna di Loreto (una casa che vola!!. Ci si può credere nel XX secolo?); tra le votive, S. Filomena (che stupido il Curato d’Ars che ci credeva). Altri Santi poco illuministi sono eliminati più discretamente: la Madonna del Carmelo e della Mercede, S. Giorgio, S. Alessio, S. Eustachio, le stimmate di S. Francesco, restano come memoria in un giorno feriale. Partono anche due Papi, sembra senza motivo: S. Silvestro (troppo Costantiniano?) e S. Leone II. Quest’ultimo, forse, perché condannò Papa Onorio, e Giovanni XXIII… Segnaliamo infine un “capolavoro” che ci tocca da vicino. Dall’orazione della Messa della Madre del Buon Consiglio la riforma del 1960 ha tolto le parole che parlavano della apparizione miracolosa della Sua immagine. Se la Casa di Nazareth non può volare a Loreto, figuriamoci se un quadro che era in Albania può volare a Genazzano.
  • Spirito antiromano. I Giansenisti soppressero una delle 2 feste della Cattedra di San Pietro, al 10 gennaio, come pure l’Ottava di San Pietro (Dom Guéranger, pag. 170). Identiche misure con Giovanni XXIII.
  • Soppressione del Confiteor prima della comunione dei fedeli. (Messale di Trojes)(Dom Guéranger, pag. 149, 150, 156). Medesima cosa nel 1960.
  • Riforma del Giovedì, Venerdì e Sabato Santo. Nel 1736, col Breviario di Vintimille, “fatto gravissimo e, ancor più, dolorosissimo per la pietà dei fedeli” (Dom Guéranger, pag. 170, 171). Qui Giovanni XXIII è stato preceduto, come abbiamo visto! Idem con la soppressione di quasi tutte le Ottave (uso, che si trova già nel Vecchio Testamento, di solennizzare le grandi feste per otto giorni) anticipata dai Giansenisti nel 1736 (pag. 171) e ripetuta nel 1955-60.
  • Fare, insomma, un Breviario cortissimo e senza ripetizioni. Era il sogno dei liturgisti rinascimentali (Breviario di S. Croce, abolito da S. Pio V) e poi degli Illuministi. Commenta Dom Guéranger: vogliono un Breviario “senza queste Rubriche complicate che obbligano il Sacerdote a fare dell’Ufficio Divino uno studio serio; dal resto le rubriche stesse sono tradizioni, ed è giusto che scompaiono. (…) Senza ripetizioni (…) e molto corto: ecco il grande mezzo di successo! (…). Si vuole un Breviario corto. Lo si avrà; e si troveranno dei Giansenisti per redigerlo”, (pag. 162, e anche 159). Questi tre principi saranno il vanto pubblico delle Riforme del 1955 e 1960: scompaiono le lunghe “Preces”, le memorie, i suffragi, i “Pater, Ave, Credo”, le Antifone alla Madonna, il Simbolo di S. Atanasio, 2/3 del Mattutino, e… chi più ne ha più ne metta!

L’ECUMENISMO NELLA RIFORMA DI GIOVANNI XXIII…

A questo i Giansenisti non ci avevano pensato. La Riforma del 1960 sopprime dalle orazioni del Venerdì Santo l’aggettivo latino “perfidis” ( = senza fede) riferito ai Giudei, ed il sostantivo “perfidiam” ( = empietà) riferito a “Giudaica”. È la porta aperta alla visita alla Sinagoga dei nostri giorni. Al numero 181 delle Rubriche del 1960 si legge: “la Messa contro i pagani venga chiamata: per la difesa della Chiesa. La Messa per togliere lo scisma, venga detta: per l’unità della Chiesa” (solita eresia che nega che la Chiesa è UNA! N.D.R.). Questi cambiamenti rivelano il liberalismo, pacifismo e falso ecumenismo di chi li ha concepiti. Un ultimo punto, ma tra i più gravi. Nel “Breve Esame Critico” contro la “nuova Messa” presentato dai Cardinali Ottaviani e Bacci si dichiara giustamente che è “un chiaro attentato al dogma della Comunione dei Santi la soppressione, quando il sacerdote celebri senza inserviente (cioè da solo. N.d.r.), di tutte le salutationes (cioè “Dominus vobiscum” ecc.) e della benedizione finale” (pag. 18). Infatti, anche se solo, il sacerdote nel celebrare la Messa o dire il Breviario prega a nome di tutta la Chiesa e con tutta la Chiesa. Verità questa negata da Lutero. Ora, questo attentato al dogma era già compiuto dal Breviario di Giovanni XXIII che al sacerdote che lo recita da solo impone di non dire più “Dominus vobiscum – il Signore sia con voi” ma “Domine exaudi orationem meam – Signore, ascolta la mia preghiera”, pensando, con una “professione di pura fede razionalista” (Breve Esame Critico, pag. 18) che il Breviario non sia più la preghiera pubblica della Chiesa, ma una lettura privata.

CONCLUSIONE NECESSARIA

Non serve a nulla la teoria, se non la si applica. Questo articolo non può concludersi senza un caldo invito, innanzitutto ai sacerdoti, a ritornare alla liturgia “canonizzata” dal Concilio di Trento ed alle Rubriche promulgate da San Pio X. Scrive Mons. Gamber: “Molte delle innovazioni promulgate in materia liturgica negli ultimi 25 anni – a cominciare dal decreto sul rinnovamento della Liturgia della Settimana Santa del 9 febbraio 1951 (ancora sotto Pio XII) e dal nuovo Codice delle Rubriche del 25 luglio 1960 (ormai di nuovo superato) fino alla riforma, per continue piccole modificazioni, dell’Ordo Missae del 3 aprile 1969 – si sono dimostrate inutili e dannose alla vita spirituale”. (Op. cit. pag. 44-45). Purtroppo nel campo “tradizionalista” regna la confusione: chi si ferma al 1955, chi al 1965 o 1967; la Fraternità San Pio X, dopo aver adottato la riforma del 1965 è tornata a quella del 1960, di Giovanni XXIII (accordata ora dall’indulto del 1984) benché ci si permetta di introdurre usi anteriori e posteriori! Nei Distretti di Germania, Inghilterra e Stati Uniti, dove si recitava il Breviario di San Pio X, è stato imposto quello di Giovanni XXIII, e ciò non solo per motivi legalistici ma di principio, mentre si tollera a malapena la recitazione privata del Breviario di S. Pio X. Ci illudiamo, sperando che questo, o altri studi, aiutino a capire che la Riforma è UNA in tante tappe, e che tutta si deve rifiutare se non si vuole (absit) accettarla tutta? Solo con l’aiuto di Dio ed idee chiare si potrà ottenere una restaurazione che non duri un’estate di San Martino.

Fonte: https://www.sodalitium.biz/leresia-antiliturgica-dai-giansenisti-giovanni-xxiii/

Verona capitale della ‘Cancel culture’?

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di Giovanni Perez

Grazie all’attuale amministrazione, Verona si candida a diventare la capitale della «Cancel culture», un neologismo con il quale si designa la volontà di eliminare o rimuovere qualsiasi traccia o espressione ritenuta disdicevole, dannosa e perciò pericolosa, rispetto ad un pensiero a priori ritenuto valido, perfetto, l’unico meritevole di essere considerato vero, oltre ogni ragionevole dubbio.

La Cancel culture mette a tacere le opinioni sgradite all’establishment

Il risultato così raggiunto è sempre quello di mettere a tacere con la forza o la legge, le opinioni sgradite, che non si riescono a confutare ponendosi sul loro stesso piano. Ispirandosi a questo atteggiamento irrazionale e manicheo, l’attuale Amministrazione tempo fa introdusse una sorta di “giuramento antifascista”, così come durante il Ventennio si ritenne di chiedere ai docenti universitari di giurare devozione «alla Patria e al Regime Fascista». Siamo, come vede ogni persona mediamente intelligente, al paradosso, anzi, alle comiche. Tra non molto, ci saranno anche, in una qualche bacheca del Comune, i nomi di coloro che non hanno sottoscritto quella clausola perché espressione di una mentalità totalitaria, indicandoli al pubblico ludibrio.

Non contenta di ciò, sempre l’attuale Amministrazione, ha pensato bene di respingere quasi tutte le richieste del Comitato per le celebrazioni delle Pasque Veronesi con motivazioni risibili e addirittura offensive, come si ricava dalla lettura del comunicato diffuso dallo stesso Comitato, disponibile integralmente nella rete.

Andando oltre l’orizzonte della cronaca, merita invece portare l’attenzione sul fatto che, quanto meno, è stata fatta un po’ di chiarezza sulla natura degli schieramenti che si sono così delineati. Ancora oggi, nonostante i temi di cui si parla siano l’Intelligenza artificiale, i flussi migratori, il calo demografico o la transizione energetica, da una parte vi sono coloro che si richiamano alle ideologie rivoluzionarie, riconducibili all’Illuminismo e alla Rivoluzione francese e, dall’altra parte, vi sono i controrivoluzionari, coloro che difendono i principi della civiltà tradizionale. Per i primi, in quel lontano aprile del 1797, meritano di essere definiti patrioti coloro che accolsero come liberatore l’esercito francese, mentre per i secondi, i veri patrioti furono invece gli insorgenti veronesi che, emulando la gloriosa epopea della rivolta antigiacobina della Vandea francese, costrinsero i soldati francesi, responsabili di violenze, requisizioni e prepotenze, a rifugiarsi nei tre castelli presi a rifugio.

La vicenda delle Pasque Veronesi, perciò, lungi dall’essere una pagina di storia confinata in un lontano e polveroso passato, la cui celebrazione per l’attuale Amministrazione di sinistra rappresenta perciò un pericoloso ricordo da cancellare, con ogni mezzo, qualora non si riesca ad offrire di essa una visione “politicamente corretta”. Anche a destra si dovrebbe avere una identica sensibilità, una equivalente fermezza nei confronti di associazioni ideologicamente opposte che battono comunque cassa, il che, purtroppo, accade raramente.

Grazie al dibattito che la palese censura avvenuta ha determinato, l’Amministrazione in carica ha svelato anche un’altra sua vocazione, se capiamo bene, ancor più risibile e grottesca, quella di acclamare l’esistenza nella nostra città di ben due santuari, così come esistevano nell’antica Grecia, a Dodona come a Delfi, con tanto di sacerdoti, oracoli e pellegrini ansiosi di potervi trovare le risposte alle domande che più li affliggevano. In quei luoghi sacri i responsi, purtroppo, erano per lo più oscuri, mentre non lo sono quelli elargiti all’attuale Giunta Tommasi dai due presunti santuari veronesi, invocati alla bisogna, espressione massima del “scientificamente corretto”: quello dell’Istituto veronese per la storia della resistenza e dell’età contemporanea e quell’altro, ritenuto ancor più detentore del crisma della scientificità, ovvero l’Istituto di storia dell’Università di Verona.

Per gli adoratori di questi due santuari la Verità (con la “V” maiuscola!) è conosciuta soltanto dai loro sacerdoti, mentre agli altri, null’altro che miserabili ignoranti, è del tutto preclusa. L’Assessore Jacopo Buffolo è forse a queste fonti oracolari che si è affidato per legittimare la propria presa di posizione censoria che, essendo del tutto ideologica, poteva perciò essere dichiarata fin da subito, evitando inutili ipocrisie. In attesa dei prossimi oracoli, consigliamo al signor Buffolo almeno una lettura, quella della voce Pasque Veronesi, scritta dal grande storico veronese Luigi Simeoni e pubblicata sull’Enciclopedia Italiana nel 1937, prima che un qualche idiota cancelli anche quella in nome di chissà quale oracolo della «Cancel culture» in versione scaligera.

Fonte: https://www.giornaleadige.it/2025/04/07/verona-capitale-cancel-culture/

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