Bentornati Maestri

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di Marcello Veneziani

Torna la storia, torna la geografia, torna l’Italia, torna il latino nelle scuole italiane. Insomma torna un’idea di civiltà, di cultura e di educazione umanistica nella scuola italiana; non solo istruzione, formazione, tecnologia e attualità. È questo il succo dell’annuncio del ministro della Pubblica Istruzione, Giuseppe Valditara, e non possiamo che essere d’accordo con le intenzioni del ministro e dei suoi esperti. E speriamo che i fatti siano all’altezza delle intenzioni.

La storia, è verissimo, è necessaria per formare cittadini “consapevoli e responsabili” e la rimozione della memoria storica nel nostro paese (con la sola eccezione di fascismo, razzismo e antifascismo, come se il mondo fosse nato con la seconda guerra mondiale) è una perdita incommensurabile per ogni paese. Ma ancor più per il nostro paese che sulla grande tradizione civile, umanistica, linguistica e storica ha fondato la sua ricchezza e il suo primato mondiale. Giusto anche il criterio della prossimità territoriale: è giusto che la storia e la cultura italiana vengano prima di quelle internazionali, ed è giusto che la storia europea e occidentale abbia la precedenza sulla storia del mondo e del terzo mondo, verso cui propende una certa ideologia dell’inclusione, dell’accoglienza e dell’amore per il lontano, con l’ignoranza e l’indifferenza per tutto ciò che è a noi più vicino. È un criterio che vale per la storia come per la geografia, per il pensiero come per l’arte e la musica, giustamente potenziata nelle intenzioni della riforma, per un paese così versato nel canto e nell’opera.

Il tema di fondo da affrontare è il ruolo della scuola nella società presente: la scuola non deve andare a rimorchio di quel che fa tendenza oggi; la sua missione e la sua ricchezza è quella di dare ai ragazzi una visione generale, una chiave di lettura, un sapere critico che consenta poi di governare e cavalcare i flussi della nostra via moderna. Non un sapere contro la società, ma un sapere come contrappeso che bilanci una società interamente schiacciata sulla tecnica, sul web, sull’economia e sulla finanza. La scuola, arrivai a dire in passato, deve seguire la lezione di Dante, che elogiava il suo maestro Brunetto Latini perché “Voi m’insegnavate come l’uom s’etterna”. Ovvero la scuola, soprattutto i licei, deve fornire al ragazzo le chiavi per abitare altri mondi oltre il presente: il passato, il futuro, la cultura, il senso dell’eterno, ovvero ciò che non passa, è permanente. Deve insegnare cioè a una società interamente presa dalla connessione on line, anche la connessione verticale, con le epoche e le generazioni passate e con quelle che verranno.

In una parola, la scuola deve riprendere il senso dell’eredità, il rispetto e la lezione dei maestri, degli autori e delle autorità, il dialogo con le altre epoche, premesse indispensabile anche a dialogare con le altre società e con gli altri mondi presenti. Lo dico anche da autore di un libro, Senza eredi che è incentrato proprio sulla denuncia di un’epoca che cancella eredità, maestri e memoria storica. A partire dai classici e dallo studio del latino, che si riaffaccia seppure in chiave facoltativa – come era ai miei tempi – anche nella scuola media dell’obbligo. Riconciliamoci con la nostra lingua madre e con la civiltà da cui proveniamo. Verrà incoraggiata, apprendo, anche la lettura della Bibbia, le poesia a memoria, i testi epici della letteratura classica. E di questo dobbiamo esser grati anche ai tanti esperti che hanno sostenuto queste tesi e al ministro che non ha avuto il timore di sostenerle. Non abbiamo risparmiato critiche e perplessità in passato a Valditara, non amiamo i cedimenti, le compiacenze e le piacionerie di chi crede di salvarsi assecondando la demagogia e l’egemonia ancora imperante; ma quando una cosa ci sembra giusta, coraggiosa e pertinente, anzi necessaria, e quando ci pare che giovi alla scuola, agli studenti e anche ai docenti, ripristinando il ruolo, la missione e la dignità della scuola, mi pare che vada sostenuta senza indugi. Poi, certo, quando dovrà calarsi nella realtà vedremo come si riuscirà a farlo, con quale personale, con quali reazioni, con tutti i dubbi che abbiamo su larga parte dei docenti, e nel clima d’epoca con la pressione ideologica e mediatica che scatterà per annacquare, boicottare o avvelenare i propositi. Intanto, siamo soddisfatti per gli annunci, per le intenzioni e per la visione che li ispira.

Un tempo gli studenti contestavano la scuola voluta dai governi del centro-destra perché ritenevano che fosse succuba di un’idea “berlusconiana” di succursale dell’impresa, subalterna al commercio e al mercato; ricordate le polemiche contro le fatidiche tre i, impresa, internet e inglese. Anch’io ho più volte detto che i ragazzi lo spirito d’impresa, la capacità di usare il computer e di imparare l’inglese li apprendono più dalla vita, dall’esperienza reale di ogni giorno, insomma imparano più sul campo che nella grottesca, tardiva e impacciata caricatura scolastica, ad opera peraltro di un personale non attrezzato per quei tre compiti. La scuola non deve inseguire il mondo, l’attualità, le utilità più effimere, soprattutto in una società fondata sul commercio, i consumi, le performance tecnologiche; refrattaria al sapere umanistico, che reputa inutile e obsoleto. Ma, vedrete, ora contesteranno a Valditara l’esatto contrario di quel che contestavano ai governi Berlusconi e al ministro Letizia Moratti: di riportare la scuola al passato, a un versione reazionaria, nazionalista, anzi suprematista, tardo-umanistica, provinciale e italocentrica.

L’ignoranza avanza, la barbarie corrode ogni giorno pezzi di società, di scuola e di vita, l’incuria prevale e si fa menefreghismo più accidia. I prof diventano istruttori e intrattenitori, a volte le classi sono affollate d’insegnanti di sostegno, come in un suk di avventori, balie e animatori. Cercare di risalire la corrente, avere il coraggio di invertire la discesa, perlomeno provarci, è finalmente un buon segno di vita e di intelligenza. Bentornati maestri, docenti, anzi insegnanti, cioè persone che lasciano un segno.

 

Fonte: https://www.marcelloveneziani.com/articoli/bentornati-maestri/

L’Oscar di Wright e Marinelli: il Fascismo è più vivo che mai

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L’Oscar di Wright e Marinelli: il Fascismo è più vivo che mai

 

di Lorenzo Cafarchio

Milano, 13 gennaio – Lo abbiamo fatto per voi. Ci siamo messi davanti alla televisione e ci siamo sciorinati gli otto episodi, divisi in due capitoli, della serie televisiva del momento, che alla fine sarà anche dell’anno, M – Il figlio del secolo. Diretta da Joe Wright, scritta da Stefano Bises e Davide Serino, prende vita – lo sanno anche i sassi – dall’opera letteraria di Antonio Scurati.

Un film degno del miglior Copperfield

Benito Mussolini è interpretato da Luca Marinelli che però richiama nella sua maschera il Pinguino di Batman. Chiaro più ci si allontana dal fenomeno del Fascismo più gli epifenomeni dell’antifascismo generano effetti marchiani. Eppure mettersi qui a de-costruire lo sceneggiato gioverebbe solamente alla struttura che ha messo in piedi l’opera. Certo Filippo Tommaso Marinetti trasformato in un guitto sovrappeso che urla a favore di telecamera “zang zang tumb tumb” come un ossesso, alla stregua dell’ubriacone di paese che puoi incontrare nel bar all’angolo della periferia italiana la domenica pomeriggio dopo le 17:30, e Margherita Sarfatti modellata a fodero del pene di Sua Eccellenza – Marracash, il rapper di quelli che ben pensano, avrebbe detto “il sacco a pelo del cazzo”, ma ci siamo capiti – sono un’operazione cinematografica degna del miglior David Copperfield.

Spariscono i caratteri, le idee e le visioni proprio come l’illusionista statunitense fece sparire la Statua della Libertà. C’è solo Benito Amilcare Andrea Mussolini e tutto intorno il nulla o meglio dei cartonati che si muovono sullo sfondo del suo conclamato, nel girato, delirio da padreterno.

Il Mussolini “americano” di Wright

Renzo De Felice scrisse che l’errore spesso commesso nel giudicare la parabola del più giovane Primo Ministro italiano della storia, prima dell’avvento di Matteo Renzi (chiaramente), è di considerarlo romagnolo piuttosto che milanese. Ecco Mussolini fu cesellato dalla città delle rivoluzioni italiane mentre quello di Joe Wright è perfettamente anglosassone. Anzi americano. Ha tutti i tic e i difetti tipici del gigantismo a stelle e strisce. E infatti, in questo spasmodico rapporto con la telecamera e perforazione della quarta parete, a un certo punto diventa Donald Trump asserendo: “Make Italia Great Again”. Da MAGA a MIGA(cazzi).

Gonfio come gli americani, bolso e con un ego smisurato. Sembra il perfetto affresco dell’Incubo ad aria condizionata descritto a fine degli anni ‘30 da Henry Miller. “Questo il tema, il rapporto tra saggezza e vitalità, m’interessa perché, contro l’opinione generale, non sono mai stato capace di considerare l’America giovane e vitale ma la vedo piuttosto prematuramente invecchiata, come un frutto marcito prima d’aver avuto la possibilità di maturare”. Ecco il Fascismo che vuole emergere da M – Il figlio del secolo.

Nostalgia… di Antonio Banderas

Passano i minuti e la nostalgia di Antonio Banderas e la sua interpretazione ne “Il giovane Mussolini”, senza accenti romagnoli, è palpabile. Specie nei discorsi. Specie quando guardando il tramonto professa il verbo della santa teppa e della rivoluzione (su YouTube si trova l’estratto). Ah e Rachele Guidi era interpretata da Claudia Koll, ça va sans dire. In un’intervista, tra le mille mila rilasciate, Luca Marinelli ha asserito che il regista all’indomani della vittoria alle elezioni politiche di Giorgia Meloni ha voluto registrare l’opera in italiano invece che in inglese. Questo la dice lunga sull’operazione realizzata. Il girato è per luci, colori, mosse, dinamismo e musiche – la colonna sonora opera dei Chemical Brothers – di livello assoluto. Non ci interessa quindi entrare nel merito dei tecnicismi.

Il travisamento della storia

L’alterazione maggiore è trasformare una rivoluzione, quella fascista, che ha avuto più morti tra le proprie file nel biennio rosso, 1919-1921, piuttosto che in quelle registrare nelle file nemiche in una macchina dell’eliminazione sistematica. Stalin levati proprio. Basterebbe leggere “Nascita dell’ideologia fascista” dello storico israeliano Zeev Sternhell per capire la distorsione. Ecco l’effetto speciale migliore: il travisamento della storia.

L’antifascismo, nuovamente, ha voluto raccontarci il Fascismo come un incubo, ancor meglio Mussolini nightmare, senza rendersi conto che di questa gigantesca operazione resteranno i reel, le pubblicità a reti unificate, i meme e l’invasione social. Ogni cosa rientrerà, nella notte, dalla loro stessa finestra per insediarsi in sogni bagnati, incapaci di storicizzarsi, diventando essi stessi ossessioni e tormenti. Inabili a uccidere l’idea di Mussolini lo martirizzano trasformandolo in un eterno ritorno. L’Oscar nella categoria “Fascismo più vivo che mai” va a Joe Wright e Luca Marinelli. Applausi in sala, quasi, come il 23 marzo 1919 in Piazza San Sepolcro a Milano.

Lorenzo Cafarchio

 

Fonte: https://www.ilprimatonazionale.it/cultura/loscar-di-wright-e-marinelli-il-fascismo-e-piu-vivo-che-mai-284658/

Perché la Cina è, in Realtà, il Miglior Amico degli Stati Uniti

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di Matteo Castagna
Il 21 ottobre 2024, nell’ambito di alcuni incontri sull’economia internazionale presso il Council on Foreign Relations, l’Amministratore Delegato di MCC Production e membro del CFR, Michelle Caruso-Cabrera ha intervistato il principale analista del Financial Times, l’ottantenne Martin Wolf.
Egli dichiara che l’elezione di Donald Trump del 5 Novembre 2024 farà prendere al mondo una direzione che non si sarebbe mai aspettato, nel corso della sua lunga carriera.
Gli USA del tycoon vogliono recedere dalla globalizzazione. Sul piano mondiale, The Donald vorrebbe porre fine a quel ruolo messianico di “gendarmi del mondo” che gli americani si sono dati, almeno a partire dal 1945. L’idea che il compito dell’America fosse quello di andare ovunque a importare il suo modello di democrazia, per rendere “un posto migliore” questo e quell’altro Stato, si è dimostrata fallimentare, producendo nel corso degli anni, più malcontento internazionale, contro la una certa sua smania “egemonico-coloniale”, che effettivi benefici.
Per questo motivo, Trump vorrebbe distruggere il modello di Occidente, finora conosciuto, in cui gli USA hanno un ruolo primario e protettivo degli altri alleati – sostiene Martin Wolf – a favore di una loro maggiore autonomia e sovranità, che consenta al nuovo Presidente ed al suo governo di concentrarsi su quell’”America First”, di cui si fa da tempo portavoce. “Dati il suo ruolo e la sua potenza, l’idea che l’America possa ritirarsi dal mondo non arride a nessuno. Persino ai cinesi, questa prospettiva crea problemi”. Su questo torneremo dopo.
Secondo Wolf, “i cinesi si stanno impegnando con zelo a rovinarsi da soli”, di fronte al fatto che la loro paranoia stia nel fatto che il reale obiettivo degli americani sia quello di distruggere la Cina e non di contenerla, mentre secondo il noto economista “dovremo, in un modo o nell’altro, convivere con la potenza cinese”.
“Dobbiamo cercare di cooperare in maniera pacifica con la Cina, quale superpotenza militare, al fine di garantire la nostra sicurezza nazionale”. Per far questo ed evitare che la competizione militare vada fuori controllo, sarà necessario uno sforzo imponente a livello politico-diplomatico, precisa Wolf.
Storicamente, egli è contrario ad implementare una politica industriale interna, come parrebbe voler fare Trump, in particolare su quella manifatturiera. “Il fatto è che in futuro – puntualizza Wolf – non ci sarà nessuno a lavorare in fabbrica: fra trent’anni faranno tutto le macchine e i robot. Dunque il tentativo di ricreare la vecchia classe degli operai è destinato a fallire”.
Perciò, la soluzione di Wolf sarebbe quella di investire nell’innovazione, “creando nuove industrie, e di punta, competitive a livello globale, che concorrano a rendere il mondo un posto migliore”. Sebbene egli ammetta che, per il momento, non vede qualcuno capace di realizzarlo, né in UE, né in USA. Ma auspica che gli USA riescano in fretta, perché la Ue è molto più indietro rispetto a loro in termini di PIL pro capite e totale, nonché la dinamica demografica è nettamente in favore degli Stati Uniti.
Investire nei settori tecnologici ed informatici è stata una carta vincente, sia per l’America, che per la Cina. L’Europa viene molto dopo e “sta affrontando una crisi economica molto, molto seria, con la diminuzione della produttività e della natalità, riducendo considerevolmente la sua competitività sui mercati globali”. Secondo Wolf, il rapporto Draghi sugli ultimi cinquant’anni, dimostra che l’Europa non è riuscita nell’intento di diventare una leader nelle tecnologie informatiche, soprattutto, attraverso il mercato unico europeo, che non ha funzionato.
Infine, l’economista del Financial Times, conclude con una battuta sulla Cina, che potenzialmente potrebbe rilanciare un modello economico prospero e vincente, mentre si limita e forse si limiterà alla vecchia politica industriale dirigista.
“Non credo che i leader cinesi abbiano intenzione di introdurre le innovazioni necessarie. Quindi il problema, risolvibile in teoria, resterà irrisolto. Ecco il senso di quanto ho detto prima: nel conflitto con la Cina, il migliore amico dell’America è, in realtà, la dirigenza cinese”.
Fonte: https://www.marcotosatti.com/2025/01/11/perche-la-cina-e-in-realta-il-miglior-amico-degli-stati-uniti-matteo-castagna/

CHARLIE HEBDO E LA FRANCIA MALATA

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Charlie Hebdo è un settimanale sedicente “satirico” di sinistra fondato negli anni Settanta a Parigi.

Nel 2015 la sua sede fu attaccata da due uomini armati di Kalashnikov, che uccisero dodici persone, tra cui il direttore Stéphane Charbonnier. Fu la risposta a diverse vignette sull’Islam pubblicate dalla rivista. I terroristi morirono due giorni dopo in un conflitto a fuoco con le forze dell’ordine.

Immediatamente scattarono in tutto l’Occidente manifestazioni di solidarietà al giornale e di sacrosanta condanna per l’attentato, al grido di “Je suis Charlie” – Io sono Charlie -. Il problema sembrava essere il terrorismo e l’intolleranza islamista, il che era vero solo in parte.

Charlie Hebdo si è sempre distinto non già per la satira, che è critica ironica, sbeffeggiamento intelligente, in genere rivolti al potere. Il settimanale francese si compiace, piuttosto, del proprio cattivo gusto, dell’offesa, dell’insulto becero, gratuito, volgare verso tutto ciò che può esservi di sacro, non solo in termini religiosi.

Il principio ispiratore della rivista sembra essere: il tuo credo non è il mio, i tuoi valori non sono i miei, i tuoi morti non sono i miei e quindi mi arrogo il diritto di oltraggiarli come e quanto mi pare. Non si è limitato all’Islam, Charlie Hebdo, anzi. Il tripudio di blasfemia delle vignette dedicate al cattolicesimo è qualcosa di nauseante.

Ma, come abbiamo scritto, il settimanale non si limita ad offendere le religioni e i loro credenti. Charlie Hebdo può “vantarsi” anche di aver insultato le vittime del terremoto in Turchia, quelle del sisma di Amatrice, quelle della valanga di Rigopiano e molto altro.

I manifestanti di “Je suis Charlie” rivendicavano la libertà di espressione, la laicità, gli altisonanti valori “de la Republique” e lo hanno ribadito nel decennale della strage, pochi giorni fa. Peccato che proprio la Francia non sia esattamente un esempio di libertà di espressione.

Certo, con la scusa della sedicente “satira”, si può calpestare la dignità di chiunque. Macron ha addirittura farneticato di un fantomatico “diritto alla blasfemia”. Ma guai a testimoniare la propria fede religiosa. Un provvedimento del 2004 vieta l’uso di simboli religiosi all’interno di scuole, collegi e licei pubblici.

Il governo Macron nel 2018 ha esteso la proibizione anche al Parlamento, cosa criticata addirittura dall’Osservatorio per la laicità. La Francia, un tempo cattolicissima, con la Rivoluzione del 1789 e l’imposizione del laicismo, di fatto non ha abbandonato la religione. Ne ha abbracciato una nuova: la laicità stessa. E lo ha fatto in modo integralista. I suoi rigidi dogmi prevedono che il sentimento religioso e le sue manifestazioni siano espulsi dalla sfera pubblica e relegati il più possibile nell’ambito privato.

Nel caso del cattolicesimo, una sorta di ritorno alle catacombe per la fede che ha fatto grande la Francia e ne ha costituito l’anima più vera. Ma la vicenda di Charlie Hebdo ci parla anche di una nemesi storica.

Proprio i cosiddetti valori della Republique che hanno indebolito fortemente lo spirito cattolico della Francia, hanno originato un vuoto che l’Islam, anche nelle sue forme più radicali, degli immigrati di diverse generazioni sta riempendo. E, ragionando a lungo termine ma non troppo, tenuto conto dei tassi demografici, si profila un tempo in cui i vignettisti di Charlie Hebdo, e non solo loro, avranno poco da ridere.

Raffaele Amato

 

 

Fonte: https://www.2dipicche.news/charlie-hebdo-e-la-francia-malata/

Per un’Italia del “pensiero unico”

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Riceviamo e pubblichiamo questo contributo da parte di un lettore che non conosciamo e che ha esplicitato la veridicità del nome. A quanto correttamente scritto, potremmo raggiungere che, negli ultimi due decenni il Partito Radicale è diventato di massa nel centrosinistra, con l’unica sfumatura d’essere iper-sionista.

di Riccardo Sampaolo

Il Partito Radicale è indubbiamente stato il principale responsabile della modernizzazione dell’Italia e l’artefice indiscusso della grande stagione dei diritti civili, di cui la legge sul divorzio, e il fallimento del referendum del 1974, sono stati lo spartiacque per una nuova Italia, che iniziava a vantarsi di essersi messa finalmente alle spalle la visione cattolica, rurale, sacrale, comunitaria, socializzante, senza accorgersi che si sarebbe passati gradualmente ad abbracciare una continua, inesorabile e quasi infinita normazione ossessiva, che è oramai un aspetto saliente di questo Occidente, sempre meno fondato sulle sue radici classiche o cristiane, e sempre più in balia del pensiero progressista a senso unico, sotto la continua e interminabile egida di una normazione sempre più ossessiva e cavillosa.

Una società tanto più è atomizzata e tanto più ha bisogno di essere sottoposta a legislazione stringente. La legge assume quindi una dimensione che va ben oltre il perimetro all' interno del quale ci si può muovere e diventa sempre più il canale comportamentale esclusivo nei più disparati ambiti, fino a poco tempo prima non normati, riducendo continuamente i liberi margini di autonomia degli individui e desocializzando la comunità.

Il Partito Radicale ieri, e il suo diretto discendente oggi, +Europa, hanno sempre ottenuto consensi limitati, ma nonostante ciò la loro visione del mondo è di fatto oggi imperante; liberismo, atlantismo, femminismo, liberalizzazione dei costumi, americanismo, genderismo, financo immigrazionismo , sono aspetti odierni del nuovo conformismo, dai tratti pesantemente totalizzanti, e sono la quasi interezza del bagaglio culturale-ideologico di tale partito, il quale è messo in frequente, e spesso aprioristico, positivo risalto dalla maggioranza dei media, che rischiano di agire quindi, come pericoloso vettore pensierounicista.

L’impiego sapiente, oculato e insistente della finestra di Overton è stato il principale strumento che ha indotto nelle masse, sempre più atomizzate, l'accettazione di un
percorso, che a un’attenta analisi, ha liberato l'individuo dalla comunità, relegandolo a conflitti permanenti, di tipo orizzontale con le sue più prossime conoscenze, siano esse familiari o di
altra natura, riposizionando l'essenza dello Stato, da garante dei diritti sociali, a strumento per il perseguimento, progressivo e continuo di diritti individuali, la cui individuazione, non di rado
proveniva da settori circoscritti della società, in prevalenza urbana, e quindi non in grado di esprimere un sentire genuinamente popolare di ampio respiro.

Ci troviamo quindi, da tempo, trascinati verso una direzione “valoriale”, il cui motore propulsivo è rappresentato da un piccolo partito, che è stato in grado di infondere, in quasi tutti gli altri, il proprio bagaglio politico, fatto di liberismo, atlantismo, femminismo, liberalizzazione dei costumi, genderismo, che sono oramai l'asse portante dell' ideologia dominante, abbracciata da quasi tutti i partiti politici, di una certa rilevanza, in Italia.

Il quadro è ovviamente desolante, soprattutto per il fatto che il dissenso da tale visione ha sui media una visibilità infima. Un qualsiasi lettore potrebbe comunque chiedersi quale sia il problema di tale capillare
diffusione “valoriale”, e io mi sentirei di rispondergli che il mondo radicalpannelliano è tra i principali artefici di una visione che vede l'Italia come una periferia retrograda dell' Occidente da
modernizzare, attraverso il faro luminoso di un certo mondo anglosassone votato alla pericolosa concezione che esistono solo individui e leggi, e non esiste alcuna società, e tantomeno comunità; è questa la più pericolosa deriva attualmente in corso da tempo, che ha compiuto poderosi passi in avanti, nella direzione sbagliata.

Mercato del debito: zavorra per l’Africa

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Segnalazione Arianna Editrice

di Mario Lettieri e Paolo Raimondi – 29/12/2024

Fonte: Mario Lettieri e Paolo Raimondi

Da quando il suo debito è negoziato sui mercati internazionali, il problema per l’Africa si è fatto più critico. Alla fine del 2023, il 49% del debito africano era in mano di privati, cioè di fondi, di banche e di altri finanzieri internazionali. Si prevede che salirà al 54% entro la fine del 2024. Tra il 2015 e il 2022, per 49 dei 54 paesi africani i costi medi del servizio del debito sono aumentati dall’8,4% al 12,7% del pil. Secondo l’African Economic Outlook Report della Banca africana per lo sviluppo (AfDB), nel 2024 i paesi africani dovrebbero spendere circa 74 miliardi di dollari per il servizio del debito. Rispetto ai 17 miliardi del 2010. 40 dei 74 miliardi è dovuto a creditori privati.
Il vicepresidente e capo economista dell’AfDB, Prof. Kevin Urama, intervenendo il 30 novembre alla quinta sessione straordinaria del Comitato per la finanza e gli affari monetari dell’Unione africana, tenutosi ad Abuja, in Nigeria, ha affermato: “La mutevole struttura del debito verso i creditori privati comporta opportunità e sfide. Quando prendono a prestito sui mercati dei capitali internazionali, i paesi africani pagano interessi del 500% in più rispetto a quanto pagherebbero all’AfDB e alla Banca mondiale”. Si tenga presente che dal 2010 il debito pubblico dell’Africa è aumentato del 170%, in gran parte a causa dei problemi strutturali del sistema debitorio, dei recenti shock globali e delle sue note debolezze.
Una delle ragioni dell’alto costo è certamente la tendenza di utilizzare debiti a breve termine e, quindi, a interesse alti, per finanziare progetti di sviluppo a lungo termine. Lo chiede il mercato. Le implicazioni per la sostenibilità del debito nel medio e lungo periodo sono ovvie.  Come conseguenza, 20 paesi africani sono attualmente in difficoltà debitorie o ad alto rischio di esserlo, rispetto ai 13 del 2010.
Sempre secondo l’AfDB il rapporto debito pubblico/pil è mediamente cresciuto dal 54,5% del 2019 al 64% del 2020 per poi rimanere relativamente stabile.  Dal 2000 al 2021 23 paesi africani hanno cercato crediti sui mercati privati per un totale di 1.510 miliardi di dollari. La stragrande maggioranza del debito pubblico verso l’estero è in dollari: nel 2022 circa il 70%, mentre quello in euro solo il 14,5%. Questa dipendenza dal dollaro è diventata nefasta quando la Federal Reserve ha alzato i tassi d’interesse. Molti paesi coprono i deficit di bilancio non pagando, ma rifinanziando i debiti in scadenza, soprattutto verso i fornitori privati di merci e di servizi e verso i creditori istituzionali. Il pagamento degli interessi sul debito rappresenta, mediamente per l’Africa nell’ultimo decennio, il 12,7% del pil, mentre la spesa per la salute solo 1,8% e quella per l’istruzione il 3,6 %.
Nel suo Regional Economic Outlook per l’Africa sub sahariana di ottobre, anche il Fondo monetario internazionale ha dipinto un quadro preoccupante: “L’inflazione rimane a due cifre in quasi un terzo dei paesi. La capacità di servizio del debito è bassa e l’aumento degli oneri debitori sta erodendo le risorse disponibili per lo sviluppo. Le riserve valutarie sono spesso insufficienti.”. I paesi esportatori di materie prime e di petrolio sarebbero in maggiori difficoltà.  
Anche per tutte queste ragioni i leader africani chiedono riforme urgenti del sistema finanziario globale. Non vogliono essere le vittime delle speculazioni finanziarie e sulle commodity. Nello stesso tempo operano per un meccanismo di stabilità finanziaria regionale, per l’utilizzo delle monete locali nei commerci interafricani e, dove possibile, con il resto del mondo. In questo processo ci s’ispira alla Nuova Banca di sviluppo (Ndb) dei Brics.
Alla luce delle tensioni geopolitiche, dei rischi climatici e delle imprevedibili tendenze economiche globali, l’eccessiva dipendenza dell’Africa dai mercati esterni sta diventando sempre più problematica. L’AfDB enfatizza, perciò, la necessità di un sistema finanziario africano più solido e resiliente e di sforzi concertati per realizzare gli obiettivi d’integrazione economica a lungo termine del continente.
Molti paesi africani, tra cui la Nigeria, la più forte economia del continente, operano per stabilire istituzioni come l’African Monetary Institute e l’African Financing Stability Mechanism, sulla scia delle esperienze europee, che sono essenziali per raggiungere la convergenza macroeconomica, la resilienza finanziaria, l’indipendenza economica e l’autosufficienza del continente africano.
Queste problematiche economiche dei vari paesi africani non possono essere sottaciute o ignorate da chi – siano essi le amministrazioni americane, l’Ue e i vari paesi europei, a cominciare dall’Italia con il suo Piano Mattei – intende avere rapporti stabili con il continente. Si tratta in particolare di quei problemi finanziari strutturali globali che hanno ricadute nei paesi dell’Africa e del Sud del mondo. Sottovalutarli e non affrontarli vuol anche dire favorire un’incontrollata emigrazione di massa con i suoi effetti destabilizzanti.

 

Radici fascistissime della nostra Repubblica Anti-Fascista. Sofri elogia il perdonismo di Bergoglio

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EDITORIALE

di Matteo Castagna per https://www.marcotosatti.com/2024/12/30/radici-fascistissime-della-repubblica-anti-fascista-sofri-elogia-il-perdonismo-di-bergoglio-matteo-castagna/  Stilum Curiae è il sito del vaticanista Marco Tosatti per cui Castagna scrive con cadenza settimanale (Matteo Castagna, Comunicatore Pubblico, tessera n. 2343 ex L.4/2013, fa parte della Redazioni di: Stilum Curiae, Affaritaliani.it, InFormazioneCattolica.it e Il2diPicche.news)

Marco Tosatti

Cari amici e nemici di Stilum Curiae, Matteo castagna, che ringraziamo di cuore, offre alla vostra attenzione queste riflessioni sulle radici fascistissime della nostra Repubblica antifascista, Sofri e Bergoglio. Buona lettura e diffusione.

di Matteo Castagna
 
Viviamo in un’Italia che non vuole fare i conti col suo passato. O, almeno, che continua a considerare la storia come una lotta tra chi è stato dalla parte giusta e da chi dalla sbagliata. Lo sforzo di grandi scrittori e docenti, come Renzo De Felice, Indro Montanelli, Marcello Veneziani, Giampaolo Pansa, e altri coraggiosi, mirato a descrivere la verità dei fatti del dopoguerra, ma anche della guerra civile 43′-45′, e le ragioni dei vinti, è stato censurato dai soloni del pensiero unico, in una maniera, a mio avviso, brutale, irrispettosa, isterica, manichea e intollerante.
Già leggendo il testo del 1976 “Camerata, dove sei?”, ristampato da pochi anni, da Angelo Paratico, della Gingko Edizioni di Verona, vide nella democratica, pluralista e difficile repubblica democristiana, una censura tale da indurre lo scrivente a usare lo pseudonimo di “Anonimo Nero” e a celare la casa editrice, per timor di ritorsioni. Perché lungi dalla probabile ideologia dell’autore, ciò che vi era scritto era vero e ben documentato, al punto da mettere in serio imbarazzo l’establishment dell’epoca.
La tristezza è che la nostra Costituzione e la nostra Repubblica arrivano dalle mani di molti voltagabbana. Un Benigno Zaccagnini, con l’aspetto “benigno” del curato di campagna, ma che scriveva di razza e di sangue, come fosse l’Himmler de noantri? No, non lo credevo possibile. Un Davide Lajolo che gioiva  per l’entrata in guerra. Un Aldo Moro che poneva la razza prima e la religione cattolica quarta nella scala delle priorità. Un Giovanni Spadolini che gioiva per le uscite aggressive del Duce, perché ci teneva al proprio posto di lavoro…
Tutti i celebri personaggi che vengono passati in rassegna, devoti e fidati fascisti durante il ventennio, erano ancora in posizioni apicali di potere nel 1976 e dunque ben in grado di reagire con violenza al disvelamento dei propri trascorsi.
Giulio Andreotti, Michelangelo Antonioni, Domenico Bartoli, Arrigo BenedettiRosario Bentivegna, Carlo Bernari, Libero Bigiaretti, Giacinto Bosco, Paolo Bufalini, Felice Chilanti, Danilo De’ Cocci, Galvano Della Volpe, Antigono Donati, Amintore Fanfani, Mario Ferrari Aggradi, Massimo Franciosa, Fidia Gambetti, Alfonso Gatto, Giovanni Battista Gianquinto, Vittorio Gorresio, Luigi Gui, Renato Guttuso, Ugo Indrio, Pietro Ingrao, Davide Lajolo, Carlo Lizzani, Carlo Mazzarella, Milena Milani, Alberto MondadoriElsa MoranteAldo Moro, Pietro Nenni, Ruggero Orlando, Ferruccio ParriPier Paolo Pasolini, Mariano Pintus, Luigi Preti, Giorgio Prosperi, Ludovico Quaroni Tullia Romagnoli Carettoni, Edilio RusconiEugenio Scalfari, Giovanni Spadolini, Gaetano Stammati, Paolo Sylos Labini, Paolo Emilio Taviani, Arturo Tofanelli, Palmiro Togliatti, Marcello Venturoli, Benigno ZaccagniniCesare Zavattini erano tutti riusciti a passare indenni attraverso la guerra, che loro stessi avevano provocato (ciascuno per la sua parte) evocato e applaudito, ma poi si erano riciclati a sinistra e al centro, dando spesso contro ai vecchi camerati e negando di esserlo mai stati.
A loro aggiungiamo i fascistissimi Cesare PaveseGiorgio BoccaGiaime Pintor e l’ex presidente del Tribunale della Razza, poi diventato ministro e assistente di Togliatti, Gaetano Azzariti. Il loro problema fu che scrissero su giornali e riviste, usando il proprio nome, per questo motivo la loro militanza fascista resta innegabile.
In fondo, tutti quanti avrebbero dovuto essere esclusi da cariche pubbliche nella Repubblica Italiana, in quanto profittatori del regime, ma le cose sono andate altrimenti, come ben sappiamo. E proprio per questo peccato originale stiamo ancora scontando il prezzo.
Oltre ai voltagabbana, l’Italia si distingue per aver messo in cattedra i “cattivi maestri” quali Renato Curcio e Adriano Sofri, che negli anni hanno spiegato ai giovani la politica e scritto editoriali sui giornali, anche stavolta coi loro nomi e cognomi, mentre altri, d’opposta fazione, hanno trovato minimo spazio su qualche quotidiano, sotto pseudonimo.
Ebbene, il 27 dicembre, Il Foglio, che non è certo nuovo a certe firme, offre ai lettori una perla di Adriano Sofri, ex leader del movimento extraparlamentare marxista armato Lotta Continua, condannato a ventidue anni di carcere quale mandante, assieme a Giorgio Pietrostefani dell’omicidio del commissario di polizia Luigi Calabresi, avvenuto nel 1972, mentre come esecutori materiali furono condannati i due militanti di Lotta Continua Leonardo Marino e Ovidio Bompressi.

Arrestato nel 1988 e poco dopo rinviato a giudizio, fu condannato e incarcerato per il reato di concorso morale in omicidio, dapprima nel 1990 e poi in via definitiva nel gennaio 1997. Scontò la pena dal 2005 in regime di semilibertà e dal 2006 di detenzione domiciliare, a causa di problemi di salute, venendo scarcerato nel gennaio 2012 per decorrenza della pena, che era stata ridotta a 15 anni per effetto dei benefici di legge. 

Eppure, Sofri scrisse in un editoriale del 18/05/1972, che non fu sufficiente ad un ergastolo da scontare in galera: «L’omicidio politico non è l’arma decisiva per l’emancipazione delle masse, anche se questo non può indurci a deplorare l’uccisione di Calabresi, atto in cui gli sfruttati riconoscono la propria volontà di giustizia».

La perla de Il Foglio, a firma Sofri, si intitola: “Le parole di un Papa con cui simpatizzo perché dice tutto e il contrario di tutto”.  L’ex terrorista rosso scrive che “all’Angelus, ha detto con un estremo vigore che Dio “perdona tutto, perdona a tutti”. Non è vero, perdona ai puri di cuore, sinceramente pentiti e ravveduti, che hanno riparato al mal fatto. Ma a Sofri piace il buonismo perché, probabilmente, gli dà una speranza che va oltre il pentimento e lo conferma nell’errore.

“E’ andato ad aprire “la basilica di Rebibbia”, ci è entrato tirandosi su in piedi, ha esortato a spalancare porte e braccia e cuori, il senso del Giubileo, e all’uscita, dal finestrino aperto della sua utilitaria, ha detto che in galera ci sono i pesci piccoli, soprattutto i pesci piccoli, e che i pesci grossi hanno l’astuzia di rimanerne fuori, che è una bella idea a Buenos Aires e nel resto del mondo, e avrà fatto bestemmiare qualche grosso peccatore dentro e fuori. Ha detto: “Dobbiamo accompagnare i detenuti e Gesù dice che il giorno del giudizio saremo giudicati su questo: ero in carcere e mi hai visitato”. 

Che poi, non vengano proposti il totale pentimento, la necessità della contrizione, il ravvedimento, poco importa a Bergoglio e pure a Sofri, che ne approfitta. Ma che entrambi siano sostanzialmente d’accordo sul perdono universale senza merito dovrebbe preoccupare più di qualcuno…

 

 

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